Posts in category “Diritto del Lavoro”

LA MALATTIA CONSEGUENTE AL MOBBING È MALATTIA PROFESSIONALE

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Con l’ordinanza n. 8948/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che la malattia che deriva da mobbing rientra nell’alveo di quelle che sono le malattie professionali. Nel caso in esame, un lavoratore, subendo in maniera continua atti mobbizzanti da parte del datore di lavoro, veniva colpito da uno stato di malattia che asseriva rientrante nel novero delle malattie professionali. La Corte d’Appello respingeva la domanda del dipendente, ritenendo la malattia di quest’ultimo una patologia psicofisica non rientrante nelle tabelle, dunque non indennizzabile. Difatti, secondo la Corte territoriale, le malattie non derivanti direttamente dalle lavorazioni elencate nell’art. 1 del Dpr. n. 1124/1965, non possono essere indennizzate secondo le previste tabelle INAIL, pertanto non può essere indennizzato il danno da “costrittività organizzativa” come il mobbing. A questo punto, il lavoratore si rivolgeva alla Cassazione, asserendo che: • la “costrittività organizzativa” fosse, in realtà, indennizzabile ai sensi del DPR n. 1124/1965, sebbene non tabellata, poiché rischio specifico improprio comunque tutelato; • con il D.M. 11 dicembre 2009 è stata approvata una nuova tabella contenente espressamente le disfunzioni della organizzazione del lavoro, ossia la cosiddetta costrittività organizzativa, nella lista due; • la Corte d’Appello aveva omesso un fatto decisivo nella controversia, vale a dire le ragioni per le quali aveva subito dal 2005 una sottrazione di compiti da parte del presidente della cooperativa, costringendolo ad un’attività forzata. Il Tribunale Supremo, accogliendo il ricorso del lavoratore, stabiliva che ogni forma di malattia, causata dall’attività lavorativa, va considerata indennizzabile dall’INAIL, anche se non compresa nelle tabelle, a condizione che il lavoratore dimostri il nesso di causalità fra il lavoro svolto e la causa dannosa-invalidante (nel caso di specie, l’effetto del mobbing). Secondo i giudici di legittimità, alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale illustrata nell’ambito del sistema del T.U., è indennizzabile qualunque malattia di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


COSTITUISCE DISCRIMINAZIONE IL MANCATO RINNOVO DEL CONTRATTO A CAUSA DELL’ORIENTAMENTO SESSUALE DEL LAVORATORE

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È discriminatorio non rinnovare il contratto a causa dell’orientamento sessuale del lavoratore. Ciò è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31071 del 2 novembre 2021. Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello, in parziale riforma dell’ordinanza resa dal Tribunale nell'ambito di un procedimento, ex art. 4 del D.Lgs. 216/2003, promosso su ricorso di Tizia, della CGIL e dell’associazione Alfa nei confronti dell’istituto religioso Beta, accertava la natura discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva, della condotta posta in essere dal predetto istituto in relazione alla selezione per l'assunzione degli insegnanti; ordinava, dunque, allo stesso istituto l'immediata cessazione di tale condotta e lo condannava al pagamento in favore di Tizia di Euro 13.329,00 a titolo di danno patrimoniale ed Euro 30.000,00 a titolo di danno morale, nonché al pagamento in favore dell'associazione e della CGIL, a titolo di risarcimento del danno, di Euro 10.000,00 ciascuna. Per la cassazione di detta sentenza proponeva ricorso la parte soccombente con cinque motivi, mentre resistevano con unico controricorso gli intimati. Il Tribunale Supremo, confermando quanto statuito dal giudice di merito, osservava in via preliminare che non può essere invocata, neppure dalle organizzazioni religiose e di tendenza, la libertà organizzativa per prendere decisioni apertamente discriminatorie. Difatti, per gli Ermellini, il diritto antidiscriminatorio non può declinarsi tenendo conto della necessità di assicurare la libertà di organizzazione dell’ente religioso, ed anche in un ipotetico bilanciamento di interessi, l’esercizio di nessuna libertà può giustificare la lesione di diritti fondamentali e inviolabili della persona. In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


LICENZIAMENTO DISCIPLINARE SPROPORZIONATO E RISARCIMENTO

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Con la sentenza n. 34422 del 15 novembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che per valutare la proporzionalità della massima sanzione disciplinare ovvero il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, non bisogna attenersi esclusivamente alle specificazioni del CCNL applicabile, ma il giudice è tenuto a rifarsi ai principi dettati dalle norme, analizzando in concreto il comportamento del lavoratore per poi stabilire se è giusto applicare o meno l'indennità risarcitoria prevista per il dipendente in luogo della reintegra nel posto di lavoro, prevista dall'art. 18 comma 5 legge 300/1970 come modificata. Nella vicenda in esame, un’operaia era stata licenziata dalla società cooperativa di servizi presso cui lavorava per essere stata sorpresa dal suo referente di cantiere mentre nell’orario di lavoro dormiva all'interno della sua macchina parcheggiata all'interno del cortile aziendale dove era assolutamente vietato il transito per motivi di sicurezza. La lavoratrice era inquadrata come dipendente operaia di II livello del CCNL imprese di pulizia e servizi integrativi/multiservizi e con mansioni di portiera "ai sensi e per gli effetti dell'art. 48 lett. A comma d) del CCNL di categoria in adozione". Mentre il giudice di prime cure rigettava l'istanza di impugnazione della lavoratrice, il giudice di merito accoglieva il reclamo e dichiarava risolto il rapporto di lavoro condannando però il datore di lavoro al pagamento, in favore della lavoratrice, di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione a norma dell'art .18 comma 5 legge n. 300/1970. La Corte territoriale rilevava che, nonostante il fatto disciplinare contestato fosse sussistente e la condotta fosse connotata dai requisiti di coscienza e volontarietà, tuttavia non vi era proporzione tra fatto e sanzione. A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, che rigettava il ricorso della società. I giudici di legittimità osservavano che la Corte d’Appello si era attenuta al principio secondo il quale “In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nella attività valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, anche se la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento”. Per il Tribunale Supremo, il giudice, piuttosto che limitarsi a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile ad una previsione contrattuale, deve valutare in concreto la condotta e, dunque, la proporzionalità della sanzione. Inoltre, la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo, poiché causali del recesso datoriale, altro non sono che “mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


I LAVORATORI CESSATI DAL SERVIZIO HANNO DIRITTO AGLI AUMENTI CONTRATTUALI RETROATTIVI?

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Per escludere l'applicabilità degli effetti retroattivi del nuovo contratto collettivo ai lavoratori cessati dal servizio prima della data di conclusione dello stesso, occorre che le parti sociali limitino tali benefici esclusivamente ai dipendenti ancora in organico. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29906 del 25 ottobre 2021. Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello respingeva l’opposizione proposta da un’azienda nei confronti del decreto ingiuntivo, con cui era stato intimato il pagamento, a favore del dirigente, delle differenze retributive maturate dall’1 gennaio 2002 al 31 dicembre 2005, per effetto dell'applicazione degli aumenti contrattuali previsti, per detto quadriennio, dal CCNL sottoscritto il 14 giugno 2007. Il giudice di merito stabiliva che, laddove contenga clausole migliorative ad efficacia retroattiva, il CCNL è applicabile indistintamente a tutto il personale in servizio nel periodo di riferimento, sebbene non più in organico alla data di sottoscrizione del nuovo contratto. A questo punto, la società si rivolgeva alla Cassazione, che confermava quanto statuito dalla Corte territoriale. Secondo gli Ermellini, “Il lavoratore, che sia iscritto ad una associazione sindacale e così abbia dato mandato alla stessa per la stipulazione di un nuovo contratto collettivo, ha diritto all’applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto, anche se lo stesso sia stipulato successivamente alla data in cui il suo rapporto di lavoro è terminato, qualora le parti contraenti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva al nuovo contratto senza alcuna distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data di stipulazione”. Per la Suprema Corte, è, infatti, necessario che le parti sociali, nell'esercizio della loro autonomia collettiva, prevedano espressamente che determinati aumenti della retribuzione, riconosciuti con effetto retroattivo, spettino soltanto ai lavoratori in organico alla data del rinnovo, e non anche ai lavoratori cessati dal servizio. In virtù del suddetto principio di diritto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso dell’azienda.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


RETRIBUZIONE PER LAVORO STRAORDINARIO E CALCOLO DEL TFR

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33278 del 10 novembre 2021, ha stabilito che per il calcolo del trattamento di fine rapporto devono essere computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, comprese le somme versate a titolo di compenso per lavoro straordinario. Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello aveva condannato un’Amministrazione a rideterminare in favore di alcuni dipendenti quanto dovuto a titolo di TFR computando anche gli importi corrisposti a titolo di straordinari. A questo punto, l’Amministrazione datrice di lavoro si rivolgeva alla Suprema Corte, asserendo che i compensi corrisposti per lavoro straordinario sarebbero dovuti essere stati considerati ai fini del computo del TFR soltanto se corrisposti in via continuativa così denotando la volontà delle parti di ampliare il normale orario di lavoro. Il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava l’Amministrazione ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità. Gli Ermellini specificavano che “è errata l’impostazione del ricorso per cassazione allorquando con esso si sostiene che, a fronte della continuatività dell’erogazione di determinati emolumenti, si dovrebbero svolgere indagini ulteriori al fine di accertarne la computabilità ai fini del t.f.r.”; difatti, “limitando l'attenzione alle erogazioni di tipo retributivo, cui certamente si riportano lo straordinario e i premi di produttività, l'art. 2120, co.2, c.c. esprime una regola diversa e tale per cui «salvo diversa previsione dei contratti collettivi», sono da considerare «tutte le somme ... corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di guanto erogato a titolo di rimborso spese»”. Pertanto, la regola è l'onnicomprensività per le somme a titolo retributivo corrisposte continuativamente e non viceversa. Secondo i giudici di legittimità, nel caso in esame, la Corte territoriale si era ben attenuta a tale regola.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'