La Concattedrale Gran Madre di Dio giunge al suo 50° anniversario, tormentato progetto di Giò Ponti e fortemente voluta dall’arcivescovo Motolese. Si ridona per l’occasione nuova vita all’edificio e riemergono idee ed ambizioni dei suoi due fautori attraverso la mostra: “Gio Ponti e la Concattedrale di Taranto 1970 – 2020; “Il sogno di una città, il sogno dei suoi cittadini e il sogno di Guglielmo e di Giovanni”.
La Cattedrale si colloca in una posizione strategica quale naturale punto di fuga di Via Dante all’intersezione con il Viale Magna Grecia. La particolarità dell’edificio sta in primis nel bacino d’acqua tripartito antistante in cui la stessa architettura va a riflettersi raddoppiando se stessa, quasi entrando in una dimensione astratta. Una nave, nell’idea dell’architetto, che a vele spiegate si specchia nel Mar Ionio. Altra particolarità è la doppia facciata che va a discretizzarsi, una intelaiatura che pur mantenendo la sua matericità si lascia attraversare dal vento.
“Ho pensato: due facciate. Una, la minore, salendo la scalinata, con le porte per accedere alla chiesa. L’altra, la maggiore, accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata per l’aria, con ottanta finestre aperte sull’immenso, che è la dimensione del mistero… Altrimenti dove si dovrebbero sedere gli angeli?”. Gio Ponti
Dunque, la facciata in primissimo piano è larga 14 metri ed alta 26 metri, si alternano aperture longilinee che si affacciano sull’interno o lasciano trapassare lo sguardo, in posizione assiale vi è una balconata. La facciata in secondo piano si staglia verso l’alto per circa 40 metri, le 80 finestre esagonali e quadrangolari definiscono il monogramma della Grande Madre di Dio al centro, in sommità le due facciate sono entrambe coronate dalle tre croci in ferro. Il sistema di apertura ha un risvolto funzionale, di fatto le aperture laterali non permettono alla luce diretta di entrare nella navata superiore, garantendo un’illuminazione diffusa nell’ambiente.
Il forte verticalismo dell’architettura ha l’obiettivo di definire e trasmettere un messaggio immediato e trasparente ovvero mostrare il punto focale dell’organismo architettonico, al pari delle cupole che si innestano all’incrocio tra la navata e il transetto. La Concattedrale presenta un impianto planimetrico a navata unica centrale con due deambulacri laterali dove trovano posto la cappella del SS. Sacramento, della Madonna con il Mantello, il Battistero e la Cappella del Marinaio. Gli arredi interni (panche, altari, fonte battesimale ecc.) sono invece frutto della malleabilità dell’architetto Ponti, e della sua capacità di muoversi dall’ampia scala dell’organismo architettonico alla scala del dettaglio.
Nel discorso inaugurale del 6 dicembre del 1970 Ponti così parlava di quella che fu una delle sue ultime opere:
“Perché vi dico che la Cattedrale non è in oggi finita, essa comincia oggi e che si stacca da me; da oggi la sua presenza nella città sarà opera vostra se fede e fedeltà opereranno per renderla finalmente più bella; tutto comincia ogni giorno, ricomincia ogni giorno, rivive ogni giorno, è miracolo d’ogni giorno.”
La mostra presso il Museo Diocesano di Taranto già rinviata a causa del Covid, sarà aperta fino al 26 settembre e nasce dall’intento comune di Arcidiocesi di Taranto, dell’ex Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Brindisi, Lecce e Taranto e del Dipartimento di Scienza dell’Ingegneria e dell’Architettura del Politenico di Bari, dove la Cattedrale è stata oggetto di una tesi di laurea. Le cinque sezioni del percorso espositivo esplorano tutto il processo creativo dell’architetto che produsse numerose versioni del progetto in 7 anni, presentato attraverso schizzi, disegni d’archivio e supporti multimediali.
Il grande compito di Ponti di architettare una visione è l’esito anche delle intuizioni del Mons. Guglielmo Motolese che comprese la necessità della periferia tarantina di non perdere l’unità urbana e spirituale di una città in espansione.
La Concattedrale si riscopre nel suo 50° anniversario quale punta di diamante della città, grazie alla sensibilità di chi ne ha sollecitato la valorizzazione, sottraendola ad uno stato di degrado lontano dalle aspirazioni dei suoi artefici.
La mostra sarà aperta fino al 22 agosto 2021, nasce da un’idea di Livia e Silvia Aymonino. Il curatore Manuel Orazi attraverso progetti, schizzi, foto d’archivio ed interviste pone l’attenzione anche sull’uomo che c’era dietro il grande architetto Aymonino.
La mostra monografica su Aymonino (1926-2010) è ospitata presso la Triennale di Milano insieme a quella di altri due grandi designer Enzo Mari e Vico Magistretti, tuttavia la figura di Aymonino sembra passare spesso in secondo piano rispetto ai grandi del Novecento. Manuel Orazi tenta dunque di accendere nuovamente i riflettori su questo architetto viaggiando su due linee parallele: la vita privata e quella lavorativa.
Ne emerge una figura complessa che si dedica alla pittura così come alla politica, all’editoria così come all’insegnamento, come afferma lo stesso curatore Orazi:
“Gli architetti, che lavorano all’incrocio di diverse discipline, sono inevitabilmente poliedrici e lo sono stati ancora di più nella seconda metà del ‘900. Aymonino non fa eccezione, ma ha un elemento di unicità, legato alle sue geografie biografiche e professionali.”
Aymonino è di Roma ma il suo operato si sposta allo IUAV di Venezia nel 1963, poi a Milano realizza tra il 1967 e il 1972 il complesso Monte Amiata al Quartiere Gallaratese, per poi spostarsi in tutta Italia superando le resistenze regionali dell’epoca. Il Gallatarese è il progetto più famoso ed anche il più importante di Aymonino se consideriamo le parole del curatore Orazi: “Un progetto come il Gallaratese di Milano è la traduzione costruita del confronto e scambio proficuo tra saperi, discipline e personalità diverse. Non si tratta solo del tradizionale affiancamento di teoria e prassi, ma della capacità di articolare in maniera organica riflessione storico-critica e teorica ed esperienza sul campo.”
Il titolo della mostra rende onore proprio a questa sua poliedricità e straordinaria capacità di destreggiarsi tra ambiti diversi tra loro, senza focalizzarsi in schemi prefissati ma distaccandosene di volta in volta come dei piccoli tradimenti.
Il soggetto principale dell’allestimento a cura di Federica Parolini sono i suoi disegni, in grande formato, che, come dei “pop-up”, saltano fuori dando vita agli schizzi del grande architetto, trasportando il visitatore in una onirica Wunderkammer. I caratteristici quadernetti rossi che utilizzava per disegnare, appuntare aneddoti aiutano a comprendere meglio la sua vita quotidiana. Il rapporto con le diverse città che lo hanno accolto viene narrato in senso cronologico Roma, Matera, Venezia, Milano, Pesaro. Ogni città ha contribuito ad influenzare l’architetto, in uno scambio reciproco fondamentale in periodi come quello del dopoguerra, periodo in cui egli si impegnò particolarmente nella ricostruzione delle periferie.
L’obiettivo della mostra è quello di portare la figura di Aymonino alla conoscenza dei “non addetti ai lavori”, di marcare l’attualità della sua personalità, e di superare quell’oblio, che a causa di oscillazioni di gusto, lo ha relegato in una posizione d’ombra.
Il Presidente della Triennale di Milano, Boeri ha dichiarato infatti: “Uno degli obiettivi di Triennale è restituire attraverso le proprie mostre e iniziative la grandezza di figure complesse della cultura italiana del progetto, portando all’attenzione nuove chiavi interpretative, superando facili etichette e inquadramenti, a volte anche contribuendo a riscoperte e riletture critiche inedite. Questa mostra offre l’opportunità per rivisitare non solo il profilo professionale del progettista, ma anche l’intreccio di vite e passioni dell’uomo. Aymonino è stato in grado di proporre un originale discorso sulla città: la ha studiata, discretizzata, scomposta. Quello di Aymonino, nei suoi progetti e nei suoi testi, è un invito a spostare lo sguardo, da orizzontale a verticale, come ben esemplificato dagli edifici del complesso del Monte Amiata nel quartiere Galleratese di Milano del 1967-1972”.
È la Milan Ingegneria, studio veneziano-milanese, ad aggiudicarsi il bando di concorso dello scorso dicembre per la progettazione e realizzazione della nuova arena del Colosseo.
La procedura di gara è stata gestita dal Parco del Colosseo con la sua direttrice Alfonsina Russo e da Invitalia che ha sorteggiato la commissione giudicatrice così composta: Salvatore Acampora, Michel Gras, Stefano Pampanin, Giuseppe Scarpelli e Alessandro Viscogliosi.
Il progetto prevede un finanziamento di 18,5 milioni di euro e rientra nel programma dei Grandi Progetti Beni Culturali dal 2015. L’idea nasce infatti già nel 2014 dall’iniziativa dell’archeologo Daniele Manacorda, con il supporto del ministro Franceschini. Si tratta dunque della messa in opera di studi ed indagini che vanno avanti da almeno cinque anni; la fine dei lavori è prevista per il 2023. Lo stesso ministro ha così esordito a conclusione dell’affidamento dell’incarico:
“Ancora un passo avanti verso la ricostruzione dell’arena, un progetto ambizioso che aiuterà la conservazione e la tutela delle strutture archeologiche recuperando l’immagine originale del Colosseo restituendogli anche la sua natura di complessa macchina scenica”.
Leggerezza, reversibilità e sostenibilità, questi i requisiti principali dell’arena individuati da architetti, archeologi, restauratori e strutturisti del Parco Archeologico del Colosseo all’interno del Documento di Indirizzo alla Progettazione (DIP), redatto ai sensi del Codice dei Contratti e punto di partenza imprescindibile.
Si mira infatti a criteri guida quali la sicurezza, la funzionalità ed economicità realizzativa che possano da un lato incrementare il livello di tutela del patrimonio esistente e dall’altro restituire un’immagine ed una percezione del monumento stesso che si era da tempo perduta. Vengono dunque riconfermate le competenze dell’Italia sul tema del patrimonio culturale. Le soluzioni proposte infatti dal punto di vista tecnologico si presentano nuove e ricercate, ma non rinnegano una raffinatezza estetica notevole.
In virtù del perseguimento di scelte sostenibili il materiale in cui verrà realizzata l’arena sarà il legno di Accoya, materiale ad elevata resistenza e durabilità. La necessità di tutelare le strutture ipogee è soddisfatta dalla possibilità di effettuare un ricambio d’aria completo in soli 30 minuti attraverso pannelli mobili, e da 24 unità di ventilazione sul perimetro che monitoreranno lo stato igrometrico degli ambienti. Un sistema di raccolta e recupero delle acque meteoriche eviteranno il rischio di carico idrico ed alimenteranno i servizi igienici dello stesso monumento.
L’obiettivo del progetto è quello di restituire una lettura simile a quella originaria del monumento riproponendo eventi culturali che possano avvalorare l’antica essenza dell’Anfiteatro Flavio quale luogo dei celebri spettacoli gladiatori.
Non sono tuttavia mancate critiche, la percezione del monumento, al suo stato attuale, è ormai consolidata nell’immaginario comune, acquistando una certa storicità. L’introduzione della nuova arena precluderà la possibilità di osservare gli ambienti ipogei direttamente, se non attraverso i pannelli mobili. Lo stesso costo del progetto è risultato spropositato rispetto ad altre situazioni ben più compromesse, così come si teme un’eccessiva “mercificazione” del monumento a fronte degli eventi che potrebbero ora svolgersi al suo interno, venendo meno all’obiettivo principe della conservazione.
Giuliano Volpe, presidente del Consiglio superiore Beni culturali e paesaggistici nel 2014, risponde alle obiezioni sostenendo che: “Un monumento è un organismo vivo”, motivo per cui nel tempo vengono a modificarsi le necessità di conservazione ed i valori che ogni società attribuisce al patrimonio storico-architettonico. Il cambiamento diventa dunque se non necessario, preferibile. Gli ambienti ipogei potrebbero inoltre essere oggetto di un percorso di visita che, grazie alla nuova arena, non danneggia le strutture sottostanti e sarebbe comparabile alla reale entità di quegli ambienti angusti adibiti in antico al “personale”.
In conclusione, il progetto della nuova arena della Milan Ingegneria si apre ad una nuova lettura espressiva di questo edificio, comprensibile anche dai non specialisti.
La comunità torna a vivere un monumento che non è più solo quello delle cartoline e del turismo di massa, ma uno spazio urbano vivibile quale centro di promozione e produzione culturale.
Un progetto innovativo che mira a risolvere tecnologicamente i problemi di esposizione
Arriva dalla Polonia la casa che si muove come un girasole grazie alla rotazione di una parte della struttura che genera un cono d'ombra in estate e più luce in inverno. A realizzarla è stato lo studio di architettura polacco Kwk Promes, guidato da Robert Konieczny, noto per l’utilizzo della tecnologia per risolvere, poeticamente, i problemi dell'abitare.
Il progetto prende ispirazione dal funzionamento del dispositivo utilizzato dagli astronomi per determinare la posizione delle stelle rispetto alla linea dell'orizzonte, il quadrante, che ha una forma di quarto di cerchio e permette di misurare il valore di un angolo da 0 a 90°.
Composta da due edifici rettangolari perpendicolari l’uno all’altro, la casa prevede un soggiorno situato tra le due parti. Lungo e stretto, questo spazio è composto da vetrate scorrevoli su entrambe le pareti e sfrutta dei binari posizionati sopra il prato per ruotare automaticamente o manualmente di 90 gradi e regolare la quantità di luce negli spazi adiacenti.
"Parte dell'edificio reagisce al sole e segue il suo movimento", racconta Konieczny, "fornendo agli abitanti ombra e una piacevole brezza quando sono al suo interno, ma anche il controllo dell’esposizione alla luce solare dell'edificio principale o l'estensione del suo spazio."
La parte mobile della casa ruota tra la zona giorno e la spa, che sono posizionate ad L all’interno del lotto. Lo spazio "rotante" è costituito da un’area relax sempre ombreggiata e, quando si aggancia a uno degli spazi interni, crea un'estensione all'aperto per queste stanze. Il soggiorno è interamente rivestito con porte scorrevoli in vetro per creare una transizione senza soluzione di continuità dall'interno verso l'esterno.
Grazie alla presenza sensori che arrestano il movimento se vengono rilevati degli ostacoli, la terrazza può ruotare in maniera automatizzata in modo da poter seguire il movimento del sole. I meccanismi attraverso i quali si muove la terrazza dell'edificio sono progettati e realizzati da Comstal.
Il resto della casa è composto da due corpi aggettanti, con diverse misure ed altezze, completamente bianchi: dal lato della strada la casa ha un tetto a due falde e dal lato del giardino un tetto piano. La facciata principale è costituita da un volume rettangolare orizzontale sulla quale poggia un'ulteriore struttura a forma di pentagono, entrambe prive di finestre. È solo nella parte posteriore della casa che gli ambienti si aprono completamente al giardino per non avere interruzioni tra interno ed esterno. Completano l’aspetto minimalista della Quadrant House gli interni firmati dal gruppo Pulva, guidato da Adam Pulwicky.
L’edificio è dotato di un sistema di schermature solari elettriche, grazie alle quali è possibile ombreggiare completamente la zona giorno e la spa. Le chiusure verticali e le coperture sono realizzati con tecnologia monolitica, mentre, la capriata del tetto a falda è in legno. Il colore bianco domina in tutta la costruzione, anche negli interni dove anche per i pavimenti è stata utilizzata la resina epossidica bianca.