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OPERAZIONI SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI DEDUCIBILITA’ DEI COSTI

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L'art. 8, decreto-legge n. 16/2012, sostituendo il comma 4-bis, legge n. 537/1993, ha reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con esclusione però dei costi e delle spese "direttamente utilizzati" per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale. Il nuovo art. 14, comma 4-bis, dopo l'intervento modificativo sopra citato, prevede che "nella determinazione dei redditi di cui del testo unico delle imposte sui redditi, art. 6, comma 1,.... non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell'art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell'art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. L'art. 8, comma 2, del medesimo decreto-legge n. 16/2012, prevede, poi, che "ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri componenti negativi". Il successivo comma 3, dell'art. 8, infine, detta la disciplina transitoria, con effetto retroattivo delle norme se più favorevoli al contribuente ("le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell'entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi"), con rilievo anche d'ufficio da parte del giudice (Cass. civ., 24 luglio 2018, n. 19617). Va, quindi, precisato che l'art. 8, comma 1, decreto-legge n. 16/2012, non concerne i costi relativi ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, mentre trova applicazione per i costi relativi a fatture soggettivamente inesistenti, in quanto in tale seconda ipotesi il costo riportato in fattura è effettivo e, di regola, non è utilizzato per la commissione di alcun reato. Poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente "al fine di commettere il reato", bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell'acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall'effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (Cass. Civ., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., Quinta Sezione Civile, sentenza n. 25106/2020, depositata il 10 novembre 2020). Ne consegue, dunque, che ai soggetti coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, in relazione alla novella, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente "al fine di commettere il reato", ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti. La Corte di Cassazione (Cass. civ., 12 dicembre 2019, n. 32587; Cass. civ., 30 ottobre 2018, n. 27566), in materia di deducibilità dei costi per operazioni soggettivamente inesistenti ha, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi e di Irap ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito in L. n. 44 del 2012, con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti – inseriti o meno in una frode carosello - per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell'ipotesi in cui l'acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo". La Corte di Cassazione (Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851) ha, inoltre, precisato che, quando si contesti dall'Amministrazione finanziaria l'illegittima detrazione dell'Iva in quanto relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti:

  1. ha l'onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta;
  2. la prova della consapevolezza dell'evasione richiede che l'Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l'ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l'operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente;
  3. incombe, invece, sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un'evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi. Lecce, 19 dicembre 2020

                            Avv. Maurizio Villani
                            Avv. Antonella Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


Agevolazioni prima casa e dichiarazione di trasferimento

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Come noto, le agevolazioni prima casa sono rivolte al contribuente che per la prima volta acquista la piena proprietà o la nuda proprietà, l’abitazione, l’uso e l’usufrutto di una unità immobiliare non di lusso. Nello specifico, le agevolazioni per l'acquisto della prima casa di abitazione sono disciplinate dalla Nota II-bis, posta in calce all'articolo 1 della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 del 1986. Tale disposizione stabilisce l'applicazione dell'imposta di registro nella misura del 2% per i trasferimenti e la costituzione di diritti reali di godimento che hanno per oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni previste dalla citata Nota, con un’imposta ipotecaria e catastale fissa di 50 euro. Per quanto attiene, invece, all’acquisto da un’impresa, con vendita soggetta ad Iva, si avrà l’applicazione dell’Iva nella misura del 4% e l’imposta ipotecaria e catastale in misura fissa di 200 euro. Affinché si possa godere delle agevolazioni prima casa, è necessario che:

  • il fabbricato che si acquista appartenga a determinate categorie catastali;
  • il fabbricato deve essere ubicato nel Comune in cui l’acquirente ha o intende stabilire la residenza o lavora;
  • l’acquirente deve avere determinati requisiti.

Categoria catastale Orbene, in relazione alla categoria catastale che l’immobile che si acquista deve avere per poter usufruire delle agevolazioni “prima casa”, le categorie catastali sono le seguenti: • A/2 - abitazioni di tipo civile; • A/3 - abitazioni di tipo economico; • A/4 - abitazioni di tipo popolare; • A/5 - abitazioni di tipo ultra popolare; • A/6 - abitazioni di tipo rurale; • A/7 - abitazioni in villini; • A//11 – abitazioni e alloggi tipici dei luoghi.

Sono, pertanto, esclusi dalle agevolazioni “prima casa” gli acquisti di abitazioni appartenenti alle categorie catastali A/1 (abitazione di tipo signorile), A/8 (abitazione in ville) e A/9 (castelli e palazzi di eminenti pregi artistici e storici). Rientrano, invece, nelle agevolaizoni gli acquisti delle pertinenze, classificate o classificabili nelle categorie catastali: • C/2 (magazzini e locali di deposito); • C/6 (per esempio, rimesse e autorimesse); • C/7 (tettoie chiuse o aperte); limitatamente a una pertinenza per ciascuna categoria. È necessario, tuttavia, che le stesse siano destinate in modo durevole a servizio dell’abitazione principale e che questa sia stata acquistata beneficiando delle agevolazioni “prima casa”.

Ubicazione dell’immobile Altro requisito fondamentale è quello relativo al luogo in cui è ubicato l’immobile oggetto dell’acquisto. Al fine di poter usufruire dei benefici, è necessario che l’immobile sia ubicato nel comune in cui l’acquirente abbia, o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto, la propria residenza. La dichiarazione di voler effettuare il cambio di residenza deve essere contenuta, a pena di decadenza, nell’atto di acquisto. In ogni caso, si ha diritto alle agevolazioni anche quando l’immobile è situato:

  • nel territorio del comune in cui l’acquirente svolge la propria attività (anche se svolta senza remunerazione, come, per esempio, per le attività di studio, di volontariato, sportive);
  • nel territorio del comune in cui ha sede o esercita l’attività il proprio datore di lavoro, se l’acquirente si è dovuto trasferire all’estero per ragioni di lavoro;
  • nell’intero territorio nazionale, purché l’immobile sia acquisito come “prima casa” sul territorio italiano, se l’acquirente è un cittadino italiano emigrato all’estero. La condizione di emigrato può essere documentata attraverso il certificato di iscrizione all’AIRE o autocertificata con dichiarazione nell’atto di acquisto.

Requisiti dell’acquirente L’acquirente non deve essere titolare, esclusivo o in comunione con il coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso o abitazione di altra casa di abitazione nel comune dove è situato l’immobile acquistato. L’acquirente non deve essere titolare, neppure per quote di comproprietà o in regime di comunione legale, in tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, anche nuda, o di diritti reali di godimento su altra casa di abitazione acquistata dall’acquirente o dal coniuge con le agevolazioni “prima casa”; alternativamente, l’agevolazione “prima casa” spetta (interamente o per quota) anche nel caso di possesso di altra abitazione precedentemente non acquistata con i benefici prima casa situata in qualsiasi punto del territorio italiano indipendentemente dallo stesso comune o meno. In questo caso, infatti, è importante l’aspetto della novità nella fruizione del beneficio fiscale ed indipendentemente dallo status dei coniugi. Se, infatti, entrambi sono in comunione o in separazione e non hanno fruito mai del beneficio fiscale prima casa, lo potranno utilizzare anche successivamente. Se uno dei due, invece, ne ha fruito solo l’altro coniuge lo potrà utilizzare e limitatamente alla quota di pertinenza. In caso di acquisto destinato a ricadere in comunione legale, per poter ottenere le agevolazioni sull’intero bene è necessario, che in sede di acquisto, le dichiarazioni di cui sopra siano rese da entrambi i coniugi.

Perdita delle agevolazioni Al verificarsi di determinati accadimenti, il contribuente può andare incontro alla perdita delle agevolazioni, con la conseguenza di dover versare le imposte risparmiate, oltre gli interessi e una sanzione del 30% delle imposte stesse. Le ipotesi in cui si perde il diritto alla agevolazione “prima casa” possono essere:

  • la mendacità dei requisiti dichiarati dal contribuente;
  • il mancato trasferimento della residenza nel Comune ove è situato l’immobile entro diciotto mesi dall’acquisto;
  • l’alienazione dell’immobile agevolato nei cinque anni dall’acquisto, a meno che il contribuente riacquisti entro l’anno successivo al rogito un altro immobile da destinare a propria abitazione principale.

Conservazione delle agevolazioni Il contribuente non perde le agevolazioni quando, entro un anno dalla vendita o dalla donazione:

  • acquista un immobile situato in uno Stato estero, a condizione che esistano strumenti di cooperazione amministrativa che consentono di verificare che l’immobile acquistato è stato adibito a dimora abituale;
  • acquista un terreno e, sempre nello stesso termine, realizza su di esso un fabbricato (non rientrante nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9) da adibire ad abitazione principale; in tal caso, non è necessario che il fabbricato sia ultimato, è sufficiente che lo stesso, entro l’anno, acquisiti rilevanza dal punto di vista urbanistico. Per evitare di incorrere nella decadenza, deve esistere, quindi, un rustico comprensivo delle mura perimetrali delle singole unità e deve essere stata completata la copertura;
  • costruisce un altro immobile ad uso abitativo su un terreno di cui sia già proprietario al momento della cessione dell’immobile agevolato.

Al fine di conseguire le agevolazioni “prima casa” è sufficiente che il contribuente presenti la domanda di trasferimento entro i 18 mesi – Cassazione – Sezione Tributaria Civile – ordinanza n. 27837 del 04/12/2020 La Corte di Cassazione Sezione Tributaria Civile – con ordinanza n. 27837 del 04/12/2020, ha rigettato il ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate che aveva ritenuto decaduta dalle agevolazioni fiscali “prima casa” una contribuente, stante il mancato trasferimento della residenza nel comune in cui era sito l’immobile dalla stessa acquistato. Avverso l’atto di liquidazione notificato dall’amministrazione finanziaria, la contribuente proponeva tempestivo ricorso con il quale contestava l’intervenuta decadenza triennale del potere di accertamento in capo all’Agenzia delle Entrate ex art. 76, comma 2, D.P.R. n. 131 del 1986 e, nel merito, il difetto di motivazione dell’avviso impugnato. Sia i giudici di primo che i giudici di secondo grado accoglievano le tesi difensive della contribuente e, avverso la sentenza di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione denunciando la violazione dell’art. 1 della Tariffa, Parte 1, nota 2-bis n. 1 lett. a) del d.p.r. n. 131 del 1986, ex art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. Nello specifico, la ricorrente riteneva che la CTR avesse errato nel considerare adempiuto l’onere di trasferimento della residenza entro 18 mesi nel Comune ove si trovava l’immobile per il quale si chiedevano i benefici fiscali “prima casa”, con la mera richiesta inoltrata dalla contribuente agli uffici comunali competenti, essendo al contrario necessario che il procedimento di trasferimento in esame si concludesse entro il suddetto termine. In particolare, la questione sottoposta alla Corte è stata la seguente: se, ai fini dell’applicazione delle agevolazioni prima casa di cui all’art. 1 cit., il momento di acquisto della residenza anagrafica coincide con la domanda intesa ad ottenere il trasferimento o con l’accoglimento della stessa da parte dell’ente locale competente. Orbene, al riguardo la Suprema Corte ha, innanzitutto, richiamato il principio consolidato secondo cui <<in tema di benefici fiscali cosiddetti “prima casa”, l’agevolazione spetta a coloro che abbiano fatto richiesta di trasferimento della residenza nel comune di ubicazione dell’immobile acquistato nel termine di diciotto mesi dall’acquisto, in base al principio dell’unicità del procedimento amministrativo inteso al mutamento dell’iscrizione anagrafica, di cui all’art. 18, comma 2, del D.P.R. n. 223 del 1989 (nella formulazione vigente “ratione temporis”), ai sensi del quale la decorrenza è quella della dichiarazione di trasferimento resa dall’interessato nel comune di nuova residenza (…)>> (Cass. n. 19684 del 2015).>> Del resto - sottolineano i giudici di legittimità - è stata la stessa Amministrazione finanziaria, con la Circolare n. 38/E del 12 agosto 2005, a chiarire che <<ai fini della corretta valutazione del requisito di residenza, dovrà considerarsi che il cambio di residenza si considera avvenuto nella stessa data in cui l’interessato rende al comune, ai sensi dell’articolo 18, comma 1 e 2, del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (regolamento anagrafico della popolazione residente) la dichiarazione di trasferimento (cfr. circolare n. 1 del 2 marzo 1994 cap. 1, par 2, lettera b)>>. Da tanto ne discende che, se il contribuente presenta la domanda di trasferimento della residenza entro i 18 mesi previsti dalla norma, è irrilevante il tempo che impiega il Comune nel completare il procedimento di trasferimento ai fini del riconoscimento dei benefici fiscali, ciò in quanto, la conclusione positiva del procedimento comunale di trasferimento della residenza ha effetto retroattivo alla data di presentazione della domanda, con la conseguenza che il richiedente risulta effettivamente residente nel Comune sin dalla data di presentazione della domanda.

Lecce, 10 dicembre 2020

Avv. Maurizio Villani Avv. Alessandra Rizzelli

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


LA MOTIVAZIONE DEGLI ATTI FISCALI

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La Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo il quale la cartella esattoriale, ove non preceduta da un avviso di accertamento, deve sempre essere motivata in modo congruo, sufficiente ed intellegibile, tale obbligo derivando dai principi di carattere generale indicati, per ogni provvedimento amministrativo, dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, e recepiti, per la materia tributaria, dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 (Cass. n. 9799/2017; 31270/2018; Cass. n. 20784/2020). La mancanza di adeguata informazione del contribuente trova ulteriore conferma nel mancato invio di una previa comunicazione di irregolarità. Tale strumento avente funzione di garanzia può realizzare compiutamente la necessaria interlocuzione tra l'amministrazione finanziaria ed il contribuente e chiarire ogni aspetto legato alla singolarità della emissione, per esempio, di due atti di recupero per la stessa imposta e la medesima annualità. Trattandosi di vizio originario dell'atto, di per sè stesso idoneo a determinarne l'invalidità, a nulla rileva che l'ufficio abbia esplicitato in sede di controdeduzioni quali fossero in concreto le ragioni delle pretese oggetto delle singole cartelle. La Corte di Cassazione ha ripetutamente espresso il principio secondo il quale la motivazione dell'atto tributario costituisce sempre lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente. All'interno della motivazione, pertanto, devono sempre essere indicati gli elementi che l'ufficio ha posto a base della pretesa, non potendo l'amministrazione integrare le proprie ragioni in corso di giudizio (cfr. Cass. 11777/2016, 25879/2015). Inoltre, mancando l'indicazione del tasso e della decorrenza degli interessi, i contribuenti non sono posti nella condizione di calcolare la correttezza del calcolo degli interessi operato dall'agenzia sulla base della somma dovuta. Anche in questo caso, a nulla rileva, dunque, che l'ufficio solo in sede di controdeduzioni abbia esplicitato i criteri applicati e neppure che l'agenzia avesse inviato un fax con cui aveva preannunciato l'iscrizione a ruolo degli interessi, posto che nemmeno con tale atto aveva illustrato gli elementi su cui il calcolo era basato (Corte di Cassazione n. 9799/2017; Corte di Cassazione n. 31270/2018). Nel procedimento tributario, la motivazione dell'avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni atteso che deve garantire sempre il diritto di difesa del contribuente, delimitando l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, che non possono riguardare fatti nuovi e diversi, perché, in tal caso, si amplierebbe di fatto il termine per l'accertamento ove si dovesse ritenere che l'ufficio può modificare le ragioni poste a fondamento dell'atto impositivo (Corte di Cassazione n. 25879/2015). L'obbligo di motivazione dell'atto impositivo persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa impositiva in misura tale da consentirgli sia di valutare l'opportunità di esperire l'impugnazione giudiziale, sia, in caso positivo, di contestare efficacemente l'an e il quantum debeatur. Detti elementi conoscitivi devono sempre essere forniti all'interessato, non solo tempestivamente (e cioè inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta al medesimo un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass. 25 marzo 2014 n. 7056; Cass. 20 settembre 2013 n. 21564). In sede contenziosa, i contribuenti devono sollevare, in modo chiaro e preciso, tutte le eccezioni sopra esposte, più volte chiarite dalla Corte di Cassazione. Lecce, 12 dicembre 2020

                                Avv. Maurizio Villani
                                Avv. Alessandro Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


ICI – IMU ABITAZIONE PRINCIPALE E FAMIGLIA

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La questione sottoposta all'esame della Corte di Cassazione riguarda la spettanza o meno delle agevolazioni tributarie previste a titolo di ICI (oggi IMU) per l'abitazione principale in un caso in cui l'immobile costituisca la dimora abituale di un solo coniuge mentre l'altro, nella specie, la moglie, si sia trasferito in un'altra abitazione, sita in diverso comune, insieme ai figli. Così sinteticamente descritta la fattispecie, occorre premettere che in tema di agevolazioni fiscali a titolo di ICI (oggi IMU), l'art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 prevede un beneficio fiscale in relazione all'unità immobiliare adibita ad abitazione principale dal soggetto passivo dell'imposta. L'art. 8, comma 2, del d.lgs. citato chiarisce che "per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente". Secondo la giurisprudenza di legittimità ai fini della spettanza della detrazione e dell'applicazione dell'aliquota ridotta prevista per le "abitazioni principali", un'unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione nell'ipotesi in cui tale requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente ed invece difetti nei familiari (Cass., sez. 6-5, 21/06/2017, n. 15444, Cass., sez. 5, 15/06/2010, n. 14389). Trattandosi peraltro di norma agevolativa fiscale, è norma di stretta interpretazione e quindi non estensibile ai casi non espressamente previsti in quanto costituisce comunque deroga al principio di capacità contributiva sancito dall'art. 53 Cost.. Con riguardo al concetto di "abitazione principale" considerato dalla norma, va altresì considerato che la giurisprudenza di legittimità (vedi Cass. Sez. 5 n.14389/2010) ha richiamato quello tradizionale di "residenza della famiglia" desumibile dall'art. 144 c.c., comma 1, ritenendo così legittima l'applicazione al primo dell'elaborazione giurisprudenziale propria della norma codicistica, in particolare del principio per il quale per "residenza della famiglia" deve intendersi il "luogo" di "ubicazione della casa coniugale" perché questo luogo "individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famiglia", "salvo che" "tale presunzione sia superata dalla prova" che lo spostamento... della propria dimora abituale sia stata causata dal "verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza". Pertanto, occorre distinguere l'ipotesi in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, da quella, in cui risulti accertato che il trasferimento della dimora abituale di uno dei coniugi sia avvenuto "per la frattura del rapporto di convivenza, cioè di una situazione di fatto consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della convivenza, sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale, con conseguente superamento della presunzione di coincidenza tra casa coniugale e abitazione principale" (per la differenziazione di tali ipotesi vedi Cass., sez. 6-5, 17/5/2018, n. 12050; Cass., Sezione Tributaria, sentenza n. 24294/20, depositata il 03 novembre 2020). Nel primo caso, infatti, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed automa rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche “l'abitazione principale" ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all'agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della "abitazione principale" del suo nucleo familiare. Ciò per impedire che la fittizia assunzione della dimora o della residenza in altro luogo da parte di uno dei coniugi crei la possibilità per il medesimo nucleo familiare di godere due volte dei benefici per la abitazione principale. Nel secondo caso, invece, la frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi, intesa quale separazione di fatto, comporta una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, “l'abitazione principale" non potrà essere più identificata con la casa coniugale (vedi da ultimo Cass., Sez. 5, n. 15439/19). Ed invero, una volta ritenuto che al fine di stabilire la spettanza o meno delle agevolazioni ICI (oggi IMU) per l'abitazione principale sia necessario accertare per quali ragioni i coniugi non dimorassero entrambi presso l'immobile de quo, ovvero se si verta o meno in una ipotesi di separazione di fatto, si può tenere conto degli atti notori. Infatti, va premesso che, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, si riferisce alla prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica l'impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell'amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (vedi Cass., Sez. 6-5, n. 29757/2018). Tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all'art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni. In questo ambito, al fine di evitare che l'ammissibilità di tali dichiarazioni possa pregiudicare la difesa del contribuente ed il principio di uguaglianza delle parti, è necessario riconoscere che, al pari dell'Amministrazione finanziaria, anche il contribuente possa introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni Tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni. Tali dichiarazioni possono essere introdotte nel giudizio tributario avendo la stessa valenza indiziaria in proprio favore, in conformità ai principi del giusto processo ex art. 6 CEDU (vedi Cass., Sez. 6-5, n. 6616/2018; Cass. Sez.6- 5, n. 21153/2015). Lecce, 05 dicembre 2020

                            Avv. Maurizio Villani
                            Avv. Antonella Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


NOTIFICHE AGLI IRREPERIBILI

Si precisa che, ai sensi dell'art. 26, primo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, (anche) nella prima formulazione, la notifica della cartella di pagamento può avvenire anche mediante invio diretto, da parte dell'agente della riscossione, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, oltre che nelle forme ordinarie per il tramite di un intermediario (quale, innanzitutto, l'ufficiale giudiziario) (cfr. Cass., ord. 13 luglio 2017, n. 17248; Cass. 19 marzo 2014, n. 6395). La facoltà riconosciuta all'agente della riscossione alla notifica «diretta» delle cartelle esattoriali e, più in generale, la previsione di un regime differenziato della riscossione coattiva è stata ritenuta coerente con il dettato costituzionale, avuto riguardo alla natura sostanzialmente pubblicistica della posizione e dell'attività dell'agente della riscossione e alla strumentalità di tale attività al regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato, in relazione all'esigenza della pronta realizzazione del credito fiscale (cfr. Corte Cost., 23 luglio 2018, n. 175). Il successivo terzo comma del richiamato art. 26 aggiunge che, nei casi previsti dall'art. 140 c.p.c., ossia di irreperibilità del destinatario dell'atto o rifiuto di riceverne la copia, la notificazione della cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dall'art. 60, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l'avviso del deposito è affisso nell'albo del comune. Tale disposizione di legge stabilisce, al primo comma, che «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: [...] e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l'avviso del deposito prescritto dall'art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell'albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere si ha per eseguita nell'ottavo giorno successivo a quello di affissione». Con sentenza n. 258 del 22 novembre 2012, la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario restringere la sfera di applicazione del combinato disposto degli artt. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. n. 600 del 1973 alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario «assolutamente» irreperibile e, quindi, escludendone l'applicazione al caso di destinatario «relativamente» irreperibile, previsto dall'art. 140 cod. proc. civ., che rimane assoggettato alla disciplina di tale ultimo articolo, per effetto del richiamo operato dal primo alinea del primo comma dell'art. 60 (cfr., sul punto, Cass. 26 novembre 2014, n. 25079). Ciò posto, si osserva che la nozione di inesistenza della notificazione deve essere definita in termini assolutamente rigorosi, cioè confinata ad ipotesi talmente radicali che il legislatore ha ritenuto di non prendere nemmeno in considerazione, quali il caso di totale mancanza materiale dell'atto ovvero di attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell'atto (cfr. Cass., Sez. Un., 20 luglio 2016, n. 14916). Tale principio è applicabile alla notifica della cartella di pagamento e conduce a ritenere che ogni ipotesi di difformità della notifica dal modello legale - fatta eccezione per i casi di assenza degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto quale notificazione -, ricadono nella categoria della nullità, sanabile con efficacia ex tunc per raggiungimento dello scopo (in tale senso, Cass. 28 ottobre 2016, n. 21865). Pertanto, l'omesso compimento delle formalità imposte dall'art. 140 c.p.c. in occasione della notifica di una cartella di pagamento determina un vizio di nullità sanabile, per raggiungimento dello scopo (cfr., in tema, Cass. 26 febbraio 2019, n. 5556). Infatti, la natura sostanziale e non processuale della cartella di pagamento non osta all'applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, avuto riguardo al rinvio disposto dall'art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 alle norme sulle notificazioni nel processo civile (cfr. Cass. 31 ottobre 2018, n. 27651; Cass. 13 gennaio 2016, n. 384). Così, per esempio, nel ritenere inesistente la notifica della cartella di pagamento perché eseguita direttamente dall'agente della riscossione e non assistita dalla prova del compimento dei relativi adempimenti, non si fa corretta applicazione dei richiamati principi di diritto. Infine, giova rammentare che nel giudizio tributario il divieto di proporre nuove eccezioni, in sede di gravame, previsto all'art. 57, secondo comma, d.lgs. n. 546 del 1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d'invalidità dell'atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (cfr. Cass., ord., 29 dicembre 2017, n. 31224; Cass., ord., 22 settembre 2017, n. 22105). In particolare, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello non limita la possibilità di difendersi dalle contestazioni già dedotte in giudizio, perché le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un'eccezione non costituiscono, a loro volta, eccezione in senso tecnico (così, Cass., ord. 7 giugno 2013, n. 14486; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3338).

Lecce, 14 novembre 2020

                            Avv. Maurizio Villani
                            Avv. Alessandro Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it e-mail avvocato@studiotributariovillani.it