Falsa attestazione di presenza in ufficio del pubblico dipendente e

Falsa attestazione di presenza in ufficio del pubblico dipendente e truffa aggravata

'Falsa attestazione di presenza in ufficio del pubblico dipendente e truffa aggravata'
Falsa attestazione di presenza in ufficio del pubblico dipendente e truffa aggravata

Con la sentenza n. 40461 del 7 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha sottolineato che commette il reato di truffa aggravata il dipendente pubblico che attesta falsamente la sua presenza in ufficio anche indipendentemente dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la decisione del Tribunale che aveva condannato l'imputato Tizio alle sanzioni ritenute di giustizia, in riferimento ai contestati reati di truffa ai danni dello Stato e false attestazioni indirizzate all'autorità giudiziaria circa le condizioni di adempimento della obbligazione di lavoro svolta in determinati orari. Le sanzioni irrogate in ordine a ciascuno dei reati, non avvinti dalla continuazione, erano state misurate all'esito del riconoscimento delle due circostanze attenuanti riconosciute in regime di prevalenza. Inoltre, in primo grado erano già stati riconosciuti i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario rilasciato a richiesta dei privati. Il giudizio di primo grado aveva accertato la penale responsabilità dell'imputato per avere, con artifizi e raggiri consistiti nel far rilevare elettronicamente orari di entrata e di uscita dal luogo di lavoro differenti da quelli registrati dagli apparecchi di video sorveglianza installati dalla polizia giudiziaria nei locali di ingresso dello stabile, lasciato il posto di lavoro nei giorni e nelle ore analiticamente indicate in imputazione, pur risultando la sua presenza regolarmente registrata dal cartellino marcatempo assegnato, così procurandosi, in danno dell'amministrazione, l'ingiusto profitto della retribuzione (o trattamento giuridico equipollente) indebitamente percepita in relazione a prestazioni orarie non svolte. Concorreva il delitto di cui all'art. 374 bis c.p., dal momento che l'imputato, in allegato alla memoria prodotta al Pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, aveva depositato documenti con contenuto non rispondente al vero, attraverso i quali intendeva dimostrare la legittimità dei riscontrati allontanamenti dal posto di lavoro. Detti documenti erano stati inizialmente prodotti nella competente sede amministrativa al fine di giustificare le medesime assenze.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione della legge penale sostanziale e i vizi esiziali di motivazione relativamente alla ritenuta sussistenza e piena offensività del reato di truffa contestato. Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto del difetto di profitto e di corrispondente danno nelle condotte contestate, tanto in ragione dei crediti orari maturati, quanto per le compensazioni interne già operate, quanto altresì in ragione della funzione vicaria (del dirigente) in concreto rivestita dall'imputato, che non sarebbe, quindi, stato tenuto ad alcuna segnalazione degli orari di entrata ed uscita dal luogo di lavoro.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte dava torto a Tizio. I giudici di legittimità affermavano che “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull'organizzazione dell'ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l'ente al suo dipendente”. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'