Posts in category “Diritto Tributario”

VENTI ANNI DI STATUTO DEL CONTRIBUENTE - MOTIVAZIONE DELL’ACCERTAMENTO CATASTALE

Lo Statuto dei Diritti del Contribuente, con la Legge n. 212 del 27 luglio 2000, entrata in vigore il 1° agosto 2000, compie venti anni. E’ una legge importante perché stabilisce principi che devono essere rispettati nei rapporti tra contribuenti e fisco. Purtroppo, si tratta soltanto di legge ordinaria, che in quanto tale è stata spesso derogata dal legislatore fiscale, come per esempio con gli ultimi tre decreti-legge emanati durante il periodo Covid-19. Secondo me, per dare maggiore dignità al suddetto Statuto è necessario inserirlo tra le norme costituzionali, in modo che non sia continuamente derogato. Un principio importante stabilito dallo Statuto è quello della chiarezza e motivazione degli atti, previsto e disciplinato dall’art. 7 Legge n. 212/2000 cit.. Questo principio è stato più volte utilizzato dalla Corte di Cassazione per l’annullamento degli accertamenti catastali. L'atto tributario del classamento delle unità immobiliari a destinazione ordinaria consiste nel collocare ogni singola unità in una data categoria e in una data classe, in base alle quali attribuire la rendita (artt. 61 del D.P.R. 1° dicembre 1949 n. 1142 e 8 del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138); categoria e classe costituiscono, quindi, i due distinti segmenti dell'unitaria operazione del classamento. Ai sensi dell'art. 8, commi 2 e 3, del D.P.R. 23 marzo 1938 n. 138, la categoria viene assegnata sulla base della normale destinazione funzionale dell'unità immobiliare, tenuto conto dei caratteri tipologici e costruttivi specifici e delle consuetudini locali, mentre la classe, rappresentativa del livello reddituale ordinario ritraibile nell'ambito del mercato edilizio della microzona, dipende dalla qualità urbana ed ambientale della microzona in cui l'unità è ubicata, nonché dalle caratteristiche edilizie dell'unità medesima e del fabbricato che la comprende. Viene anche precisato che, per qualità urbana della microzona, si intende il livello delle infrastrutture e dei servizi e, per qualità ambientale, il livello di pregio o di degrado dei caratteri paesaggistici e naturalistici ancorché determinati dall'attività umana. Ai fini della individuazione dell'esatto valore reddituale dell'immobile, indispensabile per l'attribuzione della classe, rileva sia il fattore posizionale, determinato dalla collocazione in una microzona e dalla qualità dei luoghi circostanti, sia il fattore edilizio, desumibile dai parametri distintivi del fabbricato e della singola unità immobiliare, quali dimensione e tipologia, destinazione funzionale, epoca di costruzione, dotazione impiantistica, qualità e stato edilizio, pertinenze comuni ed esclusive, livello di piano (art. 8, commi 6, 7 e 8, del D.P.R. 23 marzo 1938 n. 138). L'atto di classamento va necessariamente motivato e l'obbligo motivazionale deve soddisfare il principio di cui all'art. 7 della Legge 27 luglio 2000 n. 212 (c.d. "Statuto del contribuente"), che a sua volta richiama l'art. 3 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, secondo cui l'Amministrazione Finanziaria è tenuta ad indicare nei suoi atti «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione». In tema di estimo catastale, l'obbligo di motivazione a carico dell'Amministrazione Finanziaria si atteggia diversamente, a seconda che la stessa operi d'iniziativa o su sollecitazione del contribuente. La costituzione di nuovi immobili avvenuta per edificazione urbana o per una variazione nello stato degli immobili urbani, che influisce sul classamento o sulla consistenza (fusione o frazionamento, cambio di destinazione, nuova distribuzione degli spazi interni, ecc.) deve essere dichiarata in Catasto. La dichiarazione, a carico degli intestatari dell'immobile, avviene con la presentazione all'Agenzia del Territorio competente di un atto di aggiornamento predisposto da un professionista tecnico abilitato (architetti, dottori agronomi e forestali, geometri, ingegneri, periti agrari e periti edili), attivando la procedura cd. "DOCFA"; a fronte di tali dichiarazioni l'ufficio può quindi effettuare i dovuti controlli e attivare eventuali rettifiche d'ufficio, che vanno notificate ai soggetti intestatari. Nell'ipotesi in cui l'avviso di classamento consegua ad un'iniziativa del contribuente, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che, in tema di classamento di immobili, qualora l'attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della c.d. procedura "DOCFA", l'obbligo di motivazione del relativo avviso è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita, quando gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano disattesi dall'Ufficio e l'eventuale differenza tra la rendita proposta e quella attribuita derivi da una diversa valutazione tecnica riguardante il valore economico dei beni. Mentre, nel caso in cui vi sia una diversa valutazione degli elementi di fatto, la motivazione deve essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente e sia per delimitare l'oggetto dell'eventuale contenzioso (in tal senso: Cass., Sez. 6^, 16 giugno 2016, n. 12497; Cass., Sez. 5^, 23 maggio 2018, n. 12777; Cass., Sez. 6^, 7 dicembre 2018, n. 31809; Cass., Sez. Quinta Civile, ordinanza n. 33031/2019). L'obbligo di motivazione assume una connotazione più ampia anche quando l'Agenzia del Territorio muta d'ufficio il classamento ad un'unità immobiliare che ne risulti già munita; in tal caso la dilatazione della componente motivazionale si giustifica per il fatto che, andando ad incidere su valutazioni che si presumono già verificate in termini di congruità, è necessario mettere in evidenza gli elementi di discontinuità che ne legittimano la variazione. Costituisce, infatti, altro orientamento consolidato della Corte di Cassazione quello secondo cui, in tema di estimo catastale, quando procede all'attribuzione d'ufficio di un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, l'Agenzia del Territorio, a pena di nullità del provvedimento per difetto di motivazione, deve specificare se tale mutamento è dovuto a trasformazioni specifiche subite dall'unità immobiliare in questione, oppure ad una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l'unità immobiliare (Cassazione, Sez. Tributaria Civile, ordinanza n. 2842/2020). L'Agenzia del Territorio dovrà indicare, nel primo caso, le trasformazioni edilizie intervenute, e nel secondo caso l'atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano. Tali specificazioni e indicazioni, infatti, sono necessarie per rendere possibile al contribuente di conoscere i presupposti del riclassamento, di valutare l'opportunità di fare o meno acquiescenza al provvedimento e di approntare le proprie difese con piena cognizione di causa, nonché per impedire all'Amministrazione, nel quadro di un rapporto di leale collaborazione, di addurre in un eventuale successivo contenzioso ragioni diverse rispetto a quelle enunciate. (ex plurimis: Cass., Sez. 6^, 25 luglio 2012, n. 13174; Cass., Sez. 6^, 14 novembre 2012, n. 19949; Cass., Sez. 5^, 20 settembre 2013, n. 21532; Cass., Sez. 5^, 30 luglio 2014, n. 17328). Il legislatore è intervenuto più volte in materia, nel tentativo di realizzare una riforma del catasto che consentisse di eliminare, o quanto meno di contenere, le sperequazioni impositive derivanti dallo squilibrio, per alcuni immobili, tra i valori catastali riferiti ad anni risalenti e i valori di mercato attuali, accresciuti notevolmente dalla collocazione in un mutato sistema economico-culturale dell'assetto urbano. Sono stati, dunque, previsti dei meccanismi che consentissero di effettuare, in presenza di specifici presupposti e condizioni, degli interventi correttivi di portata generalizzata, sollecitando in tal modo l'Amministrazione Finanziaria a procedere a delle verifiche c.d. massive. In relazione al contenuto minimo della motivazione di tali atti di riclassamento, di immobili quindi già muniti di rendita catastale, ma oggetto di rettifica per iniziativa dell'Amministrazione Finanziaria, la Corte di Cassazione ha posto, finalmente, i seguenti principi: a. se il nuovo classamento è stato adottato, ai sensi dell'art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, nell'ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra valore di mercato e valore catastale in tale microzona rispetto all'analogo rapporto nell'insieme delle microzone comunali, l'atto deve indicare la specifica menzione dei suddetti rapporti e del relativo scostamento; b. se la variazione è stata effettuata ai sensi dell'art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, in ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unità immobiliare, l'atto deve recare l'analitica indicazione di tali trasformazioni; c. nell'ipotesi di riclassificazione avvenuta ai sensi dell'art. 3, comma 58, della Legge 23 dicembre 1996 n. 662, l'atto deve precisare a quale presupposto - il non aggiornamento del classamento ovvero la palese incongruità rispetto a fabbricati similari - la modifica debba essere associata, specificamente individuando, nella seconda ipotesi, i fabbricati, il loro classamento e le caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di riclassamento (ex plurimis: Cass., Sez. 6^, 13 novembre 2012, n. 19820; Cass., Sez. 6^, 8 marzo 2013, n. 5784; Cass., Sez. 6^, 6 maggio 2013, n. 10489; Cass., Sez. 5^, 16 gennaio 2015, n. 697). Giova anche evidenziare che la motivazione dell'atto di "riclassamento" non può essere integrata dall'Amministrazione Finanziaria nel giudizio di impugnazione avverso lo stesso (da ultime: Cass., Sez. 6^, 21 maggio 2018, n. 12400; Cass., Sez. 5^, 12 ottobre 2018, n. 25450), né il fatto che il contribuente abbia potuto svolgere le proprie difese vale a rendere sufficiente la motivazione, al fine di non legittimare un inammissibile giudizio ex post della sufficienza della motivazione, argomentata dalla difesa svolta in concreto dal contribuente, piuttosto che un giudizio ex ante basato sulla rispondenza degli elementi enunciati nella motivazione a consentire l'effettivo esercizio del diritto di difesa. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, infatti, affermato che l'obbligo di motivazione dell'atto impositivo persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l'opportunità di esperire l'impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l'an ed il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (ex plurimis: Cass., Sez. 5^, 26 marzo 2014, n. 7056; Cass., Sez. 5^, 9 luglio 2014, n. 15633; Cass., Sez. 5^, 17 ottobre 2014, n. 22003). La ragione giustificativa del mutamento di rendita non è la mera evoluzione del mercato immobiliare, né la mera richiesta del Comune, bensì l'accertamento di una modifica nel valore degli immobili presenti nella microzona, attraverso le procedure previste dall'art. 1, comma 339, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, ed elaborate con la determinazione direttoriale del 16 febbraio 2005 (G.U. del 18 febbraio 2005 n. 40), cui sono allegate le linee guida definite con il concorso delle autonomie locali. Secondo l'art. 2, comma 1, del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138, la microzona è una porzione del territorio comunale che presenta omogeneità nei caratteri di posizione, urbanistici, storico-ambientali, socioeconomici, nonché nella dotazione dei servizi e infrastrutture urbane; in ciascuna microzona si presume che le unità immobiliari siano uniformi per caratteristiche tipologiche, epoca di costruzione e destinazione prevalente. Questo peculiare strumento, introdotto con la legge finanziaria 2005, ha già superato il vaglio di legittimità costituzionale; la Corte Costituzionale, con la sentenza depositata l’1 dicembre 2017 n. 249, ha, infatti, ritenuto non irragionevole la scelta fatta dal legislatore di consentire una revisione del classamento per microzone, in quanto basata sul dato che la qualità del contesto di appartenenza dell'unità immobiliare rappresenta una componente fisiologicamente idonea ad incidere sul valore del bene, tanto che il fattore posizionale già costituisce una delle voci prese in considerazione dal sistema catastale in generale. La modifica del valore degli immobili presenti in una determinata microzona ha una indubbia ricaduta sulla rendita catastale ed il conseguente adeguamento, in presenza di un'accresciuta capacità contributiva, mira ad eliminare una sperequazione a livello impositivo. Posta la legittimità dello strumento in generale, se ne impone tuttavia un corretto utilizzo, che a giudizio della Corte di Cassazione non può prescindere da un'adeguata valutazione, caso per caso, del singolo immobile, oggetto di riclassificazione. Poiché non è sufficiente il rispetto dei criteri generali previsti dalla norma, ma si richiede che l'attribuzione della nuova rendita sia contestualizzata in riferimento alle singole unità immobiliari, anche gli oneri motivazionali devono adeguarsi ad esigenze di concretezza e di analiticità, senza che possa ritenersi sufficiente una motivazione standardizzata, applicata indistintamente, che si limiti a richiamare i presupposti normativi in modo assertivo. Con riferimento a tale specifica ipotesi la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato, in relazione a contenziosi sorti in conseguenza di applicazioni fatte in diversi Comuni (come, per esempio, Lecce e Roma), che, in tema di estimo catastale, qualora il nuovo classamento sia stato adottato ai sensi dell'art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, nell'ambito di una revisione parziale dei parametri della microzona nella quale l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale rispetto all'analogo rapporto sussistente nell'insieme delle microzone comunali, non può ritenersi congruamente motivato il provvedimento di riclassamento che faccia esclusivamente riferimento ai suddetti parametri di legge ed ai provvedimenti amministrativi a fondamento del riclassamento, allorché da questi ultimi non siano evincibili gli elementi (come la qualità urbana del contesto nel quale l'immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l'unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato) che, in concreto, hanno inciso sul diverso classamento, esigendosi che detto obbligo motivazionale sia assolto in maniera rigorosa in modo che il contribuente sia posto in condizione di conoscere le concrete ragioni che giustificano il provvedimento, avente carattere "diffuso" (ex plurimis: Cass., Sez. 6^, 17 febbraio 2015, n. 3156; Cass., Sez. 6^, 21 giugno 2018, n. 3156; Cass., Sez. 6^, 26 settembre 2018, n. 23129; Cass., Sez. 6^, 2 novembre 2018, n. 28035; Cass., Sez. 6^, 5 novembre 2018, n. 28076; Cass., Sez. 6^, 8 aprile 2019, n. 9770). Ancora che, in tema di estimo catastale, qualora il nuovo classamento sia stato adottato ai sensi dell'art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311 nell'ambito di una revisione parziale dei parametri catastali della microzona nella quale l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale rispetto all'analogo rapporto sussistente nell'insieme delle microzone comunali, il provvedimento di riclassamento, dovendo porre il contribuente in grado di conoscere le concrete ragioni che lo giustificano - come evidenziato anche dalla sentenza depositata dalla Corte Costituzionale l’1 dicembre 2017 n. 249 - deve indicare i motivi per i quali i valori considerati abbiano determinato il suddetto scostamento, facendo riferimento agli atti da cui ha tratto impulso l'accertamento, costituiti dalla richiesta del Comune e dalla determinazione del Direttore dell'Agenzia del Territorio, nonché ai dati essenziali del procedimento estimativo delineati da tali fonti normative integrative che abbiano inciso sul classamento (così: Cass., Sez. 6^, 10 dicembre 2018, n. 31829). In applicazione dei suindicati principi, non può dunque ritenersi sufficientemente motivato il provvedimento di diverso classamento che faccia esclusivamente riferimento al suddetto rapporto di scostamento senza esplicitare gli elementi che in concreto lo hanno determinato, che non possono prescindere da quelli indicati dall'art. 8 del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138 (qualità urbana ed ambientale della microzona nonché caratteristiche edilizie dell'unità medesima e del fabbricato che la comprende), e ciò al duplice fine di consentire, da un lato, al contribuente di individuare agevolmente il presupposto dell'operata riclassificazione ed approntare le consequenziali difese, e, dall'altro, per delimitare, in riferimento a dette ragioni, l'oggetto dell'eventuale successivo contenzioso, essendo precluso all'Ufficio di addurre, in giudizio, cause diverse rispetto a quelle enunciate nell'atto (ex plurimis: Cass., Sez. 6^, 17 febbraio 2015, n. 3156; Cass., Sez. 6^, 21 giugno 2018, n. 16378; Cass., Sez. 6^, 26 settembre 2018, n. 23129; Cass., Sez. 6^, 8 aprile 2019, n. 9770; Cass., Sez. 6^, 23 luglio 2019, n. 19810). In particolare, non può ritenersi sufficiente a tal fine il riferimento alla microzona ed alle sue caratteristiche come indistintamente individuate, quale «la vocazione residenziale della microzona di ubicazione» e «il fatto che l'immobile stesso si trova inserito in una microzona di riferimento». Quanto ai casi in cui è disposto un mutamento di categoria dell'immobile, perché la mera collocazione nella microzona non incide sulla destinazione funzionale dell'immobile che condiziona l'attribuzione della categoria. Quanto ai mutamenti di classe perché, se è vero che l'attribuzione di una determinata classe è indubbiamente correlata alla qualità urbana del contesto in cui l'immobile è inserito (infrastrutture, servizi, ecc.), e alla qualità ambientale (pregio o degrado dei caratteri paesaggistici e naturalistici) della zona di mercato immobiliare in cui l'unità stessa è situata, tali caratteristiche generali vanno sempre individuate in concreto, in riferimento alla specifica porzione di territorio in cui si inserisce la revisione, individuando gli effettivi interventi urbanistici e le attività realmente incidenti sulla migliore qualità dell'utilizzo degli immobili della zona. Oltre al fattore posizionale, ai fini valutativi rileva anche il fattore edilizio, per cui non è possibile prescindere dalle caratteristiche edilizie specifiche della singola unità e del fabbricato che la comprende (l'esposizione, il grado di rifinitura, lo stato di conservazione, l'anno di costruzione, ecc.), non essendo sostenibile che tutti gli immobili di una stessa zona abbiano necessariamente la medesima classe. La soluzione interpretativa che privilegia una maggiore estensione degli obblighi motivazionali risulta, infatti, l'unica adeguata alle successive indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte Costituzionale che, con la richiamata pronuncia n. 249 del 2017, se da un lato ha affermato che «la scelta fatta dal legislatore con il censurato comma 335 [art. 1 della legge n. 311 del 2004] non presenta profili di irragionevolezza [in quanto] la decisione di operare una revisione del classamento per microzone si basa sul dato che la qualità del contesto di appartenenza dell'unità immobiliare rappresenta una componente fisiologicamente idonea ad incidere sul valore del bene», nello stesso tempo ha evidenziato che «la natura e le modalità dell'operazione enfatizzano l'obbligo di motivazione in merito agli elementi che hanno, in concreto, interessato una determinata microzona, così incidendo sul diverso classamento della singola unità immobiliare; obbligo che, proprio in considerazione del carattere "diffuso" dell'operazione, deve essere assolto in maniera rigorosa in modo tale da porre il contribuente in condizione di conoscere le concrete ragioni che giustificano il provvedimento». Il Giudice delle Leggi ha così individuato nell'obbligo di motivazione rigorosa un elemento dirimente e qualificante ai fini della legittimità dell'operazione dal carattere "diffuso", escludendo che tale legittimità potesse affermarsi in via presuntiva; tale requisito va, dunque, soddisfatto ex ante, e senza che sia sufficiente la mera possibilità del contribuente di fornire prova contraria in sede contenziosa. In definitiva, la Corte di Cassazione in modo costante ha enunciato il seguente principio di diritto: «In tema di estimo catastale, il nuovo classamento adottato ai sensi dell'art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, soddisfa l'obbligo di motivazione se, oltre a contenere il riferimento ai parametri di legge generali, quali il significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale rispetto all'analogo rapporto sussistente nell'insieme delle microzone comunali, ed ai provvedimenti amministrativi su cui si fonda, consente al contribuente di evincere gli elementi, che non possono prescindere da quelli indicati dall'art. 8 del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138 (quali la qualità urbana del contesto nel quale l'immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l'unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato e della singola unità immobiliare), che, in concreto, hanno inciso sul diverso classamento, ponendolo in condizione di conoscere ex ante le ragioni specifiche che giustificano il singolo provvedimento di cui è destinatario, seppure inserito in un'operazione di riclassificazione a carattere diffuso>>.

Lecce, 25 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


APPROVATO IL DECRETO - RILANCIO LA LEGITTIMITA’ DEI DECRETI LEGGE SECONDO LA CORTE COSTITUZIONALE

In materia tributaria si ricorre spesso ai decreti-legge, come avvenuto durante il periodo di pandemia da COVID-19 con il:

  1. decreto legge n. 18 del 17/03/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 27 del 24 aprile 2020 (Decreto CURA ITALIA di 127 articoli);

  2. decreto legge n. 23 dell’08/04/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 40 del 05 giugno 2020 (Decreto LIQUIDITA’ di 44 articoli);

  3. decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, convertito con modifiche dalla Legge di conversione approvata con la fiducia dal Senato giovedì 16/07/2020 (Decreto RILANCIO di 266 articoli e 971 pagine; servono 155 decreti attuativi).

A questo punto, è opportuno controllare se il decreto-legge ha scrupolosamente rispettato le condizioni previste dalla legge, soprattutto alla luce dei principi giuridici dettati dalla Corte Costituzionale. L’art. 77, secondo comma, della Costituzione stabilisce che: “Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”. La Corte Costituzionale, con le sentenze che commenteremo, ha stabilito che il decreto-legge, per essere legittimo, deve rispettare le tassative condizioni della necessità ed urgenza e della omogeneità degli argomenti trattati. Inoltre, la Corte Costituzionale, mutando un precedente orientamento, con le sentenze n. 116 del 2006, n. 171 del 2007, n. 128 del 2008 e n. 355 del 2010, ha precisato che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge e che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso. Inoltre, seguendo il più recente orientamento della Corte Costituzionale, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto (sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale). Infine, l’art. 77, terzo comma, della Costituzione prevede che: “I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”. Ciò, per esempio, si è verificato con l’art. 1, comma 2, della legge n. 27 del 24/04/2020, che ha stabilito che: “I decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14, sono abrogati. Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14”.

A) Presupposti di necessità ed urgenza. La Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di controllo di costituzionalità. La straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (come, per esempio, eventi naturali, comportamenti umani ed anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi (sentenza n. 171 del 2007 della Corte Costituzionale). La Corte Costituzionale ha sempre ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, deve risultare evidente, come per esempio in presenza dello specifico fenomeno della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996 della Corte Costituzionale). Inoltre, come scritto in precedenza, la legge di conversione non può mai sanare i vizi del decreto-legge, altrimenti si attribuirebbe in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie (sentenza n. 171 del 2007, già citata e sentenza n. 128 del 2008). Infatti, il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo, stabilendo il contenuto del decreto-legge, sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pure indirettamente, i confini del potere emendativo parlamentare. Pertanto, gli equilibri che la Costituzione instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità ed urgenza di cui al citato art. 77, secondo comma, Cost. (sentenza n. 154 del 2015 della Corte Costituzionale).

B) Principio di omogeneità. La Corte Costituzionale, tra gli indici alla stregua dei quali verificare se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità ed urgenza di provvedere, ha individuato la “evidente estraneità” della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita (sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008, già citate; sentenza n. 22 del 2012). La giurisprudenza sopra richiamata collega il riconoscimento dell'esistenza dei presupposti fattuali, di cui all'art. 77, secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall'intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare. Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità. L'inserimento di norme eterogenee all'oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell'urgenza del provvedere ed "i provvedimenti provvisori con forza di legge", di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del "caso" straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. L'art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) - là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge "deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo" - pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti alla Corte Costituzionale, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell'intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell'eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento. I cosiddetti decreti "milleproroghe", che, con cadenza ormai annuale, soprattutto in materia tributaria, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti - pur attinenti ad oggetti e materie diversi - che richiedono interventi regolatori di natura temporale. Del tutto estranea a tali interventi è la disciplina "a regime" di materie o settori di materie, rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono quindi essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa, di cui all'art. 71 Cost. Ove le discipline estranee alla ratio unitaria del decreto presentassero, secondo il giudizio politico del Governo, profili autonomi di necessità e urgenza, le stesse ben potrebbero essere contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati. Risulta, invece, in contrasto con l'art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei. La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all'apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione. Il principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è pienamente recepito dall'art. 96-bis, comma 7, del regolamento della Camera dei deputati, che dispone: "Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge". Sulla medesima linea si colloca la lettera inviata il 7 marzo 2011 dal Presidente del Senato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari, nonché, per conoscenza, al Ministro per i rapporti con il Parlamento, in cui si esprime l'indirizzo "di interpretare in modo particolarmente rigoroso, in sede di conversione di un decreto-legge, la norma dell'art. 97, comma 1, del regolamento, sulla improponibilità di emendamenti estranei all'oggetto della discussione", ricordando in proposito il parere espresso dalla Giunta per il regolamento l'8 novembre 1984, richiamato, a sua volta, dalla circolare sull'istruttoria legislativa nelle Commissioni del 10 gennaio 1997. Peraltro, il suddetto principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è stato richiamato nel messaggio del 29 marzo 2002, con il quale il Presidente della Repubblica, ai sensi dell'art. 74 Cost., ha rinviato alle Camere il disegno di legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 (Disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l'agricoltura), e ribadito nella lettera del 22 febbraio 2011, inviata dal Capo dello Stato ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge. Si deve ritenere che l'esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all'oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario. Innanzitutto, il disegno di legge di conversione del decreto-legge appartiene alla competenza riservata del Governo, che deve presentarlo alle Camere "il giorno stesso" della emanazione dell'atto normativo urgente (evitando la sibillina formula “salvo intese”). Anche i tempi del procedimento sono particolarmente rapidi, giacché le Camere, anche se sciolte, sono convocate appositamente e si riuniscono entro cinque giorni. Il Parlamento è chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato, contenente disposizioni giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle fattispecie regolate o per la finalità che si intende perseguire. In definitiva, l'oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione. Non si può tuttavia escludere che le Camere possano, nell'esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità. Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali. Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall'art. 77, secondo comma, Cost., è l'alterazione dell'omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica. In definitiva, l'innesto nell'iter di conversione dell'ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d'urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l'uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge. La Costituzione italiana disciplina, nelle loro grandi linee, i diversi procedimenti legislativi e pone limiti e regole, da specificarsi nei regolamenti parlamentari. Il rispetto delle norme costituzionali, che dettano tali limiti e regole, è condizione di legittimità costituzionale degli atti approvati, come la Corte Costituzionale ha già affermato a partire dalla sentenza n. 9 del 1959, nella quale ha stabilito la propria "competenza di controllare se il processo formativo di una legge si è compiuto in conformità alle norme con le quali la Costituzione direttamente regola tale procedimento". In sostanza, la valutazione è sempre rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata dinanzi la Corte Costituzionale soltanto se essa sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà ovvero per mancanza evidente dei suesposti presupposti (sentenza n. 116 del 2006 della Corte Costituzionale). Sul principio di omogeneità, quale nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione, si citano le seguenti ulteriori pronunce della Corte Costituzionale:

  • sentenza n. 128 del 30/04/2008;
  • ordinanza n. 34 del 06/03/2013;
  • sentenza n. 32 del 25/02/2014;
  • sentenza n. 251 del 07/11/2014;
  • sentenza n. 154 del 15/07/2015;
  • sentenza n. 181 del 16/07/2019;
  • sentenza n. 226 del 29/10/2019;
  • sentenza n. 247 del 04/12/2019;
  • ordinanza n. 274 del 18/12/2019;
  • ordinanza n. 275 del 18/12/2019. Così, per esempio, la Corte Costituzionale, nei seguenti casi, ha dichiarato l’illegittimità dei decreti legge per non aver rispettato il requisito dell’omogeneità, con l’introduzione di norme totalmente “estranee” o addirittura “intruse”:
  1. decreto-legge n. 272/2005, perché in tema di Polizia di Stato si sono inserite norme sulla tossicodipendenza (sentenza n. 32 del 2014 cit.);

  2. decreto-legge n. 248/2007, perché un conto è la proroga urgente dei termini e ben altro è la decisione circa l’ampiezza delle competenze di una categoria professionale (sentenza n. 154 del 2015 cit.);

  3. decreto-legge n. 119/2018, perché in una materia tributaria non si possono inserire norme in materia sanitaria (sentenza n. 247/2019 cit.);

  4. decreto-legge n. 225/2010, perché, sempre in materia tributaria, non si possono inserire norme relative al Servizio Nazionale della Protezione Civile (sentenza n. 22 del 2012 cit.);
  5. decreto-legge n. 262/2006, perché, sempre in materia tributaria e finanziaria, nessun collegamento è ravvisabile tra tali premesse e la previsione dell’esproprio del Teatro Petruzzelli di Bari (sentenza n. 128 del 2008 cit.).

In definitiva, per rilevare o meno l’illegittimità costituzionale di un decreto-legge, soprattutto nella materia tributaria, bisogna controllare che le disposizioni siano coerenti con quelle originarie, essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato dell’art. 77 citato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare (sentenze n. 32 del 2014 e n. 22 del 2012 più volte citate). Infine, secondo me, è opportuno segnalare questo importate ed interessante passo della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25506 del 30 novembre 2006: “Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto legge del governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al governo. Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del Collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuto esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, comma 2, d.l. 223/2006, con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 della Costituzione, che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo suo, la corretta interpretazione della norma sub iudice. L’intervento è apparso inopportuno anche perché la pubblica amministrazione, anche quando è parte in causa, ha sempre l’obbligo di essere e di apparire imparziale, in forza dell’art. 97 Cost.”. In ogni caso, le misure di emergenza non devono diventare la regola.

C) Eccezioni di incostituzionalità degli ultimi decreti legge. Anche alla luce delle considerazioni giuridiche di cui sopra, oggi, analizzando gli ultimi decreti-legge, si possono sollevare eccezioni di incostituzionalità, ribadendo il principio, già in precedenza espresso, che è del tutto estranea agli interventi con decreti-legge la disciplina “a regime” di materie o settori di materie rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono, quindi, essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa ordinaria di cui all’art. 71 Cost. (sentenza n. 22 del 2012 della Corte Costituzionale, più volte citata).

1) Art. 29, comma 1, decreto-legge n. 23 dell’08 aprile 2020, già citato. Il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, obbligando le parti processuali, che si sono costituite con modalità analogiche, a notificare e depositare gli atti successivi, nonché i provvedimenti giurisdizionali, esclusivamente con le modalità telematiche stabilite dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 23/12/2013, n. 163, e dai successivi decreti attuativi.

2) Art. 29, comma 2, decreto-legge n. 23 dell’08 aprile 2020, già citato. Anche il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario, con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo che la sanzione in tema di contributo unificato, anche attraverso la comunicazione contenuta nell’invito al pagamento, è notificata a cura dell’ufficio e anche tramite PEC nel domicilio eletto o, nel caso di mancata elezione del domicilio, mediante deposito presso l’ufficio.

3) Art. 135, comma 2, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato. Il suddetto articolo interviene in materia di giustizia tributaria con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo il collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo del collegamento da remoto delle parti processuali, peraltro rinviando ad uno o più provvedimenti del Direttore Generale delle Finanze, con ciò dimostrando che manca la necessità e l’urgenza.

4) Art. 157, comma 1, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato. Con il suddetto articolo, il Governo, derogando all’art. 3, ultimo comma, della legge n. 212 del 27/07/2000 (c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente), per gli avvisi di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d’imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, ha stabilito l’emissione degli stessi atti entro il 31/12/2020 e la notifica nel periodo compreso tra il 01 gennaio ed il 31 dicembre 2021. In tal modo, il Governo prorogando di un anno i termini di decadenza per gli accertamenti relativi all’anno 2015 (anno 2014 per omesse dichiarazioni) ha dimostrato la mancanza della necessità ed urgenza. Inoltre, mentre al contribuente sono stati concessi soltanto 64 giorni di sospensione per gli atti processuali (art. 83, comma 2, decreto legge n. 18 cit.), proprio per la necessità ed urgenza di intervenire, agli uffici fiscali, invece, la cui attività amministrativa è stata sospesa soltanto per 85 giorni (art. 67, comma 1, decreto-legge n. 18 cit.), è stato prorogato di un anno il termine di decadenza (creando una disparità di trattamento incostituzionale, ai sensi per gli effetti dell’art. 3 della Costituzione). Oltretutto, l’art. 67, comma 4, cit. non ha ritenuto applicabile l’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 24/09/2015, ma soltanto il comma 1 del citato articolo che prevede una sospensione corrispondente allo stesso periodo di tempo concesso; pertanto, agli uffici fiscali doveva essere concesso soltanto una proroga della decadenza di 85 giorni e non di un anno per la notifica degli avvisi di accertamento, proprio in riferimento al succitato art. 12, comma 1. Senza considerare, infine, che, ancora una volta, è stato derogato ed ignorato lo Statuto dei Diritti del Contribuente, soprattutto oggi in occasione dei 20 anni dalla sua approvazione (27 luglio 2000). Bel modo di festeggiare il compleanno !!!!! Lecce, 17 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


LA CORTE DI CASSAZIONE SUGLI ACCERTAMENTI BANCARI

E’ orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, come ribadito da Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 22931 del 26/09/2018 (v. anche Cass. n. 16440 del 2016, n. 19806 e n. 19807 del 2017), quello secondo cui «In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dall'art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l'estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all'esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014, l'equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti». Va altresì ricordato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 (in virtù della quale i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell'esercizio dell'attività libero professionale o di lavoratore autonomo), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell'affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell'estraneità delle stesse alla sua attività (Cass. n. 4829/2015) e che tale principio si applica, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come il rapporto di stretta contiguità familiare tra il contribuente ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica, anche alle movimentazioni effettuate su questi ultimi, poiché in tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei familiari debbano - in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario - ascriversi allo stesso contribuente sottoposto a verifica (v. Cass., Sez. V, Ord., 15 novembre 2017, n. 27075). In senso analogo si espressa Cass. n. 1898 del 2016, secondo cui, in tema di accertamento del reddito d'impresa, «gli artt. 32, n. 7, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del D.P.R. n. 633 del 1972 autorizzano l'Ufficio finanziario a procedere all'accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente», nonché Cass. n. 26173 del 2011, n. 26829 del 2014, n. 12276 del 2015 e Cass. n. 428 del 2015, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale è sufficiente a giustificare, salva la prova contraria, la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari di tali soggetti all'attività economica della società sottoposta a verifica, sicché in assenza di prova di attività economiche svolte dagli intestatari dei conti, idonee a giustificare i versamenti ed i prelievi riscontrati, ed in presenza di un contestuale rapporto di collaborazione con la società, deve ritenersi soddisfatta la prova presuntiva a sostegno della pretesa fiscale, con spostamento dell'onere della prova contraria sul contribuente. (Nella specie, la S.C. ha enunciato il principio con riferimento a conti bancari intestati ad amministratori, legati da evidenti rapporti di parentela, e nessuno degli intestatari svolgeva attività economica idonea a giustificare simili importi reddiduali)». Va ancora ricordato, in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di accertamenti bancari, il consolidato insegnamento della Corte di Cassazione secondo cui la presunzione di cui all'art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600 del 1973 dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell'ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell'imponibile), omologa a quella stabilita dall'art. 51, comma 2, n. 2, D.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, consente di riferire a redditi (e, nel secondo caso, a ricavi) imponibili, conseguiti nell'attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli "accrediti" (e, per le sole attività imprenditoriali, anche gli "addebiti") come ricavi. Trattasi di presunzione legale "juris tantum" che consente di considerare come ricavo riconducibile all'attività professionale o imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo e a quello dei congiunti, in presenza di chiari elementi sintomatici come quelli sussistenti nella specie, e comportante l'inversione dell'onere della prova, spettando a quest'ultimo di superare detta presunzione offrendo la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti (e gli addebiti) registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all'uopo che sia indicato e dimostrato dal contribuente la provenienza dei singoli versamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (arg. da Cass. 26111 del 2015 e n. 21800 del 2017; conf. Cass. n. 5152, n. 5153, n. 19807 e n. 19806 del 2017, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n. 16686, n. 16699, n. 16697, n. 11776, n. 6093 del 2016; Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016). Con specifico riferimento al contenuto dell'onere probatorio gravante sul contribuente la Corte di Cassazione ha affermato che lo stesso ha l'onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e, a tal fine, deve sempre fornire non una prova generica, ma una prova analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014). Il giudice di merito, al tempo stesso, è tenuto alla rigorosa verifica dell'efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell'inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017; Cass. 32427/19). Lecce, 11 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it


IL DECRETO SEMPLIFICAZIONI COMPLICA LA VITA AGLI OPERATORI ECONOMICI

Il c.d. Decreto Semplificazioni del Sistema Italia, approvato come bozza lunedì 06 luglio c.a. con la sibillina formula “salvo intese”, invece di semplificare complica notevolmente la vita agli operatori economici, impedendogli di partecipare alle gare di appalto pubblico, con il grave rischio economico e finanziario delle aziende.

Infatti, l’art. 8, comma 5, lettera b), n. 2, del succitato Decreto, modificando l’art. 80, comma 4, Decreto Legislativo n. 50 del 18 aprile 2016 (Nuovo Codice degli Appalti), prevede che: 1) l’operatore economico può essere escluso dalla partecipazione ad una gara d’appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati qualora il mancato pagamento è superiore ad euro 5.000 (cinquemila);

2) l’operatore economico se nell’ipotesi di cui sopra vuole partecipare alla gara di appalto deve pagare totalmente le somme richieste oppure si deve impegnare in modo vincolante a pagare a rate le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purchè l’estinzione, il pagamento o l’impegno a pagare a rate si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande di partecipazione ad una procedura di appalto.

La suddetta novella legislativa, oltre a creare gravi pregiudizi economici agli operatori, è criticabile per i seguenti motivi: a) innanzitutto, è in contraddizione ed in difficile coordinamento con il primo periodo del succitato comma 4 Decreto Legislativo n. 50/2016 che, invece, esclude l’operatore economico dalla partecipazione ad una procedura di appalto soltanto se ha omesso il pagamento di imposte e tasse superiore ad euro 5.000 (cinquemila) definitivamente accertate e tali sono quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione; inoltre, costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del DURC;

b) per impedire la partecipazione ad una gara di appalto è sufficiente un accertamento induttivo da parte dell’Agenzia delle Entrate oppure un avviso di accertamento o una cartella esattoriale dovuta ad una semplice questione interpretativa, come per esempio sul concetto di competenza o inerenza;

c) l’assurdo si verifica se l’operatore economico ha vinto la causa e nulla deve al Fisco ma è sufficiente che il giudizio sia pendente, persino in Cassazione, per bloccare la partecipazione alla gara di appalto;

d) si costringe l’operatore economico a pagare, seppure a rate, persino nell’ipotesi di intervenuta sospensione da parte dei giudici tributari o di rimborso da parte dell’Agenzia delle Entrate a seguito di sentenza favorevole immediatamente esecutiva, ai sensi e per gli effetti dell’art. 69 Decreto Legislativo n. 546/1992;

e) la novella legislativa è immediatamente esecutiva, per cui molti operatori economici non potranno partecipare d’ora in poi alle procedure di appalto a seguito di avvisi di accertamento o cartelle esattoriali notificate negli anni scorsi e tuttora in contestazione poiché i giudizi non sono definitivi.

Secondo me, la modifica legislativa in commento deve essere totalmente cancellata e si deve lasciare l’unica condizione sino ad oggi esistente e cioè che le gravi violazioni siano definitivamente accertate. Solo in questo modo si può evitare di aggravare pesantemente la situazione economica e finanziaria degli operatori economici, impedendogli di partecipare alle procedure di appalto sol perché gli uffici fiscali notificano accertamenti o cartelle esattoriali che potrebbero essere totalmente annullati dalle Commissioni Tributarie.

Lecce, 08 luglio 2020 AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


LA CORTE DI CASSAZIONE SUGLI ACCERTAMENTI FISCALI

E' noto che "Un atto legittimamente assunto in sede penale - nella specie, sommarie informazioni testimoniali della Guardia di Finanza ed intercettazioni telefoniche - e trasmesso all'amministrazione tributaria entra a far parte, a pieno titolo, del materiale probatorio che il giudice tributario di merito deve valutare, così come previsto dall'art. 63 del D.P.R. n. 633 del 1972; tale norma, infatti, non contrasta né con il principio di segretezza delle comunicazioni di cui all'art. 15 Cost., perché le intercettazioni che hanno permesso il reperimento dell'atto sono autorizzate da un giudice, né con il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., perché, se è vero che il difensore non partecipa alla formazione della prova, è anche vero che nel processo tributario l'atto acquisito ha un minor valore probatorio rispetto a quello riconosciutogli nel processo penale" (Cass. n. 2916/2013) e che "In tema di violazioni IVA oggetto di accertamento nell'ambito dell'attività di polizia tributaria, le dichiarazioni rilasciate da terzi, le risultanze delle indagini condotte nei confronti di altre società, gli atti trasmessi dalla Guardia di Finanza, risultanti dall'attività di polizia giudiziaria, senza esclusione dei verbali redatti a seguito d'intercettazioni telefoniche disposte in sede penale, se contenuti negli atti (come il processo verbale di constatazione) allegati all'avviso di rettifica notificato o trascritti essenzialmente nella motivazione dello stesso, costituiscono parte integrante del materiale indiziario e probatorio, che il giudice tributario di merito è tenuto a valutare dandone adeguato conto nella motivazione della sentenza" (Cass. n. 4306/2010). In materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l'autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio, oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall'art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente previsto dall'art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l'obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell'applicazione della legge penale (Cass. n. 28060/2017). Acclarata, dunque, la piena utilizzabilità nel processo tributario (seppur con valenza indiziaria), delle dichiarazioni di terzi assunte dalla G.d.F. e delle intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte in un procedimento penale, ne discende che alcuna violazione può configurarsi sia in relazione al profilo dell'onere della prova sia riguardo al principio di parità delle armi o del giusto processo. Non v'è, infatti, violazione dell'art. 2697 c.c., in quanto il giudice non ha riversato l'onere della prova sulla parte non tenutavi per legge, ma ha solo utilizzato detti elementi, in chiave indiziaria, risalendo dai fatti noti al fatto ignoto, secondo il tipico procedimento inferenziale previsto dagli artt. 2727 ss. c.c.. Neanche può riscontrarsi violazione dei principi suddetti, e in generale del diritto di difesa, giacché la prospettiva in cui si muove la doglianza in discorso (che postula la necessità di sottoporre le dichiarazioni dei terzi al vaglio di attendibilità da parte del giudice, nel contraddittorio tra le parti) trova il proprio humus nell'ambito delle garanzie del procedimento penale, garanzie pur presenti nel processo tributario, ma attraverso una differente declinazione. Basti qui richiamare il consolidato orientamento secondo cui "In tema di IVA, una volta assolta da parte dell'Amministrazione finanziaria la prova dell'oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell'IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l'esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un'operazione fittizia" (così, Cass. n. 17619/2018). E' ormai principio consolidato della Corte di Cassazione quello secondo cui "In seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi - che si convertono in violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia" (così, ex plurimis, Cass. n. 23940/2017; v. anche Cass., Sez. Un., n. 8053/2014; Cass. n. 32185/19). Vale la pena di evidenziare che, ancora di recente (Cass. n. 9059/2018) è stato ribadito che "In tema di prova per presunzioni, il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento". Del resto, può al riguardo farsi riferimento anche al recente insegnamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, n. 1785/2018, che (in motivazione) ha così statuito: "la deduzione del vizio di falsa applicazione dell'art. 2729, primo comma, cod. civ., suppone allora un'attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito - assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato - risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza. Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l'evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi". Lecce, 04 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it