Con l’ordinanza n. 2659 del 28 gennaio 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro in ordine agli appalti cosiddetti endoaziendali.
Nella vicenda in esame, la Corte d'Appello confermava la pronuncia del Tribunale con cui era stata rigettata la domanda di Tizio, dipendente della società Alfa, con cui veniva richiesto il riconoscimento della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze di Trenitalia spa, sul presupposto dell'esistenza di un’interposizione fittizia di manodopera; i giudici di merito ritenevano non raggiunta la prova di tale interposizione.
Per la cassazione di detta sentenza, Tizio proponeva ricorso, sollevando due motivi:
• con il primo motivo, il ricorrente lamentava la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., dell'art. 1, legge n. 1369 del 1960; degli artt. 29 e degli artt. da 20 a 28 del d.lgs. n. 276 del 2003; in particolare, Tizio asseriva che la Corte territoriale non aveva dato rilievo alla ingerenza della committente nell'organizzazione della prestazione lavorativa dei dipendenti della società Alfa, né al rischio di impresa posto esclusivamente a carico di Trenitalia, omettendo in tal modo di sussumere la fattispecie concreta in quella astratta di cui agli artt. 29 e 27, d.lgs. n. 276 del 2003;
• con il secondo motivo il dipendente denunciava, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., l'omesso esame “delle istanze istruttorie formulate in ricorso”.
Gli Ermellini, poiché ritenevano le censure infondate, rigettavano il ricorso.
In particolare, i giudici di legittimità stabilivano che “il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Poiché il datore di lavoro ha potere di controllo sul lavoratore anche quando quest’ultimo sia in congedo per malattia, lo stesso è tenuto a comunicare al suo superiore le eventuali variazioni dell’indirizzo di reperibilità.
Ciò è quanto ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 36729 del 25 novembre 2021.
Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dalla società Alfa a Tizio, e condannava la società datrice al pagamento, in favore del lavoratore, di un'indennità risarcitoria liquidata in misura di 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori. In parziale accoglimento del reclamo principale della società e rigetto dell'incidentale del lavoratore, la Corte distrettuale riformava così la sentenza di primo grado, che aveva invece annullato il licenziamento ai sensi dell'art. 18, quarto comma I. 300/1970, condannato la società a reintegrare Tizio nel posto di lavoro e a pagargli un'indennità risarcitoria in misura di 12 mensilità, con detrazione del T.f.r. corrisposto: così accogliendo parzialmente l'opposizione del lavoratore e rigettando quella datoriale avverso l'ordinanza dello stesso Tribunale, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, poiché sproporzionato, ai sensi dell'art. 18, quinto comma I. 300/1970, risolto il rapporto di lavoro e condannato la società al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura di 12 mensilità.
Secondo la Corte territoriale, la comunicazione del lavoratore, in congedo per malattia, della variazione del proprio indirizzo di reperibilità soltanto all'Inps e non anche (dopo quella iniziale) al datore di lavoro, integrava violazione dell'art. 224 CCNL di settore applicabile, dovendosi intendere in un'accezione atecnica il termine “domicilio” (oggetto di comunicazione nel relativo mutamento), sanzionata disciplinarmente dall'art. 225 CCNL. E ciò per la sua autonoma rilevanza, poiché rispondente alla finalità di consentire al datore di lavoro il pieno esercizio del potere di controllo (anche in periodo di congedo del lavoratore per malattia), qualificabile in termini di obbligo, rispetto alla diversa finalità della comunicazione all'Inps, competente all'esecuzione concreta del controllo, in funzione della fruizione dal lavoratore dell'indennità di malattia, qualificabile piuttosto come onere.
A questo punto, il lavoratore si rivolgeva alla Cassazione, che, accogliendo solo parzialmente il ricorso di Tizio, stabiliva che “L'assenza per malattia comporta una sospensione dell'attuazione del rapporto di lavoro sotto il profilo della prestazione, permanendo peraltro il regime di subordinazione e pertanto il potere direttivo e di controllo datoriale, sia pure modulato sull'effettiva consistenza del rapporto: in particolare, ben potendo il datore medesimo procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e quindi a giustificare l'assenza, in difetto di una preclusione comportata dall'art. 5 I. 300/1970, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore”. Pertanto, nel rispetto del rapporto di subordinazione, sussiste un obbligo di reperibilità del lavoratore anche nel periodo di malattia, quale espressione del suo obbligo di cooperazione nell'impresa ai sensi dell'art. 220 CCNL Commercio.
Inoltre, il Tribunale Supremo precisava che “Anche durante il periodo di congedo per malattia, il lavoratore è tenuto all'obbligo di reperibilità e pertanto a comunicare la variazione del relativo indirizzo al datore di lavoro, permanendo il regime di subordinazione. Sicché, laddove il CCNL applicabile (nel caso di specie: art. 224 CCNL Commercio) preveda per tale violazione una sanzione conservativa (la multa), deve essergli applicata in casi di licenziamento la tutela reintegratoria stabilita dall'art. 18, quarto comma, come novellato dalla legge n. 92/2012”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23529/2021, ha stabilito che in tema di danno differenziale, l’importo della rendita INAIL deve essere scomputato dal giudice d’ufficio.
Nel caso in esame, la Corte d’Appello confermava la condanna di una società datoriale al risarcimento del danno differenziale in favore di un lavoratore ed in ordine all'infortunio al medesimo occorso, nella misura del 25%, essendo stata attribuita al dipendente la responsabilità nella causazione dell'incidente in misura pari al 75%.
Il lavoratore era stato incaricato da un collega di provvedere alla imbragatura di alcuni travetti con le fascette auto stringenti; il collega, nonostante fosse sprovvisto di patentino, si era messo alla guida della gru e, al momento di sollevare il terzo carico, questo si era staccato andando a colpire alla spalla la parte offesa, rimasta nel raggio di azione della gru, procurandogli danni permanenti; la caduta della trave si era verificata sia a causa di una non corretta legatura del carico, eseguita dallo stesso danneggiato, il quale aveva ricevuto adeguata formazione come gruista, sia, come accertato nel processo penale, in quanto le travi erano bagnate per la neve caduta qualche giorno prima.
Il giudice di merito specificava che il 25% fosse imputabile ad una carenza nell’organizzazione del cantiere che aveva portato il collega ad operare come gruista, benché inesperto; il 75% era invece addebitabile al dipendente, per la negligente esecuzione della prestazione. Pertanto, veniva confermata la liquidazione del danno come operata dal Tribunale, con la previsione di sottrarre quanto versato dall’INAIL a titolo di danno biologico.
Poiché la vicenda giungeva in Cassazione, quest’ultima, nel dichiarare inammissibile il ricorso, affermava che “in tema di danno cd. differenziale, il giudice di merito deve procedere d'ufficio allo scomputo, dall'ammontare liquidato a detto titolo, dell'importo della rendita INAIL, anche se l'istituto assicuratore non abbia, in concreto, provveduto all'indennizzo, trattandosi di questione attinente agli elementi costitutivi della domanda, in quanto l'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965, ai commi 6, 7 e 8, fa riferimento a rendita "liquidata a norma", implicando, quindi, la sola liquidazione, un'operazione contabile astratta, che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Diversamente opinando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare, né a lui, perché, anche in caso di responsabilità penale, il risarcimento gli sarebbe dovuto solo per l'eccedenza, né all'INAIL, che può agire in regresso solo per le somme versate; inoltre, la mancata liquidazione dell'indennizzo potrebbe essere dovuta all'inerzia del lavoratore, che non abbia denunciato l'infortunio, o la malattia, o abbia lasciato prescrivere l'azione”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Non si configura il reato di omessa risposta alle richieste di informazioni dell'ispettorato del lavoro, ex art. 4 L. 628/1961, qualora il datore di lavoro, al quale sia stata genericamente richiesta la trasmissione della documentazione di lavoro, non fornisca notizie all’organo ispettivo.
Ciò è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 46032 del 16 dicembre 2021.
Nella vicenda in esame, un datore di lavoro veniva assolto dal Tribunale sulla base dell’articolo 131-bis del Codice penale per particolare tenuità del fatto; tuttavia, il Tribunale riconosceva la violazione del citato articolo 4, dal momento che il datore non aveva ottemperato, quale legale responsabile, alla richiesta dell’Ispettorato del lavoro, con verbale di primo accesso, di fornire notizie in materia di personale occupato, tutela del rapporto di lavoro e legislazione sociale.
La Suprema Corte annullava la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto sussistente il reato di omessa risposta alle richieste di informazioni dell'ispettorato del lavoro.
In particolare, gli Ermellini sottolineavano che la condotta del datore risulta penalmente rilevante principalmente nel caso in cui la mancata risposta all’ispettorato del lavoro riguardi richieste di informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell’agenzia.
Altresì, secondo i giudici di legittimità, il reato in questione si configura anche nell’ipotesi di omessa esibizione di documenti richiesti dall’Ispettorato nell'esercizio dei compiti di vigilanza, come pure nel caso di richiesta di informazioni avvenuta nel contesto delle indagini di polizia amministrativa.
In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso dell’imputato, prosciogliendolo dall’accusa che gli era stata mossa.
Difatti, per la Suprema Corte “è penalmente sanzionata solo la mancata risposta a richieste di informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell’ispettorato medesimo”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Nel caso in cui la pensione di anzianità venga riconosciuta in ritardo dall’Inps, il pensionato ha diritto al risarcimento del danno che ne deriva; inoltre, dal momento che si tratta di un danno risarcibile in re ipsa, il pensionato è tenuto a provare che lo stesso consegua al ritardato riconoscimento della pensione.
Ciò è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 4886/2020.
Nella vicenda in esame, la Corte territoriale, riformando la sentenza del giudice di prime cure, stabiliva che doveva essere disattesa l’eccezione dell’INPS di inammissibilità e improcedibilità della domanda di pensione di anzianità di un lavoratore, sia per mancata presentazione della domanda amministrativa, sia per mancato esperimento dell’iter amministrativo di pensione. Ciò in quanto quella avanzata in primo grado, piuttosto che una domanda di accertamento del diritto alla prestazione di previdenza obbligatoria, era una domanda di condanna dell’Inps al risarcimento del danno causato dalla colpevole condotta dell’ente per il mancato riconoscimento del diritto alla rivalutazione pensionistica.
Altresì, secondo la Corte d’Appello, al lavoratore non poteva essere riconosciuto alcun danno patrimoniale, poiché lo stesso aveva continuato a lavorare fino a tutto l’anno 2009 e in quanto il danno in questione non costituiva la conseguenza automatica di un comportamento illegittimo, ragion per cui il ricorrente, oltre ad allegare la condotta colposa, avrebbe dovuto anche provare il danno ed il nesso di causalità con l’inadempimento.
A questo punto, il lavoratore si rivolgeva alla Cassazione, che, però, rigettava il ricorso.
Il Tribunale Supremo precisava in particolare che, nell’ipotesi in cui il lavoratore, a causa dell’illegittimo diniego della domanda di pensionamento, sia costretto a protrarre la propria attività lavorativa, si può configurare un danno non patrimoniale risarcibile, determinato dalle ripercussioni di segno negativo, che conseguono alla condotta dell’ente previdenziale che ha causato la lesione di specifici interessi costituzionalmente protetti.
Il lavoratore è tenuto, però, a dimostrare, oltre alla colpa dell’INPS, che il ritardato pensionamento ha determinato un danno. Difatti, non può configurarsi un danno risarcibile in re ipsa in ragione degli imprescindibili oneri di allegazione e di prova che gravano sulla persona che vanti una pretesa risarcitoria.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'