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LAVORO, SUI REQUISITI DELL'APPALTO: I CHIARIMENTI DELLA CASSAZIONE

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Con l’ordinanza n. 1403 del 22 gennaio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di lavoro, affermando che l’esercizio del potere direttivo ed organizzativo dell’appaltatore e l’assunzione da parte sua del rischio di impresa costituiscono i requisiti tipici di un appalto genuino. La Corte territoriale di Messina respingeva l'appello proposto da alcuni lavoratori e, confermando la sentenza di primo grado, non accoglieva la domanda di costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con Trenitalia s.p.a., escludendo la sussistenza di un appalto illecito di manodopera intercorso con Servirail Italia s.r.l. in liquidazione per la fornitura di servizi di accoglienza e di assistenza alla clientela ai treni notte in servizio nazionale ed internazionale. I lavoratori ricorrevano così in Cassazione, davanti alla quale, tra i vari motivi sollevati, lamentavano il fatto che la Corte distrettuale avesse trascurato che nel Capitolato tecnico operativo del contratto di appalto stipulato fra Trenitalia e Servirail Italia s.r.l. erano imposti tempi e modi della prestazione lavorativa con dettagli e puntualità tali da privare l'appaltatore di qualsiasi autonomia direttiva ed organizzativa del servizio appaltato e che l'accordo delle parti, in ordine al contenuto del contratto di appalto, non rivestiva di legittimità il contratto stesso. Inoltre, i ricorrenti eccepivano il fatto che il Giudice d’Appello avesse omesso di considerare che tutti i lavoratori eseguivano solo i compiti e le mansioni previste dal Capitolato tecnico operativo e la società appaltatrice non poteva modificare tempi e modi della prestazione, che il controllo della corretta esecuzione delle mansioni avveniva direttamente da parte di Trenitalia, a cui venivano inviati i dati dei viaggiatori, e che il superiore gerarchico durante il viaggio era il Capo treno. Il Tribunale Supremo rigettava il ricorso, stabilendo che “non costituisce deviazione dallo schema tipico dell'appalto genuino il fatto che siano predeterminate in modo analitico nel contratto di appalto le modalità operative del servizio, specificità certamente funzionale alla corretta esecuzione del servizio oggetto del contratto, a fronte della mancata impartizione, da parte della società appaltante, di direttive sullo svolgimento del servizio se non nei limiti dell'indicazione dei nominativi dei viaggiatori e degli altri dati tecnici relativi alle prenotazioni o dell'esigenza di coordinamento con il capotreno, stante l'esecuzione del servizio all'interno delle carrozze letto dei treni svolgenti servizio notturno”. Gli Ermellini precisavano che, nel caso in esame, il Giudice d’Appello aveva accertato che ricorrevano i due requisiti tipici di un appalto genuino, vale a dire l’esercizio del potere direttivo e organizzativo dell'appaltatore Servirail Italia e l’assunzione del rischio di impresa, ed aveva escluso che Trenitalia esercitasse un intervento direttamente dispositivo di controllo sulle persone dipendenti dall'appaltatore del servizio. Per i Giudici di legittimità, la predeterminazione delle modalità esecutive, dettagliatamente descritte nel capitolato, rispondeva alla necessità di adeguatezza della prestazione lavorativa alle caratteristiche tecniche del particolare servizio, senza però incidere sull'autonomia dell'impresa appaltatrice quanto alla regolazione di turni lavorativi, delle ferie e quant'altro relativo alla gestione del rapporto di lavoro.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULLA RISCOSSIONE DEI CREDITI PREVIDENZIALI: Il PUNTO DELLA CASSAZIONE

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Nel caso in esame il Giudice di prime cure aveva dichiarato prescritti per decorso del termine quinquennale i contributi previdenziali portati da una cartella di pagamento propedeutica a fermo amministrativo cui si era opposto il signor C.S. La Corte territoriale, accogliendo solo parzialmente l'impugnazione proposta da Equitalia Sud s.p.a. contro la sentenza di primo grado, rigettava il motivo d'appello principale proposto dalla stessa società, relativo all'applicazione del termine decennale di prescrizione ai crediti contributivi richiesti con la cartella non opposta ed accoglieva il motivo dell'appello relativo alla compensazione delle spese del giudizio di primo grado. La Corte d’Appello rilevava la prescrizione dei crediti intervenuta a seguito della notifica delle cartelle sottese all’intimazione. A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale Equitalia Sud s.p.a. lamentava la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2953 e dell' art. 2946 c.c., dal momento che il Giudice d’Appello aveva considerato applicabile ai fini del computo del termine prescrizionale del credito contributivo il termine quinquennale di cui alla L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10, senza prendere in considerazione l'effetto novativo conseguente alla notifica delle cartelle di pagamento che determinerebbe l'applicabilità del termine decennale previsto per l'actio iudicati. Ritenendo la censura infondata, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso. In Particolare affermava che “La scadenza del termine - pacificamente perentorio - per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. "conversione" del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell'art. 2953 c.c.” (vedasi anche Sez. U. n. 23397 del 17/11/2016). Inoltre, “in tema di riscossione di crediti previdenziali, il subentro dell'Agenzia delle Entrate quale nuovo concessionario non determina il mutamento della natura del credito, che resta assoggettato per legge ad una disciplina specifica anche quanto al regime prescrizionale, caratterizzato dal principio di ordine pubblico dell'irrinunciabilità della prescrizione”. Pertanto, qualora manchi un titolo giudiziale definitivo che possa accertare con valore di giudicato l'esistenza del credito, si applica, anche nei confronti del soggetto titolare del potere di riscossione, la speciale disciplina della prescrizione prevista dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, piuttosto che la norma generale sussidiaria di cui all'art. 2946 c.c.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È NULLO IL LICENZIAMENTO EFFETTUATO IN FRODE ALLA LEGGE

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Con la sentenza n. 29007 del 17 dicembre 2020 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di licenziamento. Più precisamente, ha affermato che è disposta la nullità del licenziamento in tutti i casi in cui il lavoratore, reintegrato dopo un precedente licenziamento illegittimo, viene di nuovo espulso dal datore di lavoro. Nel caso in esame, una società era stata condannata a reintegrare un proprio dipendente in seguito all'accertata illegittimità di un precedente licenziamento, disponendo la reintegra del lavoratore non presso il negozio ove questi era precedentemente occupato, ma adducendo intervenuti cambiamenti strutturali e commerciali nell'originaria sede di lavoro, presso un diverso punto vendita sito in altra regione. Tuttavia, a soli cinque giorni dal trasferimento, la società operava una consistente riduzione del personale proprio presso il punto vendita di nuova adibizione del dipendente appena reintegrato, il quale era stato nuovamente licenziato. La vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale la società ricorrente eccepiva l'annullamento del secondo licenziamento, non soltanto per la violazione del proprio ius variandi nell'organizzazione aziendale, ma anche perché il dipendente non aveva prima impugnato il trasferimento. Secondo il Tribunale Supremo, il trasferimento, contestato dal lavoratore come parte del comportamento fraudolento dell'azienda, non necessitava di autonoma impugnazione, ma era fonte di prova dell'illecito datoriale. Inoltre, poiché non rinvenivano alcuna autonoma necessità d'impugnazione del singolo atto costitutivo della complessa fattispecie frodatoria, considerato lo stretto legame logico-giuridico intercorrente tra i due provvedimenti, i Giudici di legittimità chiarivano l'irrilevanza della mancata impugnazione del trasferimento da parte del lavoratore. In sostanza, l'avere impugnato l'atto finale della condotta illecita assunta dal datore di lavoro in maniera tempestiva , esonerava il lavoratore dalla necessità di contestare la legittimità del provvedimento emanato dalla società nell'esercizio dello ius variandi. Inoltre, gli Ermellini affermavano che, la Corte distrettuale aveva bene lumeggiato il meccanismo fraudolento (perché articolato in una serie di condotte nella loro atomistica essenza, apparentemente lecite) posto in essere dalla società, che ha condotto alla definitiva espulsione del lavoratore, dall'assetto organizzativo aziendale. In virtù dei suddetti principi, la Suprema Corte rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


INSUBORDINAZIONE E LICENZIAMENTO: I CHIARIMENTI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 13411/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sul concetto di insubordinazione, posta in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro e, dunque, al di fuori dei locali aziendali. La quaestio ha origine dal licenziamento disciplinare che una società aveva inflitto ad un proprio dipendente, il quale, da un lato, aveva adottato una condotta di insubordinazione e, dall’altro, la violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega. Il lavoratore si era opposto al licenziamento lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in relazione al fatto che non sussisteva un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata. Inoltre, questi sosteneva che non sussisteva neppure un’infrazione disciplinare, dal momento che il diverbio era avvenuto a giornata lavorativa ormai conclusa. Le motivazioni del prestatore, però, non hanno trovato accoglimento in sede di secondo grado di giudizio. I giudici di merito, infatti, avevano sottolineato che il rapporto gerarchico si ha nel caso in cui vi sia una “sovraordinazione”, non solo nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma pure in un contesto più particolare, che, nel caso di specie, era quello proprio del settore amministrativo di cui la collega era responsabile. Oltretutto, la questione che il diverbio fosse avvenuto fuori dell’orario di lavoro non escludeva la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, a maggior ragione se esso aveva avuto ad oggetto obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi aziendali. Anche la Suprema Corte di Cassazione è giunta alla stessa conclusione. Secondo i Giudici di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, in quanto detto termine “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”. Nel caso in esame, gli Ermellini hanno osservato che la fattispecie integrava la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.). Pertanto, il licenziamento è comminato al lavoratore che commette gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro. La minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso e corrispondeva a quella di voler chiedere “conto” della condotta della responsabilità amministrativa fuori dall’azienda. Dunque, la serietà della minaccia, per come intesa dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore. A questi elementi occorre poi aggiungere, come evidenziato nella sentenza, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, attraverso un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità. In virtù dei suddetti presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


PERMESSI LEGGE 104: C’È ABUSO SOLO QUANDO NON SUSSISTE IL NESSO FRA L’ASSENZA DAL LAVORO E L’ASSISTENZA AL DISABILE

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I permessi previsti ai sensi dell’art. 33 della legge 104 possono essere riconosciuti ad un lavoratore per assistere un familiare disabile. I benefici che spettano ai destinatari della legge 104, vale a dire gli aiuti concessi sia ai disabili che ai loro familiari, sono numerosi e operano in campi diversi. Il comportamento del dipendente che si avvale di questi benefici per attendere ad esigenze diverse dalla cura del disabile integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Inps, con rilevanza anche ai fini disciplinari. Ciò vuol dire che il dipendente che usufruisce tutto il giorno di permesso per fini personali non soltanto può essere licenziato, ma anche denunciato per indebita percezione di contributi statali. Difatti, la paga dei giorni di permesso viene sì versata dall’azienda, ma trattasi soltanto di una anticipazione su una somma che, di fatto, viene poi erogata dall’Inps attraverso compensazione sui contributi da versare all’ente di previdenza. L’azienda può sottoporre a controlli segreti il dipendente assente per i permessi della legge 104, facendolo pedinare dai detective privati. Secondo la Suprema Corte, il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, dei permessi della legge 104 può avvenire liberamente in quanto non si tratta di un accertamento sull’adempimento della prestazione lavorativa (vietato dallo statuto dei lavoratori); detto controllo viene infatti effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non è precluso (Cass., sent. n. 4984/2014). La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12032/2020, si è pronunciata relativamente ai casi in cui ci si trovi di fronte all’abuso o all’uso improprio di questi permessi. La quaestio era sorta quando, all’esito di entrambi i gradi del giudizio di merito, era stata ritenuta insufficiente la prova fornita dal datore di lavoro riguardo alla supposta fruizione abusiva dei permessi ex art. 33 della legge 104 da parte di una dipendente. Conseguentemente, l’azienda aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, ma i Giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte territoriale, nel dar conto della giurisprudenza di legittimità, la quale richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione, oltre che in presenza di un nesso causale con l’attività di assistenza, abbia applicato correttamente le regole di giudizio che presiedono detta materia, escludendo il difetto di buona fede e di disvalore sociale strettamente legato all’abusivo esercizio del permesso da legge 104, considerato il fatto che, a suo parere, la dipendente non aveva approfittato del permesso per esercitare delle attività rispondenti ad un proprio esclusivo interesse. Più precisamente, gli Ermellini hanno affermato che “soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente”. L’abuso dei permessi della legge 104 configura reato ed è fonte di responsabilità penale: infatti, integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico (l’Inps), un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale. Ciò significa che chiunque può sporgere querela: il datore di lavoro, l’Inps, il collega che abbia visto il lavoratore durante i permessi impegnato in altre attività, ecc. Dunque, l’abuso dei permessi della legge 104 implica le seguenti sanzioni: • licenziamento per giusta causa senza preavviso (cioè in tronco); • responsabilità penale per il reato di indebita percezione di indennità statali con reclusione da sei mesi a tre anni. Se però la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 viene applicata solo la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da euro 5.164 a euro 25.822.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'