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La rinuncia del preavviso non deve essere pagata

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La rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso

Il caso: dimissioni con preavviso del dipendente

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Firenze aveva rigettato l’appello proposto dalla società datrice di lavoro avverso la sentenza del Giudice di primo grado con cui la società veniva condannata a pagare al dipendete l’indennità di preavviso, anche se in concreto il dipendente non aveva lavorato durante tale periodo poiché il datore di lavoro aveva espressamente rinunciato alla prestazione lavorativa. Il Giudice di prime cure, cui la Corte d’appello si è poi conformata, aveva in particolare evidenziato che, rispetto alla decisione del dipendente di dimettersi con preavviso, il datore è posto nella possibilità di scegliere tra la cessazione immediata del rapporto oppure la prosecuzione dello stesso per la durata del preavviso. Ne consegue tuttavia che, la parte che recede con effetto immediato ha l’obbligo di corrispondere all’altra parte l’indennità sostitutiva. Pertanto, il datore di lavoro, rispetto alla scelta di dimettersi esercitata dal dipendente, può esonerare quest’ultimo dalla prestazione lavorativa per la durata del preavviso, ma non può sottrarsi all’onere di corrispondere l’importo che sarebbe spettato per il periodo di preavviso. Avverso la decisione del Giudice di secondo grado la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La rinuncia al periodo di preavviso

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6782/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il motivo d’impugnazione formulato dalla datrice di lavoro con cui è stato evidenziato che la rinuncia al preavviso è una facoltà del datore di lavoro che egli esercita nella sua qualità di creditore, senza che, dall’esercizio di tale diritto, possa derivare una trasformazione della sua posizione giuridica in parte obbligata. Il Giudice di legittimità ha ritenuto fondata tale doglianza e, dopo aver dato conto delle diverse tesi in punto di natura, obbligatoria o reale del preavviso, nonché della funzione svolta dall’istituto in esame nell’ambito dei rapporti di lavoro, ha affermato che “nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale (…), ma ha efficacia obbligatoria, con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva (…), a meno che la parte recedente, nell’esercizio del suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sono a termine del periodo di preavviso”. In ragione della natura obbligatoria dell’istituto del preavviso, discende, ha riferito la Corte, che la parte non recedente, qualora rinunci al preavviso, nulla deve alla controparte “la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunziabilità del preavviso esclude che a essa possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con le fonti delle obbligazioni indicate nell’art. 1173 c.c.”. La Corte ha in definitiva enunciato il principio secondo cui “in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso, dovendo peraltro escludersi che alla libera rinunziabilità del preavviso possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con la disciplina delle fonti delle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c.”.


Cessazione rapporto lavorativo: ferie e divieto di monetizzazione

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Nel pubblico impiego privatizzato, il dipendente non perde il diritto alle ferie ed all’indennità sostitutiva, alla cessazione del rapporto di lavoro, se questa è avvenuta per malattia che ha impedito il godimento del periodo di congedo ancora spettante

Il caso: indennità sostitutiva per ferie non godute

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta avanzata da un medico pediatra di pagamento in suo favore dell’indennità sostitutiva per i giorni di ferie non godute durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. In particolare, il medico aveva rappresentato di essere stato collocato a riposo per inabilità permanente al lavoro, con conseguente cessazione del rapporto lavorativo. Il Giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello di Palermo di rigetto delle doglianze formulate dal lavoratore.

Grava sul datore la prova di aver consentito la fruizione delle ferie

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14083/2024, ha accolto il ricorso proposto e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte d’appello di Palermo, anche in relazione alla determinazione delle spese di lite per il giudizio di legittimità. Nella specie, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa ed i motivi di ricorso, ha affermato che “la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova di aver invitato il lavoratore a godere delle ferie (…) e di averlo nel contempo avvisato (…) che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno prese al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”. In questi termini, ha spiegato la Corte, grava sulla parte datoriale la prova di aver esercitato la propria capacità organizzativa in modo tale da consentire ai lavoratori di godere effettivamente delle ferie allo stesso spettanti, senza che, a tal proposito, le esigenze di servizio possano configurare un impedimento alla fruizione delle ferie. Nel caso in esame, inoltre, l’interruzione del rapporto di lavoro è avvenuta né per causa non imputabile al medico, né per raggiungimento dell’età pensionabile, ma a causa di una malattia che aveva colpito il lavoratore. In tal senso, ha aggiunto la Suprema Corte, il divieto di monetizzare le ferie opera solo “nel caso in cui il dipendente rinunci di sua volontà al godimento delle ferie, ricorrendo, in caso contrario, la violazione degli artt. 32 e 36 Cost.”. La giurisprudenza è invero costante nel riferire che “il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”. Sulla scorta di tali premesse, la Corte ha pertanto accolto il ricorso e pronunciato i seguenti principi di diritto, cui dovrà attenersi il giudice del rinvio “In tema di pubblico impiego privatizzato, il dipendente non perde il diritto alle ferie ed alla corrispondere indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove tale cessazione sia avvenuta per malattia che abbia impedito l’effettivo godimento del periodo di congedo ancora spettante”. Inoltre “In tema di pubblico impiego privatizzato, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare di aver esercitato la sua capacità organizzativa in modo che il lavoratore godesse effettivamente del periodo di congedo e, quindi, di averlo inutilmente invitato a usufruire, con espresso avviso di perdita, in caso diverso, del diritto alle dette ferie e alla indennità sostitutiva; pertanto non è idonea a fare ritenere assolto tale onere la comunicazione con la quale la P.A. chieda al dipendente di consumare siffatte ferie genericamente prima della cessazione del rapporto di impiego e non entro una data specificamente indicata, senza riportare l’avviso menzionato e subordinando, comunque, l’utilizzo del congedo in questione alle sue esigenze organizzative”.


Licenziamento per reati anteriori all’assunzione

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Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente

Il caso: il licenziamento disciplinare

Nel caso che ci occupa, il Giudice di merito aveva accertato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa operato dalla datrice di lavoro nei confronti del proprio dipendente, disponendo, per l’effetto, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna della società (datrice di lavoro) al pagamento della relativa indennità risarcitoria. Nella specie, il licenziamento intimato al dipendente era stato giustificato da parte datoriale poiché il lavoratore aveva riportato, anteriormente alla costituzione del rapporto lavorativo, una condanna penale per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. La Corte territorialmente competente aveva confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di prime cure.

Illegittimo il licenziamento intimato per fatti molto risalenti

Avverso la decisione del Giudice di merito, la società ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione la quale, con ordinanza n. 8899/2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. Nel formulare le proprie contestazioni dinanzi al Giudice di legittimità, la datrice ha ribadito “di essere venuta a conoscenza delle condotte contestate solo (successivamente alla costituzione del rapporto) e sottolinea che la società opera esclusivamente nell’ambito dei contratti di appalto con la pubblica amministrazione e che in tale contesto la condotta extralavorativa, sebbene risalente, è rilevante e può ben integrare una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro”. La società ha inoltre precisato che i fatti penalmente accertati fossero “idonei a ledere gravemente l’elemento fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro poiché violano quel “minimo etico” che è richiedibile al lavoratore”.

Rispetto alle suddette argomentazioni, la Corte ha sottolineato che “intanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d'una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso. Diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l'unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare”.

Quanto sopra riferito, ha proseguito il Giudice di legittimità, non significa che le condotte costituenti reato, pur essendo state realizzate prima della costituzione del rapporto lavorativo, non possano di per sé integrare giusta causa di licenziamento. Sul punto la Corte ha infatti rilevato che “per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604 del 1966 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto”.

Ciò posto, ha sottolineato la Corte “il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l'essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: Condotte costituenti reato possono (…) integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino (…) incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.

Sulla scorta dei suddetti principi e facendo riferimento al caso di specie, la Corte ha rilevato come “i fatti addebitati al lavoratore non solo sono risalenti nel tempo (…) ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna (…) è precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro (..) e la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la società non abbia specificamente indicato “l’incidenza negativa” di fatti così risalenti “sulla funzionalità del rapporto”, e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a fatti accertati o commessi anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro”. In ragione di tale ricostruzione interpretativa la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro.


Licenziamento: non è legittimo se la giusta causa è una prassi aziendale

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Licenziamento: non è legittimo se la giusta causa è una prassi aziendale La Cassazione afferma che la giusta causa di licenziamento è una nozione normativa ampia che deve essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama

Il caso: il datore contesta l’improprio uso della carta fedeltà La vicenda in esame prende avvio dal licenziamento (senza preavviso) attuato dal datore di lavoro a carico di una propria dipendente, all'esito di una contestazione disciplinare con cui veniva contestato alla lavoratrice di avere creato una fittizia carta fedeltà (intestata ad una persona inesistente), di averla utilizzata in più occasioni “per acquisti effettuati da clienti in modo da ottenere un indebito accumulo di punti nonché uno stato di "Card Platinum”, così privando “i clienti stessi della possibilità di sottoscrivere la propria fidelity". Tali condotte erano state valutate dal datore di lavoro “a danno e detrimento degli interessi della società e a (…) esclusivo vantaggio (della lavoratrice) per interessi del tutto personali”. Avverso tale decisione, la dipendente impugnava il licenziamento dinanzi al Giudice del merito che, sia in primo che in secondo grado, aveva accolto il ricorso della lavoratrice. In particolare, la Corte di appello di Firenze aveva ritenuto che il fatto contestato fosse inesistente e aveva pertanto condannato parte datoriale al pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, oltre al risarcimento del danno nella misura di dodici mensilità in favore dell’ex-dipendente. Tale decisione veniva assunta sulla base di una valutazione dei fatti, processualmente acquisiti, ritenuti dalla Corte territoriale “indicativi di una modalità diffusa (…) di impiego della carta irregolare: modalità condivisa dalle responsabili delle filiali e che non era stata smentita, dalla prova per testi raccolta, con la conseguenza sia della inesistenza di un qualche vantaggio personale della dipendente che di un uso diffuso circa una prassi diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali”. La decisione del Giudice di secondo grado è stata impugnata dal datore di lavoro che ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La giusta causa è ascrivibile alla cosiddette clausole generali La Corte di Cassazione, investita della vicenda sopra rappresentata, con ordinanza n. 35516/2023, ha respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro e ha confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di secondo grado. Rispetto al ritenuto utilizzo improprio della carta fedeltà, che ha condotto al licenziamento della dipendente, la Corte ha anzitutto ribadito “il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge”. Ciò posto, il Giudice di legittimità ha proseguito il proprio esame, affermando che “nella fattispecie in esame la Corte territoriale, inquadrata la contestazione disciplinare in un contesto in cui la operazione irregolare di creazione della carta fedeltà era connessa anche all'esclusivo vantaggio della dipendente per interessi del tutto personali e a detrimento dell'interesse aziendale, ha ritenuto che nessuno di tali elementi, che rappresentavano componenti necessari dell'addebito, fossero ravvisabili nel caso de quo”. Rispetto a tali fatti, spiega la Corte, il Giudice di secondo grado ha “rilevato che la carta irregolare era risultata essere stata associata a vendite effettuate anche da diverse altre lavoratrici (…) e di tale circostanza erano a conoscenza le responsabili dei negozi”. Quanto rappresentato era quindi idoneo, secondo la Corte territoriale, ad avvalorare l’esistenza di una prassi aziendale diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali, che, in mancanza, vi avrebbero rinunciato e dimostrava altresì che l'esecuzione delle operazioni irregolari “non era a esclusivo vantaggio della lavoratrice e a detrimento dell'interesse aziendale”. La Corte di appello ha, in questo senso, valutato la creazione artificiosa di una carta fedeltà, inquadrando tale condotta rispetto all'intero addebito, considerandolo non dimostrato nella sua complessità, in quanto “la contestazione era appunto incentrata sul comportamento della lavoratrice e sui suoi effetti e non anche sul singolo episodio (creazione della carta), che da solo non era stato indicato quale causa esclusiva del recesso e comunque idoneo a giustificare il licenziamento”. In relazione a quanto appena detto, la Cassazione ha dunque ritenuto che la Corte distrettuale aveva correttamente ritenuto insussistente il fatto contestato e, per l’effetto, ha dato applicazione alla tutela di cui alla legge n. 300/1970, ex articolo 18, comma 4.


ABROGAZIONE IRBA: LA CONTROVERSA QUESTIONE DEI RIMBORSI PER GLI ANNI PRECEDENTI AL 2021

La legge di Bilancio 2021 ha abrogato - a decorrere dal 1° gennaio 2021 - tutte le norme afferenti all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione (c.d. I.R.B.A.), facendo salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte. Tale limitazione temporale, comporta un limite alla richiesta di rimborso dell’indebito per gli anni precedenti al 2021 e si pone, dunque, in contrasto con la normativa comunitaria che ha ritenuto illegittima l’imposta de qua.

INDICE

  1. Considerazioni introduttive;
  2. La procedura di infrazione Ue;
  3. La giurisprudenza nazionale in merito alla procedura d’infrazione; 3.1. Rilevanza di un caso analogo a quello di specie: le imposte addizionali alle accise provinciali previste dal D.L. n. 511/88;
  4. Legge di Bilancio 2021 e profili di criticità: la portata applicativa dell’espressione <<Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte.>> e la questione relativa al rimborso;
  5. Osservazioni conclusive.

  6. Considerazioni introduttive L'art. 1, comma 628, L. 30.12.2020, n. 178 (Legge di Bilancio 2021), con decorrenza dal 01.01.2021, ha abrogato tutte le norme afferenti all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione. Al fine di comprendere appieno la questione e gli effetti di tale norma abrogativa, giova preliminarmente procedere ad un breve inquadramento normativo dell’imposta de qua. Sul presupposto che la Legge 158/1990, con l'art. 1 ha previsto che <<l'autonomia finanziaria delle regioni è garantita da a) tributi propri e quote di tributi erariali accorpati in un fondo comune che assicuri il finanziamento delle spese necessarie ad adempiere tutte le funzioni normali compresi ei servizi di rilevanza nazionale.>>, è stata introdotta l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione (I.R.B.A), con il D.Lgs. n. 398/1990, ove è stato statuito che “Le Regioni hanno la facoltà di istituire, con leggi proprie, un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, erogata dagli impianti di distribuzione ubicati nelle rispettive Regioni, successivamente alla data di entrata in vigore della legge istitutiva”, prevedendo al contempo la possibilità per l’Ente territoriale di fissare una specifica aliquota. A partire dall’istituzione di tale forma di imposizione, le Regioni avevano introdotto apposite leggi regionali istitutive della stessa. In via generale, l’imposta regionale gravava sulla benzina (che risultava già assoggettata ad accisa) e doveva essere versata direttamente dal concessionario dell’impianto di distribuzione di carburante o, per sua delega, dalla società petrolifera unica fornitrice del suddetto impianto, sulla base dei quantitativi erogati in ciascuna regione dagli impianti di distribuzione di carburante. Le modalità ed i termini di versamento, nonché le sanzioni, erano stabilite da ciascuna regione con propria legge. Ad esse era altresì attribuita la facoltà di svolgere controlli sui soggetti obbligati al versamento dell'imposta nonchè di accedere ai dati risultanti dalle registrazioni fiscali tenute in base alle norme vigenti, al fine di segnalare eventuali infrazioni o irregolarità all'organo competente per l'accertamento. Come precisato all’articolo 3, comma 13, della citata legge n. 549/1995, l'accertamento e la liquidazione dell'imposta regionale erano di competenza degli Uffici tecnici di Finanza dell'Agenzia delle Dogane che applicavano il D.Lgs. n. 504/1995 (c.d. T.U.A.). Da quanto sin qui delineato, emerge che l’IRBA ha avuto una struttura analoga a quella dell’accisa laddove, oltre a colpire la vendita di una particolare categoria di prodotti di consumo, in base alla quantità e non al valore, prevedeva che la fase della riscossione di tale imposta fosse affidata all’Agenzia delle dogane e dei Monopoli. Tanto chiarito, come accennato in premessa, l’articolo 1 della Legge 30.12.2020, n. 178, recante il “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021/2023” (Legge di Bilancio 2021), ha disposto l’abrogazione, a decorrere dal 1° gennaio 2021, di tutte le norme afferenti all’imposta regionale sulla benzina per autotrazione, fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte. A riguardo, si precisa che la relazione illustrativa che accompagna il testo della Legge di Bilancio 2021, ha evidenziato che il tributo in questione risultava applicato in un numero assai limitato di regioni e in modo frammentario, con aliquote diversificate, essendo una facoltà di ogni regione disciplinare autonomamente la materia, conseguendone una gravosa gestione dal punto di vista amministrativo e un numero esorbitante di contenziosi tra l’Amministrazione finanziaria e gli operatori del settore della distribuzione dei carburanti. In particolare, il citato articolo 1, commi 628-630, rubricati “Soppressione IRBA”, così dispone. << 628. L'articolo 6, comma 1, lettera c), della legge 14 giugno 1990, n. 158, l'articolo 17 del decreto legislativo 21 dicembre 1990, n. 398, l'articolo 3, comma 13, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, l'articolo 1, comma 154, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e l'articolo 1, commi 670, lettera a), e 671, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recanti disposizioni in materia di imposta regionale sulla benzina per autotrazione, sono abrogati. Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte.
  7. Le regioni a statuto ordinario provvedono ad adeguare la propria normativa alle disposizioni del comma 628.
  8. Ai fini del ristoro delle minori entrate delle regioni interessate è istituito un fondo presso il Ministero dell'economia e delle finanze, con una dotazione di 79,14 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2021, da ripartire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano.>>. Più nel dettaglio, ai fini del coordinamento normativo, il comma 628 cit. sopprime le norme in materia di: • modalità di gestione del tributo, in particolare sul versamento alla regione da parte del concessionario dell'impianto di distribuzione di carburante o, per sua delega, dalla società petrolifera (articolo 3, comma 13, della legge 28 dicembre 1995, n. 549); • determinazione della misura massima degli aumenti dell’IRBA (articolo 1, comma 154, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 nonché articolo 1, commi 670, lettera a) e 671 della legge 27 dicembre 2006, n. 296); invece, l’ultimo periodo del comma 628 fa salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte mentre il successivo comma 629 stabilisce che le regioni a statuto ordinario sono tenute ad adeguare la propria normativa, provvedendo alla soppressione dell’imposta in esame. Proprio in virtù di quanto disposto dal citato comma 629, con nota n. 24479 del 22 gennaio 2021, l’Agenzia delle Dogane ha comunicato che alcune regioni (Piemonte, Calabria, Lazio e Molise), in ottemperanza al dato normativo citato, hanno già provveduto all’abrogazione dell’imposta e che le altre regioni, invece, stanno adeguando le rispettive normative regionali. A riguardo, si elencano schematicamente le Regioni che hanno previsto l’applicazione dell’IRBA, il periodo di vigenza della stessa e la relativa normativa regionale di riferimento.

REGIONE VIGENZA DELL’IMPOSTA IRBA NORMATIVA REGIONALE

Lazio
In vigore dal 1° gennaio 2012.

In virtù di legge di Bilancio 2021, abrogata da articolo 2 della Legge Regionale 23/12/2020, n. 31, articolo 3, commi 6 e 7 della Legge Regionale del 30/12/2020, n. 25.

  • L.R. 23.12.2011, n. 19, art. 3;
  • Circolare approv. con determina n. B00809 - 08-02-2012;
  • L. R. 23/12/2020, n. 31, art. 2 e L.R. 30/12/2020, n. 25, art. 3, commi 6 e 7 (abrogazione IRBA).

Campania
Attiva dal 1° gennaio 2004.

  • L.R. 24 dicembre 2003, n. 28, art. 3.

Piemonte
In vigore dal 14 novembre 2011.

In virtù di legge di Bilancio 2021, abrogata da articolo 2 della Legge regionale 23/12/2020, n. 31.

  • L. R. n. 47/1993 (istituzione IRBA);
  • Deliberazione della Giunta regionale n. 51-2907/2011 (attuazione);
  • L.R. n. 31/2020, art. 2 della (abrogazione IRBA).

Calabria
In vigore dal 1° gennaio 2011.

In virtù di legge di Bilancio 2021, abrogato da art. 1 della Legge Regionale del 29/12/2020, n. 34.

  • L.R. 29.12.2010, n. 34, art. 27 (istituzione IRBA);
  • L.R. 27.12.2016, n. 44, art. 2 (modifiche alla normativa regionale);
  • L.R. 29.12.2020, n. 34, art. 1 (abrogazione IRBA).

Molise
In vigore dal 1° gennaio 2005.

In virtù di legge di Bilancio 2021, abrogata da art. 6, commi 6 e 7 della Legge Regionale del 30/12/2020, n. 20.

  • L. R. del 31/12/2004 n. 38 (istituzione IRBA);
    • L.R. n. 42 del 28/12/2006 (rideterminazione misura dell'imposta);
    • L.R. del 30/12/2020, n. 20, art. 6, commi 6 e 7 (abrogazione IRBA).

Liguria In vigore dal 1° febbraio 2006.

  • L.R. 24 gennaio 2006, n. 2 (istituzione IRBA).

Marche
Abrogata dal 1° novembre 2018, con legge regionale 24 ottobre 2018 n. 43 (art. 7).

  • L.R. 27.12.2007 n. 19, art. 27;
  • L.R. 31.10.2011, n. 20;
  • L.R.20.03.2012, n. 2;
  • L.R. 29.11.2013, n. 44, art. 8, c. 1;
  • L.R. 24.10. 2018 n. 43, art. 7.

Umbria
In vigore dal 1° gennaio 2012.

  • L.R. 9.12.2011, n. 17, art. 2 (istituzione IRBA);
  • L.R. 20.12.2012, n. 26, art. 2 (rideterminazione della misura dell’imposta dovuta per l'anno 2013).

Puglia
Istituita nel 2008, è stata abrogata dal 1° novembre del 2009 (L.R. 12.11.2009, n. 21). In seguito, è stata re-introdotta il 1° marzo del 2011 (L.R. 31.12. 2010, n. 19) per poi essere abrogata nuovamente dal 1° gennaio 2013 (L.R. 28 .12.2012, n. 45).

  • L.R. 17.02.1994, n. 9 (istituzione IRBA),
  • L.R. 12.11.2009, n. 21;
  • L.R. 31.12. 2010, n. 19;
  • L.R. 28 .12.2012, n. 45;
  • L.R. 29.12.2017, n. 67, art. 61 (disciplina della definizione del contenzioso relativo all’IRBA).

Toscana Istituita dal 1° gennaio 2012 e abrogata da1 1° ottobre 2012.

  • L.R. 15.11.2011, n. 58 (istituzione IRBA);
  • L.R. 14.09.2012, n. 49 (abrogazione IRBA).

Abruzzo Istituita dal 1° gennaio 2011 e abrogata dal 1° gennaio 2012.

  • L.R. 10.01.2011, n. 1 (istituzione IRBA);
  • L.R. 9 .11.2011, n. 39 (abrogazione IRBA).
  1. La procedura di infrazione Ue Un’annosa questione in tema di IRBA, è stata certamente la contestata illegittimità dell’imposta per contrasto con il diritto unionale, ai sensi dell’art.1, par. 2 della Direttiva 2008/118/CE, recepita nell’ordinamento nazionale con D.Lgs. 29/3/2010 n. 48, che prevede che i prodotti energetici possono essere gravati da tributi ulteriori purché il relativo gettito sia vincolato ab origine ad una finalità specifica. Detta questione è stata oggetto di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia appunto sull’illegittimità delle addizionali. Più nel dettaglio, l’articolo 1, par. 2, della direttiva Accise 2008/118/CE del Consiglio dell’Unione Europea, del 16 dicembre 2008 (relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE) così statuisce: “gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l'imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell'imposta”. Dal tenore letterale della citata direttiva emerge la possibilità per gli Stati membri di applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’IVA in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta. In altri termini, gli Stati possono certamente prelevare altre imposte indirette sui prodotti sottoposti già ad accisa (come la benzina), ma tale facoltà è attivabile solo se vengono rispettate due condizioni: • l’imposta deve essere riscossa per fini specifici; • l’imposta deve essere conforme alla normativa comunitaria in materia di accise o di imposta sul valore aggiunto. Per tali ragioni, la Commissione Europea con la decisione 2017/2114 del 19 luglio 2018, ha avviato nei confronti dell’Italia una procedura di infrazione con contestuale atto di costituzione in mora con cui ha intimato l’abolizione delle imposte regionali sui carburanti applicate sul suo territorio. A tale proposito, secondo la Commissione Europea, con riferimento all’IRBA, le condizioni di cui al succitato art. 1, par. 2, della direttiva Accise 2008/118/CE del Consiglio dell’Unione Europea, non appaiono soddisfatte, in particolare perché non è stato individuato un fine specifico dell’imposta de qua che, in coerenza con il disposto della Corte di Giustizia dell’Ue, deve essere individuato nell’esecuzione di attività volte alla <<riduzione dell’impatto ambientale dei combustibili liquidi o a una qualche finalità di salute pubblica riconnessa al consumo di carburante>>. In particolare, secondo la Commissione <<l'Irba non ha finalità specifiche ma unicamente di bilancio, contravvenendo quindi alle norme dell'UE (articolo 1, paragrafo 2, della direttiva sul regime generale delle accise 2008/118/CE del Consiglio). Perciò se l'Italia non si attiverà entro due mesi, la Commissione potrà inviare un parere motivato alle autorità italiane>>. A fronte della mancata ottemperanza a tali moniti, la Commissione, con nota prot. C (2019) 8232 del 27/11/2019, ha ribadito la contrarietà dell’imposta alla normativa Ue, invitando l’Italia a prendere le disposizioni necessarie per conformarsi, pena l’istaurazione di un giudizio innanzi alla Corte di Giustizia con il rischio di vedere irrogate pesanti sanzioni pecuniarie. Di conseguenza, con la soppressione del tributo, si è chiusa la controversia tra Italia e Commissione Ue.

  2. La giurisprudenza nazionale in merito alla procedura d’infrazione Sulla scorta di tali considerazioni, a livello nazionale si sono registrate sentenze di merito che, rilevando l’assenza di un nesso diretto tra l’uso del gettito e la finalità attribuita all’IRBA, hanno riconosciuto l’incompatibilità della stessa con l’ordinamento eurounitario, disapplicando la normativa nazionale contrastante. La Commissione Tributaria regionale di Torino, sez. 6, con sentenza del 14 gennaio 2020, n. 53 ha affrontato per la prima volta tale delicata quaestio iuris, chiarendo che l’imposta regionale sulla benzina per autotrazione è incompatibile con l’ordinamento eurounitario e, in quanto tale, va disapplicata e può essere chiesta a rimborso. Precisamente, i giudici di appello richiamano la citata decisione n. 2017/2114 (v. par. 2), resa nell’ambito della procedura d’infrazione, con cui la Commissione Europea, - dopo aver richiesto all’Italia chiarimenti in ordine alle imposte regionali sui carburanti, in quanto presuntamente contrarie al diritto eurounitario, ravvisando una palese violazione della Direttiva Europea 2008/118/CE e, in particolare, con l’art. 1, par. 2, Direttiva 2008/118/CE - ha concluso per l’insussistenza di finalità specifica nella normativa nazionale e regionale istitutiva della stessa imposta, con conseguente contrasto con l’ordinamento eurounitario. La CTR di Torino, facendo propri tali principi, ha dichiarato l’illegittimità dell’IRBA in quanto, trattandosi di imposta indiretta non armonizzata gravante su un prodotto già colpito da accisa, deve trovare applicazione l’art. 1 paragrafo 2 della Direttiva 2008/1118/CE del 6 dicembre 2008 che richiede “la finalità specifica”. Tuttavia, secondo i giudici, l’IRBA italiana sarebbe stata caratterizzata da sole ragioni di bilancio e non da finalità specifiche. Sulla scorta di tali presupposti, la Commissione tributaria regionale del Piemonte ha rilevato la contrarietà dell’IRBA rispetto al diritto eurounitario e ha disapplicato l’imposta, determinando la non debenza degli importi versati a tale titolo, con la conseguente possibilità per il contribuente di chiedere a rimborso dette somme indebitamente versate. In conclusione, l’iter motivazionale seguito dalla CTR di Torino nella pronuncia in commento appare pienamente condivisibile, in quanto nella sentenza de qua trovano corretta applicazione i superiori principi comunitari. In riferimento a ciò, si segnala che l’ordinamento italiano non è nuovo a simili declaratorie di illegittimità. A riguardo si evidenzia che, al pari dell’IRBA, anche l’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica è stata dichiarata incompatibile con l’ordinamento comunitario e abrogata dal legislatore italiano, stante proprio l’assenza di finalità specifiche attribuite all’imposta. Tale questione merita un approfondimento.

3.1. Rilevanza di un caso analogo a quello di specie: le imposte addizionali alle accise provinciali previste dal D.L. n. 511/88 Un tema che presenta numerosi aspetti di interesse e analogie al caso de quo è quello delle imposte addizionali alle accise provinciali, introdotte dal D.L. n. 511/88, convertito con modificazioni nella L. n. 20/89, e della loro incompatibilità con la normativa europea. Il caso citato involge, in particolare, due questioni analoghe al caso di specie, ovvero: a) il principio di diritto relativo alla preminenza dell’interpretazione del diritto effettuato in sede comunitaria rispetto all’interpretazione delle nostri corti nazionali; b) i possibili margini di recupero delle somme indebitamente corrisposte ai fornitori di energia elettrica. Sulla questione si è pronunciata di recente la Suprema Corte di Cassazione stabilendo definitivamente l'illegittimità delle addizionali all’accisa sull’energia elettrica previste dall'articolo 6, Dl 511/1988, convertito in legge 20/1989, per contrasto con il diritto comunitario (articolo 1, par. 2, della direttiva 2008/118/Ce). Difatti, la Corte di Cassazione, ex multis Cass. 15198/2019, ha espresso il principio di diritto secondo cui <<l’addizionale provinciale alle accise sull’energia elettrica di cui all’art. 6 del D.L. n. 511 del 1988, nella sua versione, applicabile ratione temporis, successiva alle modifiche introdotte dall’art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 26 del 2007, va disapplicata per contrasto con l’art. 1, par. 2, della Direttiva n. 2008/118/CE, per come interpretati dalla Corte di Giustizia della UE rispettivamente con le sentenze 5 marzo 2015, in causa C-553/13, e 25 luglio 2018, in causa C-103/17>>. Anche in detta ipotesi è stata riconosciuta l’incompatibilità della norma istitutiva dell’addizionale provinciale con la Direttiva Europea 2008/112/CE, stante proprio l’assenza della “finalità specifica” richiesta per introdurre una ulteriore imposta indiretta all’accisa armonizzata già esistente. Diversamente rispetto all’IRBA, per le imposte addizionali alle accise provinciali l’incompatibilità era già stata evidenziata nel 2012, quando il legislatore aveva integralmente abrogato tali imposte (articolo 4, comma 10, Dl 16/2012) proprio per conformarsi alla disciplina comunitaria, senza però disporre specificamente alcun rimborso per coloro che le avevano già versate. Sul punto, si evidenzia che l’Amministrazione si è sempre opposta alle richieste di rimborso inoltrate dagli operatori del settore, e di tanto ne è prova il contenzioso tributario di cui le recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione costituiscono l’epilogo. L’elaborazione giurisprudenziale, tuttavia, se da un lato ha acclarato definitivamente l’illegittimità del tributo, dall’altro ha complicato il quadro, stabilendo particolari limitazione al soggetto legittimato a chiedere il rimborso (il diritto al rimborso spetta unicamente ai soggetti passivi dell’imposta, vale a dire ai fornitori di energia elettrica, che erano i soggetti deputati al versamento dell’imposta allo Stato, e non invece ai clienti). Tanto chiarito, in relazione alle analogie tra le imposte addizionali alle accise provinciali di cui al D.L. n. 511/88 e l’IRBA, si osserva che entrambe sono state dichiarate in contrasto con la normativa comunitaria e, conseguentemente, è stata disposta una norma nazionale di abrogazione. Tuttavia, mentre per le imposte addizionali alle accise provinciali di cui al D.L. n. 511/88, il Legislatore non ha previsto ulteriori specificazioni e, in particolare, limitazioni alla richiesta di rimborso; viceversa, nell’ipotesi dell’IRBA, il Legislatore nazionale ha espressamente fatto salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte prima del 2021 così, di fatto, ponendo una limitazione temporale alla restituzione di quanto indebitamente versato fino al 2021. Da ciò si deduce che, mentre nel primo caso (imposte addizionali alle accise provinciali), i contribuenti hanno potuto presentare le istanze di rimborso e la giurisprudenza di legittimità ha elaborato una disciplina (seppur criticabile) in relazione alla legittimazione al rimborso, nel secondo caso (IRBA) la legittimazione al rimborso è stata disciplinata dal Legislatore stesso con la Legge di bilancio 2021 che ha, di fatto, inibito le richieste di rimborso per gli anni pregressi al 2021.

  1. Legge di Bilancio 2021 e profili di criticità: la portata applicativa dell’espressione <<Sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte.>> e la questione relativa al rimborso. A tal punto, occorre procedere ad una valutazione fondamentale: dall’esegesi della disposizione della legge di Bilancio 2021, emerge che, nonostante l’abrogazione dell’impianto normativo nazionale e, a cascata, di quello regionale, “sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte”. In altri termini, con la disposizione normativa in commento (ex art. 1, co. 628, cit) il Legislatore ha inteso preservare e circoscrivere nel tempo la legittimità dell’IRBA, prevedendo, che essa dia diritto al rimborso, solo per quelle obbligazioni sorte a partire dal 1° gennaio 2021. Da tanto ne discende che, sebbene con l’abrogazione del tributo si chiude definitivamente la controversia tra Governo e Commissione Ue - ritenendosi così superato il tema della illegittimità del tributo - tuttavia, questa apre uno scenario problematico sull’annosa questione dei rimborsi. Si evidenzia fin da subito che la richiesta di rimborso è esperibile solo se l’Ente non ha notificato alcun atto impositivo, poiché in quest’ultimo caso l’unico rimedio resterebbe l’impugnazione dell’atto. La domanda di restituzione deve essere proposta nei termini di decadenza stabiliti da ciascuna legge d’imposta, oppure, in mancanza, nel termine stabilito dall’art. 21 c. 2 del D.Lgs. 546/1992 che è di due anni. Per quanto qui d’interesse, essendo l’IRBA un tributo regionale, il riferimento al termine di decadenza è quello ordinario, ove il rimborso delle somme versate e non dovute deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di due anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione. Tanto premesso, non può dubitarsi che l’espressione <<sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte.>>, rappresenta certamente una strategia volta a scongiurare le innumerevoli istanze di rimborso di quanto pagato nei due anni pregressi in virtù di norme incompatibili con il diritto Ue nonché gli eventuali contenziosi tributari ad esse connesse. Tuttavia, nonostante la chiara ed espressa volontà del Legislatore di limitare tale impasse, si evidenzia che molti interpreti del diritto ritengono che l’istituzione di tale tributo, e dunque il suo pagamento, resta, ad ogni modo, contrario al diritto eurounionale (ai sensi dell’articolo 1, par. 2, della direttiva Accise 2008/118/Ce) e, pertanto, legittima ex se il diritto al rimborso nei termini ordinari; sulla legittimità di tale procedura sarà competente il giudice nazionale, al quale è attribuita la tutela giurisdizionale dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione, mediante il potere di disapplicazione della norma nazionale. In particolare, giova rammentare che sulla base del c.d. principio del “primato” della normativa comunitaria il giudice nazionale può disapplicare la normativa interna di uno Stato membro aderente alla Comunità Europea quando essa contrasta con il diritto Comunitario derivato. E invero, il diritto dell’Unione gode di una posizione di supremazia rispetto alle norme interne, espressamente desumibile, nell’ordinamento italiano, all'art. 11 ed all'art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò comporta che, in via generale, nessuna norma nazionale può porsi in contrasto con il diritto eurounitario, con la conseguenza che il giudice ordinario che, nel caso concreto, rilevi tale violazione, deve comportarsi in modo tale da risolvere egli stesso tale antinomia. I giudici nazionali, infatti, sono chiamati ad un ruolo vitale per garantire ai cittadini l’effettiva protezione dei diritti individuali attraverso, l’istituto del rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato, cui può (o deve) accompagnarsi l’utilizzo di una serie di strumenti, quali l’interpretazione conforme, la disapplicazione, la sospensione provvisoria della misura nazionale ritenuta incompatibile con il diritto UE prima della decisione della Corte. Si tratta di meccanismi che seppur rappresentano vere e proprie intrusioni nell’autonomia processuale degli Stati membri, tuttavia costituiscono un modo per rendere omogenee le due strade per garantire i diritti dell’ordinamento eurounitario e di quello nazionale . In conclusione, l'esigenza cui la giurisdizione nazionale è chiamata a rispondere si presenta come un'esigenza di effettività, alla quale il giudice risponde tramite strumenti e istituti che promuovono l'integrazione tra gli ordinamenti giuridici interessati che permettono la risoluzione delle possibili antinomie tra sistemi di fonti giuridiche.

  2. Osservazioni conclusive Alla luce delle considerazioni suesposte, nonostante non sia stato esplicitato dal Legislatore il motivo dell’abrogazione dell’imposta IRBA, la ragione della soppressione ben può essere ricondotta al tema del contrasto sorto tra la norma nazionale e il diritto comunitario laddove, secondo la Commissione Ue, non sarebbe ravvisabile alcuna finalità specifica attribuita al gettito derivante dall’IRBA italiana se non quella di mero bilancio generale. Tale finalità generica, si pone in contrasto con il diritto unionale, in quanto non rispetta il dato normativo della direttiva. Ne discende che, sebbene l’abrogazione chiuda definitivamente il contrasto tra l’Unione Europea e l’Italia, ritenendosi così superato il tema della illegittimità del tributo, tuttavia, l’espressione di cui al comma 628 cit. della Legge di bilancio 2021<<(…)sono fatti salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte>>, apre un’ulteriore questione controversa in tema di rimborsi. E invero, a parere di molti operatori del settore e dello Scrivente, la Legge di Bilancio 2021, nonostante l’espressa previsione che fa salvi gli effetti delle obbligazioni tributarie già insorte, si pone, di fatto, in contrasto con la normativa comunitaria in quanto il tributo può ancora sostenersi pagato in virtù di una norma incompatibile con il diritto Ue. Alla luce di quanto chiarito nel precedente paragrafo, considerato che nessuna norma nazionale può porsi in contrasto con il diritto eurounitario, spetta al giudice nazionale assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia, mediante il dovere di disapplicare la norma interna contrastante con quella europea, sia anteriore sia successiva a quest'ultima. Pertanto, in virtù del principio del “primato” della normativa comunitaria, nel caso di un eventuale contrasto tra la normativa nazionale e quella europea, il primo prevale sul secondo. Da ciò ne deriva che, come peraltro correttamente rilevato dalla succitata sentenza della C.T.R. Torino, n. 53/2020, il giudice nazionale deve adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto eurounitario, anche disapplicando le disposizioni contrastanti della legislazione nazionale. Conseguentemente, ove sia impossibilitato a procedere ad un’interpretazione della normativa nazionale conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia delle medesime, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Venendo al controverso caso del rimborso IRBA per gli anni pregressi al 2021, nonostante il limite temporale posto dal Legislatore con la Legge di Bilancio 2021, condivisibilmente molti operatori del diritto ritengono comunque legittima la richiesta di ciò che si assume indebitamente versato nei due anni precedenti, fermo restando che, verosimilmente, la questione sarà oggetto di pronuncia giudiziale. E invero, è piuttosto plausibile che, stante il tenore letterale dell’art. 628 cit,, l’Amministrazione non cederà alle richieste di rimborso, lasciando ai giudici di merito e poi, se del caso, quelli di legittimità, una definizione del contrasto. In ragione di ciò, è di tutta evidenza la necessità di un intervento chiarificatore che possa individuare una strada chiara e univoca, sulla linea, per esempio, di quanto avvenuto in materia di addizionale sull’energia elettrica, ormai pacificamente illegittima e da rimborsare per motivi sovrapponibili a quelli qui esposti. In conclusione, l’incertezza della norma comporterebbe pronunce giurisprudenziali discordanti, riproponendo l’eterna questione della incertezza del diritto e della imprevedibilità dell’esito dei processi in Italia, che può essere riassunta nella massima, formulata in lingua latina, “habent sua sidera lites”. Lecce, 15 marzo 2021 Avv. Maurizio Villani Avv. Antonella Villani