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INVITO AL CONTRADDITTORIO PER GLI AVVISI DI ACCERTAMENTO EMESSI DALL’01/07/2020

L’art. 5-ter D.Lgs. n. 218 del 19/06/1997 (come inserito dall’art. 4-octies, comma 1, lett. b), D.L. n. 34/2019, convertito dalla Legge n. 58 del 28/06/2019), al comma 1°, stabilisce che gli uffici fiscali, salvo tassative eccezioni, devono notificare l’invito al contraddittorio per tutti gli avvisi di accertamento emessi da mercoledì 1° luglio 2020. Il mancato avvio del contraddittorio mediante l’invito di cui sopra comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento, qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato (art. 5-ter, comma 5, cit., c.d. “prova di resistenza”). A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate ha emanato la circolare n. 17/E del 22/06/2020. Per avvisi di accertamento emessi si intendono gli atti datati e sottoscritti dal titolare dell’ufficio (o da un suo delegato) a partire dall’01/07/2020 (sul concetto di “emissione”, ai fini dell’art. 12, comma 7, della Legge n. 212/2000, c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente, si rinvia alle ordinanze della Corte di Cassazione n. 11088/2015 e n. 5361/2016). La notifica dell’invito al contraddittorio, oltre all’ipotesi di possibile invalidità dell’avviso di accertamento, determina la preclusione per il contribuente della possibilità di presentare l’istanza di cui all’art. 6 D.Lgs. n. 218 cit., con la sospensione di 90 giorni per la presentazione del ricorso (art. 6, comma 3, cit.). Tenuto conto delle gravi conseguenze di cui sopra, sia per gli uffici fiscali sia per i contribuenti, secondo me, è opportuno chiarire quando si realizza la “notifica” dell’invito del contraddittorio se spedita per posta, tenuto conto che la succitata normativa speciale non richiama espressamente né l’art. 149 c.p.c., né l’art. 60 D.P.R. n. 600/73, né gli artt. 4 e 8 della Legge n. 890 del 20/11/1982. Oltretutto, il suddetto invito non può essere trasmesso via pec sia perché non è previsto dalla legge sia perché l’invio telematico è disciplinato dall’art. 6, comma 4, D.Lgs. n. 218/1997 cit. soltanto a seguito della ricezione dell’istanza formulata dal contribuente ai sensi dell’art. 6, comma 2, citato. Secondo me, l’invito al contraddittorio di cui al citato art. 5-ter è un atto sostanziale unilaterale per cui si applica l’art. 1334 del codice civile, secondo cui: “Gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati”. In questo modo, si rispetta l’art. 6, comma 1, Legge n. 212/2000 cit., secondo cui: “L’Amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati”. Di conseguenza, nella fattispecie, non è applicabile la c.d. “scissione soggettiva della notifica” perché si tratta di un atto unilaterale sostanziale e non processuale, peraltro senza un termine di decadenza, come stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con l’importante sentenza n. 24822 del 09 dicembre 2015. Infatti, in base alla succitata sentenza, per gli atti sostanziali unilaterali la tecnica del bilanciamento è preclusa da una norma specifica (art. 1334 c.c.): qui, a differenza degli atti processuali, il bilanciamento lo ha già fatto il legislatore. Inoltre, come stabilito dalla legge, l’omessa notifica dell’invito a comparire non determina alcuna decadenza ma soltanto l’invalidità dell’avviso di accertamento, per cui a maggior ragione è applicabile l’art. 1334 c.c. (Cassazione n. 9311/2003; 10476/2003; 12447/2004; 1028/2008; SS. UU. N. 12332/2017; n. 9749/2018; SS. UU. n. 8830/2010; SS. UU. n. 8227/2019). Nelle succitate sentenze, infatti, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, richiamando i principi esposti dalla Corte Costituzionale n. 477 del 26/11/2002, ha precisato che nelle notifiche per posta la scissione soggettiva tra notificante e notificato, per il rispetto dei termini, riguarda soltanto gli atti processuali e gli atti unilaterali (come, per esempio, gli avvisi di accertamento) per i quali è previsto un termine di decadenza. Al contrario, quando si è in presenza di un atto sostanziale unilaterale per il quale è prevista la prescrizione (e non la decadenza) oppure, come nel caso in questione, la sola invalidità, la notifica per posta deve rispettare l’art. 1334 c.c.. Alla luce di quanto sopra esposto:

  • se la notifica per posta dell’invito al contraddittorio non giunge a conoscenza (effettiva o legale) del contribuente, il relativo avviso di accertamento è invalido, e ciò si può eccepire in sede contenziosa;
  • se, invece, la notifica per posta giunge a conoscenza del destinatario, bisogna tener conto della precisa data ai fini dei termini di decadenza di cui agli artt. 157, comma 1, D.L. n. 34 del 19/05/2020 e dell’art. 5, comma 3-bis, D.Lgs. n. 218/1997 (per la specifica analisi relativa agli avvisi di accertamento per gli anni 2014 e 2015 rinvio al mio articolo pubblicato sul mio sito www.studiotributariovillani.it). Lecce, 30 giugno 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


L’ACCERTAMENTO DEI VALORI SECONDO LA CORTE DI CASSAZIONE

Ai sensi del quarto e del quinto comma dell'art. 52 del T.U.I.R., a decorrere dal 1° luglio 1986, il potere di rettifica dei valori dichiarati negli atti era impedito qualora gli stessi fossero risultati pari o superiori a quel minimum determinato dalla capitalizzazione delle rendite catastali - che si otteneva moltiplicando per specifici coefficienti fissi di legge il valore catastale - con l'unico limite dato dall'eventuale individuazione, da parte dell'Ufficio, di corrispettivi non dichiarati. Pur essendo inibito l'accertamento di valore, il criterio automatico di valutazione non implicava una diversa determinazione della base imponibile, che si identificava, ai sensi del combinato disposto degli artt. 43, comma 1, e 51 del T.U.I.R., con il «valore del bene o del diritto alla data dell'atto», assumendosi per tale «quello dichiarato dalle parti nell'atto e, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito». Per le cessioni di immobili soggette ad I.V.A., l'art. 15 del D. L. 23 febbraio 1995, n. 41 aveva esteso (per i fabbricati classificati o classificabili nei gruppi A, B e C) il principio della non rettificabilità del corrispettivo dichiarato, ove determinato in base ai parametri automatici previsti per l'imposta di registro, salvo che da atto o documento il corrispettivo risultasse di maggiore ammontare. L'art. 35, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 (cd. decreto Visco-Bersani), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006 (decreto in vigore dal 4 luglio 2006), ha inserito nell'art. 54, terzo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972 (ai fini dell'I.V.A.) una disposizione in base alla quale «per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova di cui al precedente periodo s'intende integrata anche se l'esistenza delle operazioni imponibili o l'inesattezza delle indicazioni di cui al secondo comma sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell'articolo 14 del presente decreto». Lo stesso art. 35, con il comma 3, del citato decreto legge n. 223 del 2006 ha inoltre inserito nell'art. 39, primo comma, lett. d), del D.P.R. n. 600 del 1973 (ai fini delle imposte sui redditi) una disposizione analoga alla precedente ed in base alla quale «per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova [...] si intende integrata anche se l'infedeltà dei ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni determinato ai sensi dell'art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi». Il comma 4 dello stesso art. 35 cit. ha, inoltre, espressamente abrogato l'art. 15 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41. Il D.L. n. 223/2006 ha, quindi, introdotto presunzioni semplici legali relative che consentivano all'ente impositore di rettificare la dichiarazione del contribuente sulla base del solo scostamento tra il corrispettivo dichiarato per le cessioni di beni immobili ed il valore normale degli stessi, determinato (in forza dell'art. 1, comma 307, della legge n. 296 del 2006 - legge finanziaria 2007 - e del provvedimento direttoriale del 27 luglio 2007, emesso in attuazione di tale legge e con il quale erano indicati i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati ai sensi dell'art. 14 del decreto nn. 633 del 1972 e dell'art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi) secondo i valori dell'Osservatorio del mercato immobiliare (O.M.I.) presso l'Agenzia del Territorio e i coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell'immobile, integrati da altre informazioni in possesso degli uffici tributari. Anche se, inizialmente, tali nuovi disposizioni sono state ritenute di natura «procedimentale» e, quindi, applicabili anche ad accertamenti relativi ad anni d'imposta precedenti al 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore del decreto Visco-Bersani), l'art. 1, comma 265, della legge n. 244 del 2007, in vigore dal 1° gennaio 2008, ha stabilito che le presunzioni legali (basate sul valore normale) si applicano soltanto per gli atti formati a decorrere dal 4 luglio 2006, mentre per gli atti formati anteriormente, valgono «agli effetti tributari, come presunzioni semplici». Successivamente, la Commissione europea, nell'ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575, ha rilevato l'incompatibilità - in relazione all'I.V.A., ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette - delle disposizioni introdotte dall'art. 35 del decreto-legge n. 223 del 2006 con l'art. 73 della Direttiva comunitaria 2006/112/CE, secondo cui la base imponibile I.V.A. «comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell'acquirente destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». In considerazione di tale parere, la legge n. 88 del 2009 (legge comunitaria del 2008) con l'art. 24, commi 4, lettera f), e 5, è nuovamente intervenuta sull'art. 39 citato, stabilendo alla lettera d) del primo comma dell'art. 39: «Per i redditi d'impresa delle persone fisiche l'ufficio procede alla rettifica:[...] d) se l'incompletezza, la falsità o l'inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall'ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all'articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all'impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall'ufficio nei modi previsti dall'articolo 32. L'esistenza di attività non dichiarate o l'inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti». Nonchè sul terzo comma dell'art. 54 del D.P.R. n. 633 del 1972 prevedendo: «L'Ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l'esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l'inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui ai numeri 2), 3) e 4) del secondo comma dell'art. 51, dagli elenchi allegati alle dichiarazioni nonché da altri atti e documenti in suo possesso». La Corte di Cassazione ha, quindi, ripetutamente affermato che, in tema di accertamento dei redditi d'impresa, in seguito alla sostituzione dell'art. 39 cit. ad opera dell'art. 24, comma 5, della L. n. 88 del 2009 che, con effetto retroattivo - stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell'Unione europea - ha eliminato la presunzione relativa di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi introdotta dall'art. 35 cit., così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale l'esistenza di attività non dichiarate può essere desunta «anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti», l'accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell'atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni O.M.I., ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass. n. 9474 del 2017; Cass. n. 26487 del 2016; n. 24054 del 2014; Cass. n. 11439 del 2018; n. 2155 del 25/1/2019; Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – ordinanza 23379 depositata il 19 settembre 2019). Esclusa, pertanto, la retroattività delle nuove disposizioni del D. L. n. 223 del 2006 riguardanti l'accertamento della base imponibile (art. 35, comma 23-ter ) e l'ampliamento dei poteri di controllo degli uffici finanziari (art. 35, comma 24) deve ritenersi, come evidenziato dalla stessa Agenzia delle Entrate con la circolare n. 6/E del 6 febbraio 2007, che i limiti all'accertamento di valore previsti dal quarto e dal quinto comma dell'art. 52 del T.U.I.R. ed estesi dall'art. 15 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni dalla legge 22 marzo 1995, n. 85, agli accertamenti I.V.A., abbiano continuato a valere per gli atti pubblici formati, le scritture private autenticate e le scritture private registrate in data antecedente a quella di entrata in vigore della legge di conversione del decreto Visco-Bersani. Va, in proposito, rilevato che lo stesso tenore letterale della disposizione di legge lascia ritenere che con l'art. 15 del D.L. n. 41 del 1995 non si è inteso derogare al disposto dell'art. 13 del D.P.R. n. 633/1972, secondo il quale la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi è costituita dall'ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore secondo le condizioni contrattuali. Ciò comporta che, con riferimento agli atti stipulati in data antecedente al 4 luglio 2006, relativamente all'accertamento ai fini I.V.A., è precluso il potere di rettifica del corrispettivo delle cessioni di fabbricati, qualora questo risulti di ammontare non inferiore al valore dichiarato e determinato con il criterio di cui all'art. 52, quarto comma, del D.P.R. n. 131/1986; tuttavia, come si evince dall'inciso contenuto nella stessa disposizione di legge - «salvo che da un atto o un documento risultasse un corrispettivo di valore superiore a quello dichiarato dal contribuente» - ciò non esclude che gli Uffici abbiano la possibilità di controllare la veridicità del corrispettivo dichiarato, avvalendosi dei mezzi istruttori previsti in materia di imposte sui redditi, ma, in tali casi, le prove richieste per effettuare la rettifica ai fini I.V.A. devono essere di natura documentale, e, quindi, non fondate su mere presunzioni estimative. A tali conclusioni conduce anche la risoluzione del 29 aprile 1996, n. 62/E/III- 7-1081, con la quale il Ministero dell'Economia e delle Finanze, rispondendo ad un quesito posto dall'Istituto Autonomo delle case popolari, ha precisato che «attraverso la disposizione recata dal citato art. 15 non viene prevista una deroga al criterio di determinazione della base imponibile riferito ai trasferimenti di fabbricati che è, comunque, costituito, secondo i principi delle Direttive comunitarie recepiti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dall'ammontare complessivo del corrispettivo dovuto al cedente secondo le condizioni contrattuali, ma viene riconosciuta rilevanza, ai fini dell'esecuzione del controllo sulla corretta applicazione dell'I.V.A., al fatto che sia indicato nell'atto di vendita un prezzo inferiore al parametro determinato in base alla rendita catastale. Pertanto, in tali ipotesi, non opera in via automatica la presunzione che sia stata ridotta la base imponibile, in quanto la norma contenuta nel richiamato art. 15 è volta ad individuare situazioni che suggeriscono l'opportunità di eseguire controlli da cui possano emergere elementi concreti che gli uffici I.V.A. possono utilizzare per l'esercizio dei poteri di accertamento». La previsione di cui all'art. 15 del D.L. n. 41/1995 deve, quindi, essere interpretata nel senso che se il corrispettivo indicato nell'atto di compravendita è superiore al valore catastale, seppure inferiore al valore di mercato, è consentita una rettifica ai fini I.V.A. solo sulla base di atti e documenti che comprovino l'omessa fatturazione di una parte del prezzo; qualora, invece, il corrispettivo pattuito tra le parti ed indicato nell'atto di compravendita è inferiore al valore catastale, può essere emesso avviso di rettifica ai fini I.V.A. sulla base di elementi di natura documentale oppure, in relazione all'art. 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972, se lo scostamento tra corrispettivo dichiarato e valore di mercato configuri presunzione grave, precisa e concordante che consente di procedere ad accertamento. La Corte di Cassazione, d'altro canto, è ferma nel ritenere che, ai fini dell'accertamento del maggior reddito d'impresa, lo scostamento tra l'importo dei mutui ed i minori prezzi indicati dal venditore è sufficiente a fondare la rettifica dei corrispettivi dichiarati, non comportando ciò alcuna violazione delle norme in materia di onere probatorio (Cass. n. 26485 del 21/12/2016; Cass. n. 7857 del 20/4/2016; Cass. n. 14388 del 9/6/2017) e non potendosi escludere in materia di presunzioni semplici che l'accertamento trovi fondamento anche su un unico elemento presuntivo. Infatti, ai fini degli accertamenti tributari, non è necessario che gli elementi assunti a fonte di presunzioni siano plurimi, benchè gli artt. 2729, primo comma, cod. civ., 38, terzo comma, 39, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973 e 54 del D.P.R. n. 633 del 1972 si esprimano al plurale, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un unico elemento, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell'ambito del processo logico, non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia sorretto da una adeguata motivazione che sia immune da contraddittorietà (Cass. n. 17574 del 29/7/2009; Cass. n. 656 del 15/1/2014; Cass. n. 2155 del 25/1/2019). Lecce, 27 giugno 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


CONTRADDITTORIO E PROVA DI RESISTENZA

La questione inerisce l'interpretazione dell'art. 12, comma 7, della L. n. 212 del 2000 (c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente), ed in particolare se necessiti la c.d. «prova di resistenza» da parte del contribuente al fine di ritenere illegittimo il provvedimento impositivo, in materia di tributi armonizzati (nei quali rientra l’iva), emesso all'esito di accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all'esercizio dell'attività. La Corte di Cassazione (Sezioni Unite, sentenza del 29/07/2013, n. 18184), ha chiarito che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza deve essere provata dall'ufficio fiscale. Successivamente, la Corte di Cassazione (Sezioni Unite, sentenza del 09/12/2015, n. 24823) ha chiarito che l'Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto, purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi «armonizzati», mentre, per quelli «non armonizzati», non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. «a tavolino». Premesso il quadro normativo di riferimento, la Corte di Cassazione ha ritenuto di dare continuità ai principi di recente sanciti dalla Sezione 5 (Cass. sez. 5, sentenza del 15/01/2019, n. 701, e Cass. sez. 5, sentenza del 15/01/2019, n. 702), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale. Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l'applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropé - Organizagòes de Calçado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financién, § 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 § 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 §§ 30,31, resa proprio sull'IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, § 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale). Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell'interpretazione dell'art. 12, comma 7, in oggetto, la Corte di Cassazione ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell'atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l'interlocuzione con l'Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo. Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la «prova di resistenza», nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., § 80; Sopropè, cit., § 37). Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell'ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contradditorio, viene meno in presenza di un'espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione. In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato dalla Corte di Cassazione evidenziato che l'operatività della «prova di resistenza», di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un'espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un'espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinché possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull'intervenuto rispetto del contraddittorio o meno. A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità. Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza. In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non si deve applicare nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino (Corte di Cassazione – Sezione 5 Civile – sentenza n. 22644, depositata l’11 settembre 2019). Ne consegue in definitiva che l'art. 12, comma 7, della L. n. 212 del 2000 effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la «prova di resistenza», sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie). Sicché, anche per i tributi armonizzati, tra i quali l’iva, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l'ipotesi della violazione del termine dilatorio. Lecce, 20 giugno 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


EMERGENZA COVID-19 SOMME ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE E ALL’ADER E NON AI CONTRIBUENTI ! ! !

In questo particolare e difficile momento storico ed economico, in cui la pandemia, oltre ai problemi sanitari, sta producendo una grave crisi, con il rischio di chiusure commerciali ed imprenditoriali, nonché professionali, con inevitabili conseguenze sul piano occupazionale, il Governo, con l’ultimo Decreto-Legge Rilancio, ha pensato bene di integrare le sostanziose risorse economiche spettanti alle Agenzia delle Entrate ed alle Agenzie delle Entrate Riscossione (ADER) per favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti nonché per l’equilibrio gestionale del servizio nazionale di riscossione (artt. 139 e 155 D.L. n. 34 del 19 maggio 2020). Prima di chiarire quanto sopra, è opportuno, secondo me, precisare i rapporti giuridici ed economici che intercorrono tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), le Agenzie fiscali e l’ADER, sulla base della seguente normativa:

  1. il MEF e ciascuna Agenzia, sulla base del documento di indirizzo, stipulano una convenzione triennale, con adeguamento annuale per ciascun esercizio finanziario, con la quale vengono fissati soprattutto i servizi dovuti e gli obiettivi da raggiungere (art. 59, comma 2, D.Lgs. n. 300 del 30/07/1999);
  2. all’esito positivo delle verifiche effettuate dal MEF, finalizzate ad accertare il maggior gettito incassato ed i risparmi di spesa conseguiti al disconoscimento di rimborsi o di crediti d’imposta, peraltro già stanziati, sono previste integrazioni economiche alle Agenzie fiscali, con apposito provvedimento (art. 1, comma 7, D.Lgs. n. 157 del 24/09/2015);
  3. per il potenziamento dell’Amministrazione finanziaria e delle attività di contrasto dell’evasione fiscale, la misura dei compensi incentivanti è stabilita nel 2% (due per cento) e si applica su tutte le somme riscosse in via definitiva a seguito dell’attività di accertamento tributario (art. 12, comma 1, D.L. n. 79 del 28/03/1997, convertito dalla Legge n. 140 del 28/05/1997, c.d. Premio straordinario, già previsto dall’art. 4, comma 2, D.L. n. 564/1994, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 656 del 30/11/1994);
  4. gli oneri di finanziamento del servizio nazionale della riscossione sono disciplinati e previsti dall’art. 17 D.Lgs. n. 112 del 13/04/1999, anche a seguito della soppressione di Equitalia ed istituzione dall’01 luglio 2017 dell’ADER ente pubblico economico strumentale (art. 1, commi 2 e 3, D.L. n. 193/2016, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 225 dell’01/12/2016). Sulla base della succitata normativa, ultimamente il Governo, con gli artt. 139 e 155 D.L. n. 34/2020, ha stabilito e stanziato, a decorrere dal 2020: A) una integrazione economica, in deroga a quanto previsto sulle modalità di riscontro del gettito incassato, per i seguenti motivi:
    • favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti;
    • ottimizzare i servizi di assistenza e consulenza offerti ai contribuenti, favorendone, ove possibile, la fruizione online;
    • migliorare i tempi di erogazione dei rimborsi fiscali ai cittadini ed alle imprese (! ! !); B) il premio straordinario del 2% (vedi n. 3) per l’attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali; C) una quota non superiore a 300 milioni di euro solo per l’anno 2020, come integrazione del contributo a favore dell’ADER (art. 155, comma 1, D.L. n. 34 cit.). A questo punto, il comune cittadino-contribuente si pone la legittima domanda: il Governo, invece di destinare ingenti risorse finanziarie alle Agenzie fiscali, perché non provvede subito ad una seria, organica e strutturale riforma fiscale? Non bisogna altresì dimenticare che, sino ad oggi, più della metà delle imprese che hanno inoltrato domanda di accesso ai prestiti bancari previsti dai decreti legge “Cura Italia” e “Liquidità” è ancora in attesa di finanziamento, perché i crediti garantiti dallo Stato vengono erogati col contagocce (studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro tra il 12 e il 17 giugno 2020), per cui le ingenti somme destinate alle Agenzie fiscali potrebbero invece risolvere molti problemi finanziari di oggi. Infatti, la “promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti”, oggi, è difficile da realizzare quando:
    • la pressione fiscale è oltre il 50% del reddito prodotto (e si arriva quasi al 70% con i vari contributi);
    • la normativa fiscale è oscura, complicata e contraddittoria; infatti, da una indagine condotta dalla Fondazione Nazionale dei Dottori Commercialisti, dal 2008 al 2017 le circolari dell’Agenzia sono state ben 490, le risoluzioni 1768, i provvedimenti del Direttore della stessa Agenzia delle Entrate ben 2023 (il tutto corrispondente a quasi 50.000 pagine), senza citare i numerosissimi decreti attuativi che, solo per la Legge di Bilancio, sono ogni anno circa 200 ! ! !;
    • su 266 articoli del Decreto Rilancio ben 75 richiedono provvedimenti attuativi, con il rischio della decadenza; oltretutto, l’81% di tutte le norme anti COVID è fermo perché sino ad oggi mancano i provvedimenti attuativi;
    • la giustizia tributaria è inadeguata perché gestita ed organizzata dal MEF, che è una delle parti in causa con giudici a tempo parziale, non professionali e pagati dal MEF zero euro per le sospensive e 15 euro nette a sentenza depositata, come più volte scritto nei miei articoli pubblicati sul mio sito (www.studiotributariovillani.it). Invece, se si vuole realizzare seriamente e concretamente la c.d. “TAX COMPILANCE”, incrementando la fiducia dei cittadini-contribuenti verso le Istituzioni ed invogliandoli ad adempiere agli obblighi fiscali, senza eccessive complicazioni, bisogna mettere mano subito ad una seria e strutturale riforma fiscale, dopo l’ultima di cinquant’anni fa, prevedendo:
  5. una sensibile riduzione della pressione fiscale con la “FLAT TAX” o con altre modifiche legislative;
  6. la redazione di un codice tributario unico con norme semplici e ben coordinate;
  7. la riforma della giustizia tributaria, che non deve più dipendere dal MEF, ma dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per rispettare il requisito della terzietà (art. 111, comma 2 della Costituzione), con giudici vincitori di concorso pubblico, professionali, a tempo pieno e dignitosamente retribuiti, come ho più volte sollecitato (oggi, molti disegni di legge in proposito pendono al Senato ed alla Camera, come previsto dal Piano Colao). La grave crisi economica e sanitaria che stiamo attraversando rappresenta l’opportunità per realizzare finalmente quanto sopra esposto. Lecce, 18 giugno 2020 Avv. Maurizio Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


Giudici tributari: per gli emolumenti arretrati pagati entro 120 giorni si applica la tassazione ordinaria

  1. CTR Puglia-Sezione staccata di Lecce, Sez.n.24, n.913/2020 del 22 gennaio 2020 - 2. Emolumenti giudici tributari: arretrati con tassazione separata oltre i 120 giorni dal termine dell’anno di maturazione (Cass. n.3582/2020 )-2.1. Il principio di diritto- 2.2. La motivazione della sentenza

  2. CTR Puglia-Sezione staccata di Lecce, Sez.n.24, n.913/2020 del 22 gennaio 2020 L’oggetto del presente contributo attiene a un caso di un contribuente che, in qualità di giudice tributario, impugnava il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Lecce in merito all’istanza di rimborso Irpef per gli anni dal 2011 al 2014, oltre accessori e interessi. Nel ricorso de quo il contribuente lamentava di essere stato ingiustamente inficiato dal regime ordinario di tassazione sugli emolumenti da lui percepiti come giudice tributario per gli anni predetti, sulla base di una disposizione normativa (art. 39 c. 5 D.L. n.98/2011), dichiarata incostituzionale con sentenza n.142/2014, per contrasto con gli artt.3 e 53 Cost. La CTP di Lecce accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il rimborso dovuto, individuando quali versamenti fossero soggetti a tassazione separata. Avverso la succitata sentenza, l’Agenzia delle Entrate presentava appello, ribadendo la legittimità del suo operato e sottolineando che il ritardo fosse una conseguenza fisiologica insita nelle modalità di erogazione degli emolumenti stessi che necessitavano di precisi tempi tecnici per essere portati a termine, con il conseguente assoggettamento al regime ordinario. Costituitosi in appello, il contribuente chiedeva la conferma della sentenza sottolineando che l’Ufficio aveva riconosciuto il rimborso e, pertanto, non si comprendeva il motivo dell’appello. La CTR Puglia, Sez.staccata di Lecce, in riforma parziale della sentenza accoglieva l’appello. In via preliminare, la CTR ha effettuato un excursus giurisprudenziale sulla quaestio iuris in materia di regime di tassazione degli emolumenti dei giudici tributari, sottolineando che non vi era alcun dubbio interpretativo, in riferimento all’assimilazione dei compensi corrisposti ai giudici tributari con i redditi da lavoro dipendente, dovendosi applicare indistintamente a tutte le competenze arretrate, il regime della tassazione separata, senza poter incidere in alcun modo la causa del ritardo. Difatti, già la Corte Costituzionale con sentenza n.142/2014, aveva statuito l’illegittimità dell’art. 39 comma 5 del D.L. n.98/2011, nella parte in cui la citata norma prevedeva, con imposizione della tassazione ordinaria, un trattamento sfavorevole dei giudici delle Commissioni tributarie rispetto a quello della tassazione separata. Tuttavia, il giudice di seconde cure metteva in evidenza che, il legislatore, “nel far ricadere tutti i compensi indicati dall’art. 17, comma 1 lett. b) del TUIR, nel regime di tassazione separata, non aveva identificato una causa del ritardo che potesse escludere da tale regime, ma aveva parlato, genericamente, di ritardo legato al superamento del 12 gennaio dell’anno successivo a quello di maturazione…”. Tale addentellato normativo, nella sua formulazione generica, non attribuiva, pertanto, alcuna rilevanza al ritardo fisiologico che, come sostenuto dall’Amministrazione Finanziaria, doveva essere ricompreso tra le cause non dipendenti dalla volontà delle parti. Peraltro si osserva, che durante la controversia in commento, nel mentre la CTR si era riservata, (ossia nel lasso di tempo intercorso tra la data dell’udienza e la decisione) sono intervenute tre sentenze gemelle della Suprema Corte (Cass. n.3581/2020; Cass. n.3582/2020; Cass.n.3585/2020), che hanno chiarito i dubbi sulla fisiologicità o meno dei pagamenti degli emolumenti. E invero, secondo il Supremo Consesso, non vi sono i presupposti per l’applicazione del regime a tassazione separata nel momento in cui il pagamento degli emolumenti, avviene nel quarto trimestre (ottobre-dicembre) e, pertanto, quest’ultimo può essere calcolato solo dopo la fine dell’anno; difatti, in tale situazione, si configura un ritardo fisiologico, a causa dei tempi tecnici per porre in essere le operazioni relative alla liquidazione degli emolumenti. Alla luce di tanto, i giudici di legittimità hanno dedotto che è erroneo, dunque, considerare applicabile la tassazione separata, tutte le volte in cui vengono superati i limiti del 12 gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento, come previsto nell’art. 51 D.P.R. n.917/86. A tal proposito, appare opportuno esaminare di seguito l’iter logico seguito dalla Corte di Cassazione per l’enunciazione del principio di diritto enucleato nelle pronunce de quibus.

  3. Emolumenti dei giudici tributari: arretrati con tassazione separata oltre i 120 giorni dal termine dell’anno di maturazione (Cass. n.3582/2020) 2.1. Il principio di diritto La Corte di Cassazione, con la sentenza n.3582/2020 he enucleato in materia di compensi dei giudici tributari il principio di diritto secondo cui gli emolumenti dei magistrati tributari, corrisposti oltre 120 giorni dal termine dell’anno di maturazione (senza che sussistano circostanze giustificative eccezionali) sono assoggettati a tassazione separata. Precisamente, oltre predetto termine, si tratta di arretrati che non possono essere tassati in via ordinaria. Peraltro, sul punto, i giudici di legittimità, con tre sentenze analoghe (nn. 3581, 3584 e 3585 del 2020), hanno risolto il dibattito giurisprudenziale sulla tassazione dei compensi dei giudici tributari sistematicamente corrisposti con notevole ritardo.

2.2. La motivazione della sentenza In via preliminare, la Suprema Corte nella sentenza in esame (Cass.n.3582/2020), elenca il novero di disposizioni normative che disciplina l'imposizione tributaria sui redditi di lavoro dipendente e assimilati, categoria nella quale s’inscrivono, attraverso l’art.50 comma 1, lett. f) TUIR, i compensi dovuti ai giudici tributari. A riguardo, secondo la ricostruzione offerta dalla sentenza n. 142/2014 della Corte costituzionale, vale a dire: • il criterio generale dell'imposizione su detti redditi è il principio di cassa, ricavabile dall'articolo 7, TUIR, secondo cui ad ogni anno solare, di regola, corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma; • la previsione è integrata dal principio della "cassa allargata", che trova fondamento nell'articolo 51, comma 1, TUIR, che parifica, ai fini impositivi, i compensi di lavoro dipendente e assimilati, erogati entro il 12 gennaio dell'esercizio successivo, a quelli erogati nel precedente; • di converso, per i redditi percepiti in un determinato periodo d'imposta, ma maturati in tempi precedenti, vige il diverso regime della tassazione separata (articolo 17, comma 1, TUIR), che è una modalità particolare di determinazione dell'IRPEF, la cui ratio è individuata dalla circolare del Ministero delle Finanze n. 23/E del 5 febbraio 1997 nella necessità di "attenuare gli effetti negativi che deriverebbero dalla rigida applicazione del criterio di cassa" in quei casi in cui la tassazione ordinaria di un reddito formatosi nel corso di più anni, ma corrisposto in unica soluzione, potrebbe risultare eccessivamente onerosa per il contribuente; • più precisamente, la disciplina dei compensi erogati ai giudici tributari è contenuta nell’art.13 del D.lgs n.545/1992, il quale stabilisce che i giudici componenti delle Commissioni tributarie percepiscono due tipi di compensi: uno mensile, determinato in cifra fissa, e uno aggiuntivo variabile, che discende dal numero e dalla tipologia dei provvedimenti depositati. L'entità dei compensi è stabilita periodicamente dal Ministero dell'Economia e delle Finanze con proprio decreto. Le modalità di computo ed erogazione, in attuazione del primo decreto interministeriale 19 dicembre 1997, sono contenute nella circolare del Ministero delle Finanze n. 80/E dell'11 marzo 1998, secondo la quale la liquidazione dei compensi deve avvenire di regola mensilmente; • i compensi dei giudici tributari sono assimilati dall'articolo 50, comma 1, lettera f), TUIR, ai redditi di lavoro dipendente, sicchè anch'essi sono soggetti alle disposizioni inerenti a tale categoria generale, comprese quelle che determinano i principi della tassazione per cassa, per "cassa allargata" e il criterio della tassazione separata per gli emolumenti arretrati; • l'originaria versione dell'articolo 17 (già articolo 16), TUIR, non forniva la nozione di "emolumenti arretrati", ma si limitava a fare generico riferimento agli "emolumenti arretrati relativi ad anni precedenti per prestazioni di lavoro dipendente"; in seguito, la L. 28 dicembre 1995, n. 549, articolo 3, comma 82, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), ha precisato che tale locuzione individua "(...) emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti". Tanto premesso, si osserva che le disposizioni normative sopracitate sono state lette alla luce della sentenza della Consulta, la n. 142/2014 che, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 comma 5 del D.lgs n.98/2011, ha sottolineato che tra tutti i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente indicati dall'articolo 50, TUIR, soltanto per gli emolumenti arretrati riferibili all'anno precedente corrisposti ai giudici tributari era stata prevista la tassazione ordinaria - comportante l'applicazione dell'aliquota massima inerente ai redditi dell'anno di percezione - fino al compimento dell'intero periodo d'imposta successivo a quello di competenza, in sintesi ampliando, secondo il giudice a quo, in modo assolutamente discriminatorio nell'ambito della categoria dei percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, il principio della cassa allargata da 12 giorni all'intero anno solare. Difatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto fondate le censure di irragionevolezza e contraddittorietà sollevate nei confronti dell'articolo 39, comma 5, cit., sul rilievo che "il legislatore non ha espunto i compensi dei giudici tributari dal novero dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, nè tanto meno ha recato altre modifiche alla disciplina generale in materia di tassazione separata, implicitamente confermando la natura degli stessi ed il conseguente assoggettamento al regime di favore. Quest'ultimo, peraltro, e' stato irragionevolmente vanificato dall'anomala prescrizione temporale che, di fatto, ha riprodotto, per la sola categoria dei giudici tributari, la regola del cumulo". Dopo aver fatto questa dovuta premessa del quadro normativo e sistematico e ritornando al caso esaminato dalla sentenza n.3582/2020, il Supremo Consesso, ha messo in evidenza che l’Amministrazione finanziaria ha negato il rimborso IRPEF richiesto dal contribuente, seguendo la direttrice posta dal Ministero dell'Economia e delle Finanze (sin dalla circolare n. 23/E del 5 febbraio 1997), che interpreta la norma in oggetto, come modificata dalla L. n. 549 del 1995, articolo 3, comma 82, nel senso che essa stabilisce che gli emolumenti da lavoro dipendente (o assimilati) corrisposti in ritardo possono essere assoggettati a tassazione separata allorquando il ritardo non sia dipeso da accordi tra le parti, ma da circostanze oggettive di fatto o da impedimenti di carattere giuridico. Inoltre, per la stessa circolare, non può farsi luogo a tale imposizione separata quando il pagamento in ritardo debba considerarsi una "conseguenza fisiologica", insita nelle modalità di erogazione degli emolumenti stessi, tali da richiedere determinati tempi tecnici per essere condotte a termine. Ebbene, il Supremo Consesso ha condiviso tale interpretazione della circolare che, sostanzialmente poggia sul significato della locuzione "ritardo fisiologico". Secondo il Supremo Consesso, ciò si evince dall’esegesi storica del dato normativo, premesso che: • il regime della c.d. "tassazione separata" (il cui fondamento può rinvenirsi nell'intervallo temporale tra la realizzazione della fattispecie produttiva del reddito ed il momento di rilevanza fiscale dello stesso) è stato introdotto nell'ordinamento al fine di equamente contemperare o, comunque, attenuare gli effetti della congiunta applicazione del principio di imputazione per cassa (quale rinvenibile dall'articolo 7, TUIR,) e di quello di proporzionalità dell'IRPEF, con l’art.12 D.P.R. n.597/1973 D.P.R. n.597/1973 che ne individuava l'oggetto nei soli "arretrati riferibili ad anni precedenti"; • predetta disposizione, poi, è stata trasfusa nell'articolo 16, comma 1, lettera b), TUIR (vecchia numerazione), per essere, quindi, modificata, anche a seguito della contrapposta interpretazione della norma da parte della prassi e della prevalente giurisprudenza (che ne forniva una lettura strettamente letterale a prescindere dalle ragioni alle quali fosse riconducibile il ritardo), nell'attuale formulazione della L. n. 549 del 1995, cit. articolo 17, articolo 3, comma 82, lettera a), n. 1; • in base all'attuale formulazione della norma de qua, pertanto, è palese (come del resto confermano la relativa relazione illustrativa e la dottrina maggioritaria) che - escluse le ipotesi in cui ricorrano le "cause di carattere giuridico" - il regime della tassazione separata non è più applicabile a qualunque "emolumento arretrato" (secondo l'accezione letterale del previgente articolo 16, cit.), occorrendo, invece, a tale fine, individuare la causa dell'intervallo temporale tra periodo di imposta di maturazione e periodo di imposta di percezione dello stesso, e cioè distinguere tra cause di ritardo indipendenti o dipendenti dalla volontà delle parti. Alla luce del contenuto e della ratio del dato normativo, emerge l’erroneità della tesi che ancora la definizione di “arretrato” del compenso (idoneo, come tale, ad essere assoggettato al regime di tassazione separata di cui all'articolo 17, citato), al mero superamento, nella sua corresponsione, della data del 12 gennaio dell'anno successivo a quello di maturazione, come prevista nell'articolo 51, TUIR. Difatti, i giudici di legittimità nella pronuncia in esame, hanno sottolineato che dalla lettura del combinato disposto degli artt.17 e articolo 51, TUIR, emerge che tali addentellati normativi trovano ratio e applicazione in ambiti diversi; laddove la limitata deroga al principio di cassa (di cui all’articolo 51), non soltanto è scissa, sul piano sistematico, dall'articolo 17, cit., ma risponde ad obiettivi diversi rispetto a quelli che hanno portato il legislatore ad adottare il meccanismo della tassazione separata, al fine di mitigare i possibili effetti distorsivi della sincronica applicazione del principio di cassa e di proporzionalità dell'IRPEF. A seguito di tale iter logico, il Supremo Consesso ha elaborato il seguente principio di diritto: “In materia di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, corrisposti nell'anno successivo a quello di maturazione, non sono ricompresi tra i redditi arretrati, assoggettabili a tassazione separata, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 17, gli emolumenti per i quali il ritardo nella loro corresponsione, nell'anno successivo a quello di riferimento, sia fisiologico rispetto alla natura del rapporto dal quale derivano, e cioè sia la necessaria conseguenza di particolari procedure per la loro quantificazione e liquidazione". Per colmare il vuoto normativo circa l'individuazione dei tempi tecnici mediamente occorrenti ( c.d. "fisiologici”) per la corresponsione degli emolumenti, la Cassazione ha ritenuto che un termine ragionevolmente congruo affinchè la P.A. provveda ai diritti patrimoniali di privati è di 120 giorni(che trova legittimazione negli artt. 1183 c.c. e 97 Cost). Più nel dettaglio, i giudici di legittimità, dato per acquisito quanto detto dall’Agenzia(che riconosce che la scadenza fisiologica per l'erogazione dei compensi variabili del terzo trimestre, senza travalicare l'anno di maturazione dell'emolumento, è successiva al 15 ottobre, con riferimento ai compensi variabili maturati nel quarto trimestre), ha ritenuto che“[…]un termine possa ragionevolmente individuarsi, in aggiunta a quello fissato come iniziale dalla suddetta Direttiva (dopo il 15 gennaio), in quello di 120 giorni, in parametro con quello previsto, dopo la novella del 2000 (L. n. 388 del 2000, articolo 147), dal Decreto Legge 31 dicembre 1996, n. 669, articolo 14, (in tema di esecuzioni forzata nei confronti di pubbliche amministrazioni), quale idoneo spatium adimplendi da concedere all'Amministrazione per l'approntamento dei controlli e dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei compensi variabili”. In conclusione, in materia di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, corrisposti nell'anno successivo a quello di maturazione, non sono ricompresi tra i redditi arretrati, assoggettabili a tassazione separata, ai sensi dell'art. 17, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, gli emolumenti per i quali il ritardo nella loro corresponsione, nell'anno successivo a quello di riferimento, sia fisiologico rispetto alla natura del rapporto dal quale derivano, ossia che predetto ritardo sia la necessaria conseguenza di particolari procedure per la loro quantificazione e liquidazione. Lecce, 18 giugno 2020 Avv. Maurizio Villani Avv. Lucia Morciano

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it