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LA GIUSTIZIA TRIBUTARIA OGGI E LE PROPOSTE DI RIFORMA STRUTTURALE

Il nuovo governo del Prof. Draghi ha giustamente inserito tra i punti qualificanti del programma la riforma fiscale che per non essere un minestrone riscaldato deve avere l’ambizione di ridisegnare tutto il sistema impositivo, tra cui la necessaria ed urgente riforma strutturale della giustizia tributaria. La giustizia tributaria, infatti, deve assolvere, in questo contesto, alla sua funzione di effettiva ed apparente terzietà nella verifica della legittimità degli atti tributari e di tutela dei contribuenti per cui i giudici tributari devono essere dotati di elevata qualificazione e professionalità. La giurisdizione tributaria è un tema cruciale per il nostro Paese perché permette di assicurare il corretto rapporto del flusso del denaro pubblico, così essenziale per la vita di tutto lo Stato. Infatti, nell’indagine conoscitiva della generale riforma fiscale, il lavoro congiunto delle Commissioni Finanze di Camera e Senato, nel programma in 13 punti, ha giustamente sentito l’esigenza di ricodificare il marasma normativo e di rimettere mano ad accertamento e contenzioso tributario. Incongruenze di una giurisdizione tributaria che da una parte gestisce liti da 40 miliardi di euro (dato 2019) e dall’altra è affidata a giudici sostanzialmente part-time, le cui sentenze di appello nel 45% dei casi sono annullate nel giudizio di legittimità. Ecco perché, giustamente, anche la riforma strutturale della giustizia tributaria rientra tra le riforme del Recovery Plan. Per deliberare e decidere, però, è necessario conoscere concretamente l’attuale situazione giuridica delle Commissioni tributarie, come cercherò di sintetizzare nel presente articolo.

A) LE COMMISSIONI TRIBUTARIE OGGI Attualmente, le Commissioni tributarie si trovano nella seguente situazione di diritto e di fatto. 1) Le Commissioni tributarie dipendono dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) che, peraltro, collabora con le Agenzie delle Entrate che notificano accertamenti fiscali e cartelle esattoriali. Le Agenzie fiscali (Agenzia delle Entrate, Agenzia del Demanio, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, l’Agenzia delle entrate-Riscossione) svolgono funzioni tecnico-operative al servizio del Ministero per fornire informazioni e assistenza ai contribuenti. Godono di piena autonomia sia in materia di bilancio che in materia di organizzazione della propria struttura. Il loro rapporto con il MEF è stabilito in apposite convenzioni che ne regolano le modalità d’intervento (servizi, obiettivi e risorse).

2) I giudici tributari non devono superare un concorso pubblico ma sono nominati per la prima volta con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, secondo l’ordine di particolari elenchi. In ogni altro caso, alla nomina dei componenti di Commissione tributaria si provvede soltanto con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze (art. 9, primo comma, D.Lgs. n. 545/1992).

3) I giudici tributari oggi sono n. 2943. Di questi, 1547 sono giudici ordinari togati e 1.396 sono laici (giudici onorari). I giudici ordinari togati (1.547,pari al 52,6%) sono composti da: • 1.339 giudici ordinari (civili e penali) (86,5%); • 20 giudici militari (1,3%); • 101 giudici amministrativi (6,5%); • 87 giudici contabili (5,7%). Invece, i giudici onorari (non togati) (1.396, pari al 47,40%) sono composti da: • 336 pensionati (24,01%); • 375 avvocati (26,90%); • 138 commercialisti (9,9%); • 190 pubblico impiego (13,6%); • 357 altre professioni (25,60%). Ora, senza voler essere polemico od offensivo, mi chiedo come, in una materia difficile, complessa e caotica come quella tributaria, possa decidere con competenza e professionalità, per esempio, un giudice militare o un pensionato o un impiegato pubblico!!. Oltretutto, oggi nelle Commissioni tributarie giudicano soltanto 138 Commercialisti (pari al 9,9% dei giudici onorari e pari al 4,70% di tutti i giudici tributari), pur essendo professionisti specializzati nel settore tributario. In sostanza, i giudici tributari svolgono la loro funzione giudiziaria part-time, potendo svolgere contemporaneamente altre attività lavorative e professionali. Il ruolo del giudice tributario a tempo perso (tempo libero) o a tempo parziale (secondo o terzo lavoro) si traduce in peso insostenibile per il sistema giudiziario o ingovernabile variante indipendente per il sistema economico.

4) I giudici tributari percepiscono i seguenti compensi: • fisso mensile euro 500 lorde; • 15 euro nette a sentenza depositata; • zero euro per le sospensive. L’entità dei compensi è stabilita periodicamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con proprio decreto (art. 13 D.Lgs. n. 545/1992). Le modalità di computo ed erogazione, in attuazione del primo decreto interministeriale del 19/12/1997, sono contenute nella circolare del MEF n. 80/E dell’11/03/1998, secondo la quale la liquidazione dei compensi deve avvenire di regola mensilmente. Di solito i compensi sono pagati con ritardo e, per la tassazione ordinaria e non separata, ultimamente la Corte di Cassazione, in assenza di una precisa indicazione normativa, ha stabilito che “il ritardo fisiologico” va individuato attraverso l’intervento surrogatorio che trova legittimazione nell’art. 1183 c.c. e 97 della Costituzione, cioè 120 giorni (Cassazione, Sesta Sezione Civile T, ordinanza n. 28116, depositata il 10/12/2020). In sostanza, i giudici tributari sono pagati a cottimo; più sentenze depositano più guadagnano i miseri compensi, indipendentemente dall’impegno e dal valore delle cause (e giustamente i giudici tributari si lamentano e protestano!).

5) Nel processo tributario, salvo rare eccezioni, non c’è una vera e propria fase istruttoria. Questa mancanza si avverte soprattutto in relazione alle presunzioni (sia semplici che legali) e ad alcuni fenomeni che non hanno in natura dei confini ben precisi (come, per esempio, l’antieconomicità, i fatti privi di sostanza economica, per l’abuso di diritto, e la categoria del valore normale). Infatti, difficilmente nel processo tributario viene nominato il consulente tecnico d’ufficio (CTU) e quasi mai i giudici tributari, ai fini istruttori e nei limi dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta dati, di informazioni e chiarimenti conferiti agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta (artt. 7, primo comma, D.Lgs. n. 546/1992 e 32 D.P.R. n. 600/1973). Così, per esempio, i giudici tributari, in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, quasi mai invitano “ogni altro soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, atti o documenti fiscalmente rilevanti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente e a fornire i chiarimenti relativi” (art. 32, primo comma, lettera 8-bis, citato). In definitiva, l’istruzione c.d. primaria avviene normalmente nell’ambito del procedimento amministrativo, senza la possibilità di ricorrere subito al giudice tributario, con grave lesione del diritto di difesa del contribuente.

6) Nell’attuale processo tributario, il giudice monocratico è previsto soltanto nel giudizio di ottemperanza per il pagamento di somme dell’importo fino ad euro 20.000 e, comunque, per il pagamento delle spese di giudizio (art. 70, comma 10-bis, D.Lgs. n. 546/92).

7) Molti giudici togati presenti nelle Commissioni Tributarie di merito (anche come Presidenti) fanno parte anche della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione. Inoltre, come precisato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, la giustizia tributaria oggi intasa la Corte di Cassazione perché: • il 44% delle pendenze civili complessive nel 2020 ricade nella materia tributaria, con 53.482 cause in attesa di essere definite; • il 45% delle sentenze tributarie viene annullato, soprattutto per la mancanza di professionalità dei giudici tributari. Infatti, lo stesso Presidente Curzio pensa ad una strutturale riforma della giustizia tributaria, con giudici a tempo pieno ed in via esclusiva.

8) Durante il periodo pandemico, la giustizia tributaria è entrata in tilt perché: • nel 2020 sono state depositate 86.000 sentenze in meno; • con l’art. 27 D.L. n. 137/2020 molte udienze si fanno con memorie scritte, con grave lesione del diritto di difesa, sino al 30 aprile 2021 (si rinvia all’ordinanza del 21 aprile 2020 n. 2539 del Consiglio di Stato e ordinanza n. 11 del 07 gennaio 2021 della CTP di Catania); • le videoudienze stentano a decollare in molte Commissioni tributarie, mentre i giudici in camera di consiglio possono usare la videoudienza con lo smartphone; • tutto ciò, giustamente, ha sollevato e continua a sollevare un sentimento diffuso tra gli addetti ai lavori (tra i quali avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro), che reputano la giustizia tributaria una sorta di “Cenerentola” tra le giurisdizioni.

9) Oggi, la mediazione tributaria per decongestionare il contenzioso tributario si fa presso l’Agenzia delle entrate, che ha notificato l’accertamento, mentre il giudice tributario rimane estraneo (art. 17-bis D.Lgs. n. 546/92).

10) Oggi, con il processo tributario telematico (PTT), poiché la piattaforma digitale è gestita da SOGEI (società totalmente partecipata dal MEF), mentre l’Agenzia delle entrate, partecipando a tutti i giudizi tributari, ha accesso a livello nazionale a tutti i fascicoli di causa, potendo utilizzare le sentenze favorevoli, il contribuente, invece, ha accesso soltanto al suo fascicolo. E’ evidente il vantaggio competitivo dell’Agenzia delle entrate, a livello processuale, nell’accesso alle informazioni a livello nazionale e non soltanto locale.

11) Infine, nell’attuale processo tributario, il contribuente ed il suo difensore non possono citare testimoni né deferire giuramento, decisorio o suppletorio (art. 7, quarto comma, D.Lgs. n. 546/96), con grave limitazione del diritto di difesa (art. 24 della Costituzione).

B) RIFORMA STRUTTURALE DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA Ormai, la necessaria ed urgente riforma della giustizia tributaria è un’esigenza sentita da tutti i contribuenti ed operatori, pubblici e privati, nonché dagli stessi giudici tributari. Infatti: • lo stesso Direttore dell’Agenzia delle entrate, Avv. Ernesto Ruffini, nel corso dell’audizione dello scorso 11 gennaio 2021 in Commissione finanze del Senato e della Camera, in materia di riforma dell’IRPEF ed altri aspetti del sistema tributario, ha auspicato una riforma della giustizia tributaria con professionalizzazione dei giudici tributari; • gli stessi giudici tributari, tramite il Presidente del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (CPGT), On. Avv. Antonio Leone, nonché la Presidente dell’Associazione Magistrati Tributari (AMT), Avv. Daniela Gobbi, hanno sollevato la questione dell’assoggettamento della giustizia tributaria al MEF invece che alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, come le altre giurisdizioni speciali (Il Sole 24 ore del 20/02/2021); • inoltre, la Presidente dell'AMT - Associazione Magistrati Tributari, Avv. Daniela Gobbi, in occasione dell'audizione bicamerale alla Commissione Finanze del 25 gennaio 2021, si è espressa in favore di una riforma del sistema giudiziario in ambito tributario, auspicando una maggiore autonomia del magistrato. In questo senso, sono da rivedere sia l'attuale istituto della mediazione tributaria sia la disciplina in materia di compenso del magistrato tributario; • tutti i professionisti del settore (compresa l’ANTI) auspicano da anni la riforma della giustizia tributaria con giudici professionali a tempo pieno; • la stessa Corte Costituzionale, con l’importante ordinanza n. 144 del 20-23 aprile 1998, in merito ad una mia eccezione sollevata a Lecce, aveva previsto che il legislatore ordinario conserva sempre il normale potere di sopprimere, ovvero di trasformare, di riordinare, i giudici speciali, conservati ai sensi della VI disposizione transitoria, purchè si rispetti il duplice limite di non snaturare le materie attribuite alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione (si rinvia anche all’ordinanza n. 227 del 20/10/2016 della Corte Costituzionale); • oltretutto, l’art. 10 della Legge delega n. 23 dell’11 marzo 2014, purtroppo rimasta inattuata, prevedeva norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante; • l’Istituto del Governo Societario (IGS) nel 2020 ha predisposto una legge delega per riformare la giustizia tributaria; • il Sen. Luciano D’Alfonso, Presidente della VI Commissione Permanente Finanze e Tesoro, nel corso di un webinar del 19 gennaio 2021 organizzato dall’Istituto per il Governo Societario (IGS), ha chiarito che la magistratura tributaria non passerà mai sotto l’egida della Corte dei Conti. Inoltre, la riforma della giustizia tributaria, sospesa per effetto della pandemia, sarà ripresa ed impostata nel 2021, tenendo conto di tutte le criticità indicate e, in particolare, di quelle relative alla professionalità dei giudici, alla formazione degli stessi ed alla modernizzazione tecnologica (in Italia Oggi di venerdì 29 gennaio 2021). Attualmente, in Parlamento sono in discussione i seguenti progetti di legge (n. 11) di quasi tutti gli schieramenti politici.

SENATO DELLA REPUBBLICA Disegni di Legge (assegnati alle Commissioni Seconda e Sesta)

N. 243 VITALI ED ALTRI;

N. 714 CALIENDO ED ALTRI;

N. 759 NANNICINI ED ALTRI;

N. 1243 ROMEO ED ALTRI;

N. 1661 FENU ED ALTRI;

N. 1687 MARINO.

CAMERA DEI DEPUTATI Proposte di Legge (assegnate alla Commissione Seconda - Giustizia)

N. 1521 MARTINCIGLIO;

N. 1526 CENTEMERO ED ALTRI;

N. 840 SAVINO;

N. 2283 COLLETTI – VISCOMI;

N. 2526 DEL BASSO – DE CARO.

In sintesi, gli undici progetti di legge sopra citati si possono distinguere in progetti che prevedono:

  • la modifica con legge ordinaria della struttura della giustizia tributaria, abrogando il D.Lgs, n. 545/1992;
  • una Legge Delega (come la citata Legge delega n. 23/2014);
  • le modifiche con Legge ordinaria sia della struttura giudiziaria sia del processo tributario, abrogando il D.Lgs. n 545/1992 e modificando il D.Lgs. n. 546/1992.

C) PROPOSTE DI RIFORMA IMPROCRASTINABILE Lo stesso Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, nella seduta del 22 ottobre 2019, ha sollecitato la riforma della giustizia tributaria in base ai seguenti principi:

  1. la trasformazione del giudice speciale tributario in un giudice a tempo pieno, professionalmente competente, con un trattamento economico congruo e dignitoso, non più dipendente dal MEF e pienamente presidiato dai principi di imparzialità, terzietà ed indipendenza, come contemplati dall’art. 111, comma 2, della Costituzione;

  2. il completamento della revisione delle regole di diritto procedurale e sostanziale, mediante un provvedimento legislativo volto anche ad una generale definizione delle liti fiscali pendenti (c.d. pace fiscale).

Secondo me, le principali direttrici di fondo da seguire per la riforma della giustizia tributaria sono le seguenti, tenendo conto che la giustizia tributaria deve essere prevista anche in Costituzione.

A) Presidenza del Consiglio dei Ministri L’organizzazione e la gestione dei giudici tributari deve essere affidata esclusivamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per assicurare, anche all’apparenza, la terzietà e l’imparzialità dell’organo giudicante, ai sensi dell’art. 111, secondo comma, della Costituzione. La giustizia tributaria non può più dipendere dal MEF, che è una delle parti in causa. Inoltre, non è opportuno che sia inserita nella magistratura ordinaria, per non creare ulteriori problemi organizzativi e gestionali, né che sia gestita dalla Corte dei Conti, che determinerebbe l’impossibilità di ricorrere per Cassazione, salvo problemi di giurisdizione, nonché la drastica riduzione dei difensori (che, invece, devono rimanere come oggi). In definitiva, la riforma “autonomista” persegue, giustamente, la realizzazione di una “Quinta Magistratura”, da affiancare alle altre quattro già operanti ed espressamente considerate dal sistema costituzionale: Ordinaria, Amministrativa, Contabile e Militare (come, per esempio, in Germania).

B) Nuova denominazione La giurisdizione tributaria deve essere esercitata, in forma autonoma ed indipendente sull’intero territorio nazionale, dai seguenti organi:

  • TRIBUNALI TRIBUTARI;
  • CORTI DI APPELLO TRIBUTARIE;
  • SEZIONE TRIBUTARIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE. I Tribunali tributari hanno la competenza territoriale delle circoscrizioni dei Tribunali ordinari e possono essere articolati in Sezioni. Le Corti di appello tributarie hanno la competenza territoriale dei distretti delle attuali Corti di appello ordinarie e possono essere articolate in Sezioni distaccate in base a specifiche esigenze territoriali. Tutti gli attuali difensori continueranno a difendere, senza alcuna esclusione.

C) Magistratura Tributaria Autonoma Deve essere istituito il ruolo autonomo della magistratura tributaria, distinto da quello delle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile e militare, sia per quanto riguarda il trattamento economico, che deve essere congruo e dignitoso, sia per quanto riguarda lo sviluppo di carriera. L’organico nazionale dei giudici tributari deve essere di 800/1.000 unità (rispetto ai 2.943 giudici tributari di oggi). I giudici tributari togati devono essere selezionati mediante concorso pubblico, ai sensi dell’art. 106, primo comma, della Costituzione (salvo i giudici onorari). I giudici tributari devono:

  • non aver superato cinquant’anni di età alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso pubblico;
  • cessare dall’incarico, in ogni caso, al compimento del settantesimo anno di età. I giudici tributari, sempre a tempo pieno, devono frequentare corsi di formazione ed aggiornamento. Inoltre, deve essere specificamente regolamentato il procedimento disciplinare e devono essere tassativamente previste le sanzioni disciplinari. Infine, ai giudici tributari si applicano le disposizioni concernenti il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. In definitiva, la figura del nuovo giudice tributario deve integrare quel modello di giudice indipendente, terzo ed imparziale, a tempo pieno, previsto dagli artt. 106, 108 e 111 della Costituzione.

D) Giudici Onorari Tributari (GOT) - Monocratici I giudici onorari tributari non devono fare un concorso pubblico e sono nominati soltanto con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, in conformità alle deliberazioni del Consiglio della Giustizia Tributaria (organo di autogoverno). Ai giudici onorari tributari è corrisposta l’indennità di cui all’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 116 del 13 luglio 2017 e si devono cancellare dagli Albi professionali. I giudici onorari tributari sono competenti soltanto presso i Tribunali Tributari per le sole controversie il cui valore, determinato ai sensi dell’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, non superi 3.000 euro e decidono sempre in composizione monocratica. L’appello avverso le sentenze del giudice onorario tributario si propone alla Corte di Appello Tributaria in composizione monocratica, con giudice togato.

E) Giudice Togato Tributario (GTT) - Monocratico Il Tribunale tributario e la Corte di appello tributaria, con giudici vincitori di concorso pubblico, giudicano in composizione monocratica nelle seguenti tassative controversie: 1) di valore non superiore a 50.000 euro, secondo le disposizioni di cui agli artt. 12, comma 2, secondo periodo, e 17-bis, D.Lgs. n. 546/92; 2) relative alle questioni catastali di cui all’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 546/92; 3) relative ai giudizi di ottemperanza, senza alcun limite di importo; 4) negli altri casi che saranno tassativamente previsti dalla legge. Inoltre, la procedura di reclamo e mediazione di cui all’art. 17-bis, D.Lgs. n. 546/92 si deve svolgere presso il competente giudice tributario monocratico o collegiale e non più presso le Agenzie delle entrate, per cui devono essere modificati i commi 4 e 5 dell’art. 17-bis citato.

F) Giudice Togato Tributario (GTT) - Collegiale Al di fuori dei casi di cui alla lettera E), i Tribunali tributari e le Corti di appello tributarie decideranno sempre in composizione collegiale, con tre giudici vincitori di concorso pubblico.

G) Sezione tributaria della Corte di Cassazione Salva la competenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione alle sole questioni di giurisdizione, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione giudica le impugnazioni delle sentenze delle Corti di Appello Tributarie. La suddetta Sezione è composta da trentacinque giudici, non facenti parte dei Tribunali tributari e delle Corti di appello tributarie, ripartiti in cinque sottosezioni, in ragione delle seguenti materie:

  • IMPOSTE SUI REDDITI;
  • IVA;
  • ALTRI TRIBUTI;
  • RISCOSSIONE;
  • RIMBORSI. I Collegi sono composti dal numero fisso di tre membri. I giudizi si svolgono esclusivamente con rito camerale.

H) Consiglio della Giustizia tributaria È istituito a Roma l’organo di autogoverno denominato “CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA”, con propria autonomia contabile ed amministrativa.

I) Disposizioni finali e transitorie Il legislatore, con proprie scelte politiche, dovrà emanare le specifiche disposizioni finali e transitorie, con eventuali riassorbimenti, tenendo conto dell’anzianità di servizio e senza alcuna forma di ghettizzazione. In conclusione, sono convinto che le direttrici di fondo, genericamente sopra esposte, di totale sostituzione degli attuali giudici tributari con i giudici professionali, consentono di raggiungere gli obiettivi di autonomia, indipendenza e professionalità previsti dagli arttt. 106, 108 e 111 della Costituzione. I tempi sono maturi per la radicale ed urgente riforma strutturale della giustizia tributaria, proprio in vista del Recovery Plan. Un passaggio necessario a vantaggio dei diritti dei contribuenti.

Lecce, 03 marzo 2021

Avv. Maurizio Villani

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


L’Ufficio viola il principio costituzionale della capacità contributiva se non considera anche solo induttivamente i costi relativi ai maggiori ricavi accertati (Cassazione, ordinanza n.2581 del 4 febbraio 2021)

  1. Il principio di diritto ~ 2. Il caso ~ 3. La motivazione della sentenza ~ 4. I recenti orientamenti conformi della giurisprudenza di legittimità ~ 5. Conclusioni.

1.Il principio di diritto La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2581 del 4 febbraio 2021 si è pronunciata in tema di costi deducibili statuendo che, anche in caso di omessa dichiarazione, l’Ufficio deve determinare la base imponibile considerando i costi, anche solo induttivamente, relativi ai maggiori costi accertati.

  1. Il caso L’Agenzia delle Entrate notificava ad una società estera diversi avvisi di accertamento contestando che l’ente avesse operato in Italia mediante una stabile organizzazione occulta, senza presentare alcuna dichiarazione dei redditi; conseguentemente i redditi venivano riconosciuti induttivamente sui quali erano pretese imposte, interessi e sanzioni. La società de qua impugnava l’avviso di accertamento in contestazione dinanzi al giudice tributario e, tra i diversi motivi di doglianza, lamentava che la ricostruzione induttiva operata dall’Ufficio non considerava le spese, essendo stata equiparata la fatturazione complessiva al reddito imponibile. Il ricorso della società contribuente veniva respinto sia dai giudici di prime che di seconde cure. A seguito del rigetto dei ricorsi da parte dei giudici di merito, la società così proponeva ricorso per Cassazione, eccependo la violazione della norma sulla determinazione dell’imponibile- atteso che era stato ricostruito induttivamente il reddito senza tener conto delle spese- con la conseguente violazione del principio costituzionalmente garantito della capacità contributiva. 3.La motivazione della sentenza I giudici di legittimità, in accoglimento del motivo di doglianza esaminato nel presente contributo, hanno, in via preliminare, rilevato che in conformità del dictum della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione si era già pronunciata così statuendo: “[…]in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l'Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 38 (accertamento sintetico) o nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39 (accertamento induttivo), bensì nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 41 (cd. accertamento d'ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 75 (ora articolo 109), in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorchè infedele, sia comunque sussistente (cfr. Cass. V, n. 1506/2017, ma già anche Cass. V, n. 3995/09)”. Tanto premesso, a parere del Collegio di legittimità, in riferimento all'accertamento globalmente induttivo del reddito d'impresa, vale sempre la regola che il Fisco deve ricostruire il reddito, tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinandole induttivamente e/o presuntivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva, venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anzichè quello netto (Cass. VI-5, n. 26748/2018; Cass. V, n. 23314/2013; Cass. V, n. 13119/ 2020; conf. Circ. AdE, n. 9/E/2015, par.2). A tal proposito, la Suprema Corte ha sottolineato che tale assunto “[…] ben si raccorda con le stesse indicazioni di prassi del fisco, secondo cui, in queste fattispecie, "l'ufficio non può non tener conto, (...), di un'incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei (...) ricavi accertati (...)" e "il riconoscimento di costi deve essere livellato - anche in misura percentualistica - in ragione dei... ricavi accertati..." (Circ. AdE, n. 32/E/2006)”. Inoltre, la Corte di Cassazione ha evidenziato che il citato principio trova ulteriore conforto anche sul piano delle fonti internazionali, con l'articolo 7 (§3) del Modello OCSE e con l'articolo 7 (§3) della Convenzione Italia-Egitto, laddove si precisa che nella determinazione del reddito della stabile organizzazione vanno considerati anche gli oneri per gli scopi perseguiti (es. direzione, spese generali), e con il Comm. OCSE, sub articolo 7 (§ 15), laddove si effettuano talune esemplificazioni estimative.
  2. I recenti orientamenti conformi della giurisprudenza di legittimità Al fine di una maggior chiarezza espositiva, appare opportuno dare contezza degli altri recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, che in linea con il principio espresso dall’ordinanza in commento (Cass, n.2581/2021), hanno chiarito che i costi relativi ai maggiori ricavi accertati devono essere riconosciuti anche solo induttivamente in percentuale forfettaria. A questo punto, giova premettere che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’articolo 109, comma 4, Tuir stabilisce che le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza. Tuttavia, laddove, in ipotesi di accertamento “induttivo” di maggiori ricavi non contabilizzati, non venissero riconosciuti i costi correlati, tale disposizione confliggerebbe con il principio della capacità contributiva di cui all’articolo 53 Cost. In riferimento a ciò, recentemente la Suprema Corte, con la sentenza n. 19191/2019 ha ribadito un suo consolidato principio, secondo cui “[…] nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l'Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell'articolo 38, (accertamento sintetico) o nell'articolo 39, (accertamento induttivo), bensì nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 41, (cd. accertamento d'ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 75, (ora 109), in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorchè infedele, sia comunque sussistente (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1506). Lo stesso principio di valorizzazione dei costi si applica anche alle ipotesi di accertamento induttivo "puro", ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 2, quando trovano applicazione le presunzioni prive dei requisiti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, articolo 39, comma 1, lettera d, (in termini Corte Cost., 8 giugno 2005, n. 225; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26748, proprio tenendo conto del principio della capacità contributiva di cui all'articolo 53 Cost.; Cass., 19 febbraio 2009, n. 3995)”. In predetta sentenza (Cass.n.19191/2019), i giudici di legittimità hanno sottolineato che ai fini della rideterminazione induttiva del maggior reddito devono essere considerati i componenti negativi collegati allo svolgimento dell'attività, perchè altrimenti si assoggetterebbe ad imposta il profitto lordo, anzichè quello netto, in violazione dell'articolo 53 Cost. (v. in tal senso anche Cass.n.26748/2018) Non osta a ciò l’art. 109 TUIR in base al quale i costi sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico. La citata disposizione normativa, però, secondo la Corte di Cassazione “[…] non è applicabile in caso di rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un'incidenza percentuale dei costi (Cass., 28740/2017; Cass., 1166/2012; Cass., 3995/2009; Cass., 28028/2008; Cass., 640/2001; Cass. 3317/1996; Cass., 3567/2017; in tal senso si veda anche circolare Agenzia delle entrate 32/E/2006)”. Si ribadisce, pertanto, il principio per cui, nel caso di verifiche diverse da quelle analitiche, e ai fini della ricostruzione del reddito, i costi non registrati devono essere riconosciuti anche nel caso in cui non siano stati annotati nelle scritture contabili ed anche quando sia stata omessa la dichiarazione dei redditi. Va, dunque, applicata l'imposta sull'utile netto, ossia portando in deduzione i costi non registrati, sia pure forfettariamente stabiliti. In breve, i giudici di legittimità hanno concluso che dei costi si deve tenere conto anche quando il reddito viene accertato con il metodo induttivo "puro" o, comunque, in conseguenza della mancata presentazione delle dichiarazioni dei redditi, in entrambi i casi utilizzandosi le presunzioni supersemplici. Tale principio ermeneutico è stato ribadito successivamente dalla Suprema Corte, con l’ordinanza n.28322 del 5 novembre 2019, secondo cui“[…] l'Amministrazione finanziarla deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo "puro" Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ex articolo 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (...) è il contribuente ad avere l'onere di provare l'esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l'Ufficio possa, e debba, procedere al loro riconoscimento forfettario" ( vedi in tal senso anche Cass. n. 22868 del 2017; v Cass. n. 9888 del 2017; Cass. n. 34209 del 201, Cass. n. 230 del 2020). Tale consolidato orientamento è stato da ultimo evidenziato dalla Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13119 del 30.06.2020, secondo cui: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente”. Tanto chiarito, si evidenzia altresì che il Collegio di legittimità, nella recente sentenza n.23093/2020 in conformità ai propri precedenti (Cass. n.25317/2014), ha ritenuto che “[…] in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in particolare in sede di accertamento induttivo, l’Amministrazione finanziaria, debba procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente”. Al riguardo, inoltre, il Supremo Consesso ha sottolineato che deve escludersi l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, atteso che le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili ( v. in tal senso anche Cassazione n. 31024/2017). In altri termini, a parere dei giudici di legittimità, “qualora l’Amministrazione proceda con l’accertamento induttivo delle imposte sui redditi, la stessa è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purché emergenti dagli accertamenti o dimostrate dal contribuente, su cui grava l’onere della prova dei costi deducibili dall’ammontare dei ricavi induttivamente determinati (Cassazione n. 22266/2016)”. In ultimo, per maggior chiarezza del complessivo quadro giurisprudenziale fin qui delineato, si segnala la recentissima ordinanza della Suprema Corte, la n.20220/2020, che in tema di movimentazioni bancarie, ha così chiarito: “[…]l’amministrazione è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purchè esse "siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente (Cass., sez. V, n. 8811/16; cfr. Cass. un. 6332/16, 1314/15, 25317/11, 20679/11, 5192/11, 3995/09)". Difatti, tale assunto […]ritrae fondamento dalle regole probatorie che governano la materia, in guisa delle quali se compete all'ufficio provare in base ad un quadro di presunzioni gravi, precisi e concordanti l'esistenza in capo al contribuente di attività non dichiarate ovvero l'inesistenza di passività dichiarate che alterano il risultato reddituale e generano un debito tributario, è per contro onere della parte che voglia confutare fruttuosamente gli esiti di verifica - come assai chiaramente evidenzia la stessa disciplina delle movimentazioni bancarie”. 5.Conclusioni Alla luce del principio di diritto enucleato nella recente ordinanza esaminata (Cass.n.2581/2021) e dei recenti arresti giurisprudenziali in materia di deducibilità di costi presunti, si conclude che la giurisprudenza di legittimità è oramai pacifica nel ritenere che l’accertamento “induttivo” dei maggiori ricavi non contabilizzati presuppone l’esistenza necessaria di costi deducibili da determinarsi anche induttivamente. Dunque, in merito al recupero a tassazione dei maggiori ricavi non dichiarati dal contribuente, la giurisprudenza di legittimità è oramai pacifica nel riconoscere i costi correlati a tali ricavi, con la conseguente deduzione degli stessi in ragione del principio della capacità contributiva. Invece, in ipotesi di accertamento analitico o analitico-induttivo, si afferma in maniera altrettanto costante che è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario, dovendosi riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex articolo 39, comma 2, D.P.R. 600/1973. Alla luce di tali principi di diritto, devono essere riconosciuti i maggiori costi inerenti ai maggiori ricavi accertati, poiché altrimenti si assoggetterebbe a imposta il profitto lordo, anziché quello netto, in violazione del principio della capacità contributiva contemplato dall’art. 53 Cost. In definitiva, quindi, devono essere dedotti i costi correlati ai maggiori ricavi, con la differenza che, in ipotesi di accertamento “induttivo”, questi devono essere riconosciuti de plano in misura forfettaria, mentre, in caso di accertamento analitico o analitico-induttivo, il contribuente deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità degli stessi.

Lecce, 16 febbraio 2021 Avv. Maurizio Villani Avv. Lucia Morciano


CTR CAMPANIA n.6460/2020: non è precluso al contribuente il ricorso alle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà al fine di dimostrare l’inesistenza della pretesa erariale basata su presunzioni legali

1.Premessa  2. Il caso  3. La motivazione della sentenza  4. Conclusioni

1.Premessa Il presente contributo esamina la sentenza della CTR Campania, la n.6460/2020, depositata il 16.12.2020, che nella vicenda in esame- nell’aderire al dictum della Corte di Cassazione che aveva cassato con rinvio- ha ritenuto che, ai fini della dimostrazione dell’inesistenza della pretesa fiscale basata sulle presunzioni legali, non è precluso al contribuente l’utilizzo delle dichiarazioni rese da terzi al di fuori del giudizio e, pertanto, ha sottolineato che anche le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi il convincimento del giudice.

  1. Il caso Il caso che ci occupa trae origine dal ricorso proposto dal contribuente R., difeso dall’Avv. Maurizio Villani, nel quale ha eccepito la nullità dell’avviso di accertamento per mancata allegazione del provvedimento autorizzativo delle indagini bancarie, in violazione dell’art. 32 D.P.R. n.600/1973. Nel merito, il contribuente ha dedotto di aver ricevuto, a seguito del decesso del padre, la somma in contanti di euro 650.000, che aveva versato sui propri conti correnti bancari nel corso del 2004 e del 2005; a conforto di tanto, il ricorrente ha prodotto in giudizio le dichiarazioni sostitutive di atti notori. L’Ufficio ha resistito con le controdeduzioni, concludendo per il rigetto degli avversi ricorsi. La CTR di Benevento ha accolto i ricorsi del contribuente rilevando che gli atti notori prodotti dal contribuente potevano essere valutati dal giudice tributario come elementi indiziari e, atteso che dagli stessi emergeva che le disponibilità economiche provenivano dal padre del contribuente e giustificavano le movimentazioni bancarie contestate, gli avvisi di accertamento impugnati dovevano essere annullati. L’Agenzia delle Entrate-Direzione Prov.le di Benevento, avverso la sentenza dei giudici di prime cure, ha proposto appello eccependo l’inidoneità degli atti notori a vincere la presunzione legale ex art. 32 D.P.R.n.600/1973, in ragione del divieto della prova testimoniale nel processo tributario che, a parere dell’Amministrazione finanziaria, così verrebbe introdotta nel giudizio attraverso gli atti notori. I giudici del gravame hanno accolto l’appello dell’Ufficio, ritenendo che le dichiarazioni rese da parenti o da altri soggetti, che avevano riportato delle notizie apprese in punto di morte dal padre del contribuente, non costituiscono prova idonea a giustificare le ingenti somme di contante transistate dal de cuius al figlio contribuente. A seguito di tale pronuncia di secondo grado, il contribuente proponeva ricorso per Cassazione adducendo tre motivi di doglianza. Più nel dettaglio, con il secondo motivo di censura, oggetto di particolare esame nel presente contributo, il contribuente ha eccepito l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da terzi, rivestendo anch’esse elementi indiziari, ritenendo che i giudici di seconde cure non abbiano dato adeguata motivazione del rigetto di predetti elementi indiziari invocati dal contribuente. La Corte di Cassazione ha accolto predetta censura del contribuente, cassando con rinvio e adducendo la seguente motivazione: “… nel caso che ci occupa, la Commissione regionale, dopo aver richiamato le statuizioni della Corte Costituzionale n.18 del 2000, ha affermato, in assenza di adeguata motivazione, che le dichiarazioni sostitutive rese dai parenti e da un terzo, prodotte dal contribuente al fine di dimostrare che parte delle somme oggetto di contestazione erano riconducibili ad elargizioni di cui il padre aveva voluto beneficiarlo, sebbene ammissibili,non potessero assurgere a prova idonea a giustificare le ingenti somme di moneta contante transitate dal de cuius R.O. al figlio R.M. Trattasi di affermazione assertiva che non consente di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dal giudice di merito che lo ha indotto a escludere che le dichiarazioni sostitutive di terzi potessero avere anche solo valenza indiziaria idonea a superare le presunzioni offerte dall’Amministrazione e che evidenzia una sostanziale inadeguata violazione delle risultanze probatorie …”. A seguito di tale pronuncia, il contribuente ha riassunto il giudizio d’appello, riproponendo le questioni sollevate in primo grado, chiedendo l’annullamento della pretesa fiscale in quanto gli atti notori provavano che le sue disponibilità economiche provenivano dal padre, giustificando le movimentazioni bancarie contestate dall’Ufficio e, pertanto, gli avvisi di accertamento de quibus dovevano essere annullati. L’Agenzia delle Entrate si è costituita ribadendo la legittimità dell’accertamento, compiuto in conformità alle disposizioni di cui all’art. 32 D.P.R. n.600/1973 e dell’art.51 D.P.R. n.633/1972. Il contribuente ha dedotto nelle memorie di replica che i giudici della Commissione Tributaria Regionale sono stati chiamati a riesaminare l’intera vicenda processuale, alla luce dell’ammissibilità e rilevanza delle dichiarazioni dei terzi nel processo tributario, secondo quanto espressamente statuito dall’ordinanza della Corte di Cassazione n.13174 del 16 maggio 2019. Nella citata pronuncia (Cass.n.13174/2019), il Supremo Consesso ha sottolineato che, nel pieno rispetto della "parità delle armi" tra Fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l'introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale (Corte Cost. 18 del 2000; Cass. n. 20028 del 30/9/2011), sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto (Cass. 21812 del 5/12/2012; Cass. n. 960 del 21/1/2015). La Suprema Corte, in predetta pronuncia, inoltre, ha messo in rilievo che “l'attribuzione di valenza indiziaria delle dichiarazioni dei terzi anche in favore del contribuente non contrasta, d'altro canto, con l'articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla L. 4 agosto 1955, n. 848, atteso che la Corte Europea dei diritti dell'uomo, a tal proposito, ha chiarito che “l'assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile" (Corte EDU 23 novembre 2006, ricorso n. 73053/0143, Jussilla contro Finlandia, e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia)”. Tanto chiarito, il contribuente nelle sue memorie di replica ha sottolineato, altresì, che il principio di ammissibilità e rilevanza delle dichiarazioni dei terzi in favore del contribuente era stato nuovamente riaffermato dal Collegio di legittimità con l’ordinanza n.24531 del 2 ottobre 2019, che ha così ribadito: “al fine di evitare che l'ammissibilità di tali dichiarazioni possa pregiudicare la difesa del contribuente ed il principio di uguaglianza delle parti, è necessario riconoscere che, al pari dell'Amministrazione finanziaria, anche il contribuente possa introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni e tali dichiarazioni devono assurgere a rango di indizi, che necessitano di essere valutati congiuntamente ad altri elementi.” In ultimo, il contribuente, nei suoi scritti difensivi ha fatto riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione, la n.9903 del 27.05.2020, in cui giudici di legittimità, in un caso analogo a quello di specie, relativo a un accertamento bancario ex art. 32 D.P.R.n.600/1973, hanno ritenuto che al contribuente può essere data la possibilità di provare la dazione in contanti, anche di ingenti somme, di un atto di liberalità, mediante una dichiarazione giurata, la quale ha una valenza indiziaria e deve essere presa in considerazione dai giudici di merito insieme all’ulteriore documentazione prodotta dalla parte in giudizio.

  2. La motivazione della sentenza I giudici di seconde cure hanno ritenuto che l’appello dell’Agenzia dell’Entrate non merita accoglimento. Tale assunto si basa sul dictum espresso nella pronuncia di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione e, alla luce di tanto, la Commissione Tributaria Regionale ha rilevato che, “[…] ai fini della dimostrazione della inesistenza della pretesa fiscale basata sulle presunzioni legali, non è precluso al contribuente il ricorso alle dichiarazioni rese dai terzi al di fuori del giudizio,e quindi, anche dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà, le quali hanno un valore probatorio proprio degli elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente a altri elementi, il convincimento del giudice”. Ebbene, i giudici di secondo grado, venendo al caso di specie, hanno statuito che il versamento sui conti correnti intestati al contribuente è indicativo della volontà di quest’ultimo di rendere le liquidità “visibili” e suscettibili di accertamento da parte degli organi finanziari riguardo alla lecita provenienza e al regime fiscale. Inoltre, giova metter in evidenza che la CTR Campania ha evidenziato che non sono emersi dagli avvisi di accertamento impugnati elementi in grado di smentire la tesi sostenuta dal contribuente basata sulla provenienza familiare del denaro contante , versato in più tranche sui conti correnti a lui intestati e idonei a dimostrarne l’incongruità rispetto alla capacità patrimoniale e reddituale del dante causa, oltre che una diversa destinazione rispetto a quella palesata con i versamenti, ossia a integrazione del capitale sociale della società “R. s.p.a”. In definitiva, i giudici di seconde cure hanno concluso che da un esame complessivo, le risultanze acquisite non consentono di ritenere le giustificazioni fornite dal contribuente inattendibili e inidonee a superare le presunzioni legali su cui si fonda l’azione accertatrice dell’Ufficio.

4.Conclusioni La CTR Campania, in ottemperanza al principio espresso dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 13174/2019, ha ribadito nella vicenda de qua l’importanza delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà del contribuente, le quali hanno un valore probatorio proprio degli elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente a altri elementi, il convincimento del giudice.

Lecce, 19/01/2021

Avv. Maurizio Villani Avv. Lucia Morciano


RISTRETTA BASE AZIONARIA E PRESUNZIONE DI DISTRIBUZIONE DEGLI UTILI OCCULTI (Corte di Cassazione, Sentenza 23 dicembre 2019 n. 34282)

Nelle ipotesi di società a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. Tale principio è stato, altresì, completato precisando che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente anche fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria.

  1. Considerazioni introduttive. Viene definita società a ristretta base azionaria la società di capitali composta da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità. Orbene, negli anni, la progressiva generalizzazione e diffusione del suddetto schema societario ha visto gli uffici finanziari approdare a una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e le società di capitali a ristretta base partecipativa ritenendo, anche per queste ultime, legittimo assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società, direttamente in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti. In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che la cerchia sociale sia estremamente ristretta (pochi soci, in molti casi familiari o affini) fa presumere che il maggior reddito sia stato anche “ripartito” tra le persone fisiche. Tanto, ha trovato conforto anche in un consolidato orientamento della Corte di Cassazione che, ritiene legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati in capo ad una società di capitali a ristretta base sociale. Nello specifico, la Cassazione ha confermato tale impostazione precisando che il presupposto in base al quale sia legittimo presumere che vengano distribuiti ai soci gli utili “in nero” accertati alla società di capitali a ristretta base azionaria, sia ravvisabile proprio nell’esiguità del numero dei compartecipi, nel vincolo di solidarietà tra loro, nella possibilità che ciascuno ha di conoscere gli affari societari, nel reciproco controllo. La ridotta compagine sociale, quindi, rappresenta a tutti gli effetti la chiave di volta che consente all’Amministrazione Finanziaria di presumere la distribuzione di utili in capo ai soci, di recuperare le imposte da questi non versate (unitamente a sanzioni e interessi) e di ribaltare su di loro l’onere di dimostrare in giudizio il contrario. Ne consegue, che viene semplicisticamente delegato al contribuente il compito di produrre una prova complessa tesa a dimostrare, a contrario, di non aver percepito alcun utile “in nero”. Ebbene, è evidente che seppur avallato dalla giurisprudenza di legittimità, tale meccanismo operativo risulti, oltre che privo di qualsiasi ancoraggio normativo, anche totalmente censurabile sotto il profilo della razionalità e del coordinamento con i principi generali del diritto sostanziale tributario; e tanto, anche alla luce del fatto che la ristretta base azionaria, assunta come fatto noto per presumere l'esistenza di un vincolo di complicità che avvince i partecipanti al sodalizio, non può far ulteriormente presumere, con sufficiente probabilità, che quegli utili siano stati effettivamente distribuiti ai soci, che la distribuzione sia avvenuta nello stesso periodo d'imposta in cui li avrebbe prodotti la società e nella stessa proporzione della quota di partecipazione al capitale sociale. Ci sono però due aspetti che possono mitigare queste considerazioni: da un lato, la dottrina ha preso posizione contro l’applicazione di questo automatismo ai casi in cui gli accertamenti non si concretizzano in una maggiore disponibilità, anche finanziaria, sulla società; dall’altro, le ultime pronunce di merito e legittimità hanno escluso, in particolari condizioni, la possibilità di accertare un dividendo in capo ai soci. Invero, parallelamente all’orientamento giurisprudenziale appena descritto, se n’è sviluppato un altro che ha inteso smussare la suddetta probatio diabolica ammettendo che la stessa presunzione possa essere vinta:

    • qualora l’amministrazione non sia in grado di fornire la c.d “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili;
    • e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria.
  2. Orientamenti giurisprudenziali: Corte di Cassazione, ordinanza n. 18042/2018 e sentenza n. 34282/2019. Tanto premesso, al fine di meglio analizzare la questione oggetto del presente contributo, preme chiarire che in tema di presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili accertati in capo ad una società a ristretta compagine sociale, un orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione ne riconosce la legittimità sulla base del fatto noto costituito dalla complicità, dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizza la gestione sociale nell’ambito delle anzidette società. In tal senso, tra tutte si cita la recente pronuncia della Suprema Corte, ordinanza n. 25501/2020, con cui è stato ulteriormente esteso l’utilizzo della presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, e si è giunti ad ammetterla, oltre che in seguito al recupero di costi inesistenti, anche in quello – ben diverso – dei costi ritenuti indeducibili. Tuttavia, preme rilevare che sempre la giurisprudenza di legittimità ha però ammesso, in altre circostanze, che la stessa presunzione può essere superata qualora l’amministrazione non fornisca la c.d “prova rafforzata” della ristretta base sociale e dell’effettiva distribuzione degli utili, e/o laddove il contribuente dimostri la sua estraneità alla gestione e conduzione societaria (cfr., ex pluribus Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 23.12.2019, n. 34282; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenze 29.10.2019, n. 27639, 27638 e 27637; Corte di Cassazione, VI sez. civile, ordinanza 16.10.2019, n. 26112 e Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 17.7.2019, n. 19171; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 20.6.2019, n. 16545; Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza 19.4.2019, n. 11045 e Corte di Cassazione, sez. trib., ordinanza 14.12.2018, n. 324). Pertanto, se è pur vero che in più occasioni la Cassazione ha stabilito che la ristretta base partecipativa di una società di capitali determina quei requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, d’altro canto si stanno registrando nuovi approdi giurisprudenziali tesi a rilevare che la dimostrazione della ristrettezza della base societaria è condizione sì necessaria, ma non sufficiente per l'accertamento dei maggiori redditi di capitale a carico dei soci. In sostanza, per legittimare l’accertamento, l’Ufficio dovrebbe attivarsi per ricercare ulteriori «fatti-indice» presuntivi. In altri termini, per realizzare i caratteri di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici, deve essere onere dell’Ufficio corroborare il requisito della ristretta base partecipativa con altri elementi al fine di ritenere che la presunzione semplice si sia formata e venga trasferito l’onere probatorio al contribuente. Ad esempio, l’Ufficio dovrebbe provare movimentazioni sospette sui conti correnti oppure operazioni finanziarie o acquisti immobiliari “equivoci”. Nel dettaglio, si rileva come con l’ordinanza n. 923 del 20 gennaio 2016, la Corte di Cassazione abbia ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso nei confronti di un contribuente, fondato solo ed esclusivamente sulla presunzione della ristretta base azionaria, laddove, non solo non è stata dimostrata l’effettiva distribuzione di utili ma, altresì, laddove, il contribuente ha messo a disposizione i propri flussi di reddito transitati in conto corrente dai quali non è dato evincersi alcuna rilevanza o incremento che possa ricondurre alla percezione e distribuzione di extra utili societari.
    Sul punto, la Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha inteso precisare che, se il contribuente introduce una prova contraria, attraverso l’integrazione di fonti di prova “sufficientemente valide”, le quali sconfessino la ripartizione degli utili presunta dall’Ufficio, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di rispondere, introducendo elementi positivi di dimostrazione dell’avvenuta distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla presunzione). Ne discende che, la mancata prova diretta, da parte dell'Ufficio, dell'effettiva percezione da parte dei soci del maggior reddito accertato alla società si tradurrebbe in un'inammissibile praesumptio de praesumpto inficiante gli esiti dell'accertamento. È a questo punto palese, che la caratterizzazione a ristretta base azionaria di una società di capitali non legittima una diretta imputazione pro quota al socio dei redditi societari occultati, se non quando vi siano elementi di prova, idonei a dimostrare che i maggiori utili della società siano stati effettivamente ripartiti tra i soci; inoltre, per l'automatico collegamento tra il reddito societario e quello del socio, deve esserne provata l'effettiva percezione: se tale prova non viene fornita, l'accertamento nei confronti del socio è illegittimo. Né la predetta presunzione di percezione, può essere fornita con una prova negativa di "non percezione", che costituirebbe una "probatio diabolica"; mentre la prova positiva di distribuzione degli utili prodotti e non risultanti in bilancio, supportata da presunzione indiziaria, deve essere fornita dall'Amministrazione finanziaria con collaterale attività di riscontro o di incrocio. In senso conforme, si è espressa recentemente la Suprema Corte in tema di presunzioni, con l’ordinanza n.1278 del 18/01/2019, proclamando: “In tema di prove, è inammissibile la c.d. praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto per derivarne da essa un’altra presunzione”. E ancora, anche le Corti di merito, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, si sono pronunciate sulla quaestio iuris affermando che il Fisco deve sempre provare detta distribuzione, non potendo semplicemente presupporla dalla circostanza relativa alla ristrettezza della compagine societaria (cfr. CTR Bari sentenza n. 19 del 17 aprile 2012; CTR Lombardia n. 65/46/11/2011; CTP Napoli n. 145/2012). Precisamente, l’utilizzo della presunzione legata alla ristretta base sociale al fine di poter recuperare, sul singolo socio, quanto ritenuto occultamente distribuitogli dalla società, pur se ammesso, necessita di ulteriori elementi per provare la percezione di utili, soprattutto se condotto dall'Ufficio nei confronti di un socio con partecipazione minoritaria, avente deboli poteri di gestione (cfr. CTR Lombardia, sentenza n. 5279/2019). Tanto è stato avvalorato, altresì, dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza 09 luglio 2018, n. 18042, la quale ha chiarito che se il socio è estraneo alla gestione non opera la presunzione di percezione di utili non dichiarati; pertanto, la presunzione può essere vinta dalla dimostrazione dell’estraneità del socio alla gestione sociale. Più nel dettaglio, la Suprema Corte, con la suddetta pronuncia, in applicazione di tale principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della CTR Toscana, con la quale si era ritenuto che il contribuente avesse efficacemente vinto la presunzione in esame, dimostrando di svolgere la professione di neuropsichiatra e di non essersi mai inserito nella conduzione della s.r.l. – impegnata nel settore della ristorazione – della quale, insieme al figlio, era socio. I finanziamenti erogati nel corso degli anni dal contribuente alla predetta società, infatti, lungi dal comprovare l’interferenza dello stesso nello svolgimento degli affari sociali, risultavano volti unicamente ad offrire un sostegno al figlio, senza alcuna contropartita. In definitiva, la suddetta sentenza ha chiarito che: «È legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, o da essa reinvestiti (Cassazione 5076/11, 9519/09, 7564/03, 6780/03, 7564/03, 16885/03, 18640/08 e 8954/13)», ma al contempo ha precisato che «la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cassazione 1932/2016, 17461/2017 e 26873/2016)». Negli stessi termini, gli Ermellini si sono espressi anche con la recente sentenza 23 dicembre 2019 n. 34282 con cui, in particolare, i giudici di legittimità hanno chiarito che nelle ipotesi di società a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti. Tale principio è stato, altresì, completato precisandosi che la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio può essere vinta dal contribuente fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria. La Cassazione ha, quindi, individuato alcune circostanze che potrebbero scagionare il socio accertato: tra queste, ad esempio, la dimostrazione che, nonostante la ristretta compagine, altri soci detengano il controllo delle scelte gestionali e amministrative. Si potrebbe, in quest’ottica, produrre i verbali assembleari che dimostrino il conflitto tra il socio di minoranza e quelli di maggioranza; oppure dimostrare che il socio dissenziente abbia promosso iniziative penali o azioni di responsabilità nei confronti dell’organo amministrativo. D’altronde, negli stessi termini, si sono espressi anche i giudici di merito, i quali hanno chiarito che non può essere supposta nessuna presunzione di distribuzione di utili in capo al socio che non abbia gestito la società e che non abbia commesso l’illecito (cfr., ex pluribus Commissione Tributaria regionale della Lombardia, sentenze n. 4755/2017 e n. 5279/21/2019).

Lecce, 14 gennaio 2021.

Avv. Maurizio Villani Avv. Federica Attanasi


Cass. n.5160/2020:il divieto di ius novorum in appello si applica anche nei confronti dell’Ufficio finanziario

1.Il principio di diritto  2.Il caso  3.La motivazione della sentenza  3.1.Premessa  3.2. Gli orientamenti precedenti conformi della giurisprudenza  3.3. L’iter motivazionale  4.Conclusioni

  1. Il principio di diritto La Suprema Corte con la sentenza n. 5160 del 26 febbraio 2020, nel dichiarare illegittima l’integrazione in appello dei motivi dell’accertamento attraverso nuove eccezioni, ha enucleato il seguente principio di diritto: “il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, co. 1, d.lgs. n. 546/1992, trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo.” Più precisamente, i giudici di ultima istanza, in tale pronuncia hanno evidenziato che il processo tributario di appello, non permette all’ Amministrazione Finanziaria di dedurre in secondo grado profili diversi rispetto a quelli indicati nell’avviso di accertamento, così da mutare i termini della contestazione; da ciò ne consegue che l’avviso di accertamento deve contenere specificamente le ragioni della pretesa erariale, atteso che è esclusa la possibilità per l’Ufficio di integrarle successivamente in giudizio. 2.Il caso. Una società ha impugnato un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate ha disconosciuto alcuni costi di pubblicità sostenuti per la sponsorizzazione di autovetture da gare. La Ctp ha accolto integralmente il ricorso e l’Ufficio ha proposto appello avverso tale decisione sostenendo che predetto costo costituisse una spesa di rappresentanza e, come tale, deducibile solo parzialmente. I giudici di secondo grado hanno ritenuto fondata la tesi dell’ Ufficio confermando la debenza della pretesa sul punto. La società ha così proposto ricorso per Cassazione censurando la pronuncia essenzialmente per violazione degli artt. 7 co. 1 ed 1 co. 2, d.lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 co. 1, n. 4 c.p.c. per aver introdotto con l’atto d’appello un nuovo motivo a fondamento della pretesa fiscale. 3.La motivazione della sentenza 3.1.Premessa Tanto premesso, prima di esaminare l’iter motivazionale seguito dal Supremo Consesso nella decisione in oggetto, appare opportuno dare contezza degli orientamenti giurisprudenziali precedenti conformi al principio enucleato dai giudici di legittimità nella sentenza de qua. 3.2 Gli orientamenti precedenti conformi della giurisprudenza Il Legislatore tributario ha introdotto il divieto dello ius novorum nel disposto normativo dell'articolo 57 del Dlgs n.546/1992; tale norma rappresenta una radicale innovazione rispetto alla disciplina normativa previgente (D.P.R n.636/1972) - che difettava totalmente di una tale previsione- e al comma 1 stabilisce che nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili, anche d'ufficio dal giudice. Precisamente, l’intentio legis è stata quella delimitare il più possibile l'ambito oggettivo del giudizio di appello rispetto alle domande avanzate dalle parti o rispetto al contenuto della sentenza di primo grado; tale divieto di ius novorum ha carattere assoluto ed è posto a tutela del principio di ordine pubblico di garantire il rispetto del doppio grado di giurisdizione che, altrimenti, resterebbe inapplicato se si consentisse l’introduzione di nuove domande nel giudizio di appello, che non potrebbero essere successivamente oggetto di riesame. Tanto chiarito, giova evidenziare che i giudici di legittimità nel loro iter motivazionale hanno fatto riferimento ai precedenti arresti di legittimità che si sono pronunciati in tal senso, ossia nel ritenere illegittima l’integrazione nel processo tributario di appello da parte dell’Ufficio dei motivi di accertamento, adducendo nuovi motivi di contestazione. Il Supremo Consesso nella pronuncia de qua (Cass. n.5160/2020) ha rammentato che con la decisione n. 25909 del 29/10/2008, la Corte aveva peraltro evidenziato che nel processo tributario di appello, l’Amministrazione Finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove, previsto all’art. 57, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo- e dunque sul piano della causa petendi- da quelle recepite nell’atto impositivo In caso contrario, verrebbe lesa la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto(Cass. n.9810/2014; Cass. n.12467/2019). In altre termini, l’Agenzia delle Entrate non può introdurre in appello elementi nuovi, di cui non aveva mai addotto prima, e che non erano riportati all’interno dell’avviso di accertamento. Quanto affermato, trova conferma altresì nella recente pronuncia della Corte di Cassazione, la n.13754 del 22 maggio 2019, nella quale è stato ribadito che nel processo tributario d’appello, l’Amministrazione Finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento, in quanto il divieto di domande nuove previsto all’art. 57, comma 1, del D.lgs. n. 546/1992 trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario. A parere degli Scriventi, appare opportuno rammentare che in senso conforme si è espressa anche la giurisprudenza di merito, ritenendo che l’avviso di accertamento non è integrabile in appello(CTR Catanzaro, sentenza n.2373/2016, depositata il 29 settembre 2016). Inoltre, analogamente si è espressa la CTR di Bari, che con la sentenza del 25 febbraio 2011, n. 49/23/11, ha sottolineato che “gli avvisi di accertamento necessitano di essere adeguatamente motivati, giacché la motivazione costituisce uno degli elementi fondamentali degli atti impositivi; se, però, essi ne sono sprovvisti all’origine, non vi può essere una successiva integrazione in giudizio e, pertanto, l’atto così viziato risulta nullo”. 3.3. L’iter motivazionale I giudici di legittimità, sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali conformi al principio di diritto enunciato nella sentenza in esame-innanzi rammentati- hanno così dato risoluzione al caso di specie. Ebbene, precisamente il Supremo Consesso ha enucleato il principio di diritto secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il divieto di domande nuove previsto all'art. 57, comma 1, del D.lgs. n. 546 del 1992, si applica anche nei confronti dell'Amministrazione Finanziaria, alla quale non è consentito, innanzi al giudice d'appello, mutare i termini della contestazione,deducendo motivi diversi, sotto il profilo del fondamento giustificativo, da quelli contenuti nell'atto impositivo. Sulla scorta di tanto e venendo al caso di specie, i giudici di legittimità hanno evidenziato che “ fondare la pretesa impositiva sulla assenza di inerenza del costo sostenuto per la sponsorizzazione di autovetture partecipanti a gare automobilistiche, con ciò recuperando a tassazione l'intero importo dei costi, e, successivamente e in sede d'appello, qualificare i medesimi costi quali spese di rappresentanza, sostenendo che il contribuente poteva dedurne solo 1/3, palesemente infrange il limite imposto dal TUIR, articolo 57, nel cui alveo trova corretta qualificazione e collocazione giuridica il primo motivo di ricorso”. A tal proposito, i giudici di ultima istanza hanno precisato che è di tutta evidenza che “tra costi di pubblicità, non deducibili perchè se ne disconosceva l'inerenza per l'antieconomicità, e costi di rappresentanza, di cui se ne disconosce la sola parziale deducibilità, vi è una diversità ontologica, con conseguente differenza materiale delle ragioni a supporto della pretesa fiscale. Essa pertanto costituiva una ragione del tutto nuova e inammissibile in sede d'appello”. A parere della Corte di Cassazione, tale netta differenza, inoltre, è riscontrabile non solo nella causa petendi ma anche nel petitum, avendo l'Ufficio, in sede di avviso di accertamento, negato del tutto il diritto alla deduzione dei costi, per poi prospettare, in sede d'appello, una qualificazione giuridica dei costi che limitava, ma non escludeva in toto, la deducibilità delle stesse spese. Inoltre, con tale decisione i giudici di legittimità hanno ribadito che l’avviso di accertamento deve contenere in maniera dettagliata tutte le ragioni della pretesa, dovendosi escludere che l’Ufficio possa poi integrarle.

4.Conclusioni Alla luce di tale iter ermeneutico seguito dai giudici di legittimità nella sentenza in esame (Cass.n.5160/2020), si conclude che la Suprema Corte con tale principio di diritto ha voluto evidenziare che è illegittima l’integrazione in appello dei motivi dell’avviso di accertamento attraverso nuove eccezioni e, pertanto, la regola del divieto di ius novorum in appello prevista per il processo tributario, va rispettata anche dall’Amministrazione Finanziaria, atteso che l’avviso di accertamento deve sempre contenere tutte le ragioni della pretesa.

Lecce, 30/12/2020 Avv. Maurizio Villani Avv. Lucia Morciano