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INSUBORDINAZIONE E LICENZIAMENTO: I CHIARIMENTI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 13411/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sul concetto di insubordinazione, posta in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro e, dunque, al di fuori dei locali aziendali. La quaestio ha origine dal licenziamento disciplinare che una società aveva inflitto ad un proprio dipendente, il quale, da un lato, aveva adottato una condotta di insubordinazione e, dall’altro, la violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega. Il lavoratore si era opposto al licenziamento lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in relazione al fatto che non sussisteva un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata. Inoltre, questi sosteneva che non sussisteva neppure un’infrazione disciplinare, dal momento che il diverbio era avvenuto a giornata lavorativa ormai conclusa. Le motivazioni del prestatore, però, non hanno trovato accoglimento in sede di secondo grado di giudizio. I giudici di merito, infatti, avevano sottolineato che il rapporto gerarchico si ha nel caso in cui vi sia una “sovraordinazione”, non solo nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma pure in un contesto più particolare, che, nel caso di specie, era quello proprio del settore amministrativo di cui la collega era responsabile. Oltretutto, la questione che il diverbio fosse avvenuto fuori dell’orario di lavoro non escludeva la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, a maggior ragione se esso aveva avuto ad oggetto obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi aziendali. Anche la Suprema Corte di Cassazione è giunta alla stessa conclusione. Secondo i Giudici di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, in quanto detto termine “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”. Nel caso in esame, gli Ermellini hanno osservato che la fattispecie integrava la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.). Pertanto, il licenziamento è comminato al lavoratore che commette gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro. La minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso e corrispondeva a quella di voler chiedere “conto” della condotta della responsabilità amministrativa fuori dall’azienda. Dunque, la serietà della minaccia, per come intesa dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore. A questi elementi occorre poi aggiungere, come evidenziato nella sentenza, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, attraverso un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità. In virtù dei suddetti presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


La rinuncia del preavviso non deve essere pagata

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La rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso

Il caso: dimissioni con preavviso del dipendente

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Firenze aveva rigettato l’appello proposto dalla società datrice di lavoro avverso la sentenza del Giudice di primo grado con cui la società veniva condannata a pagare al dipendete l’indennità di preavviso, anche se in concreto il dipendente non aveva lavorato durante tale periodo poiché il datore di lavoro aveva espressamente rinunciato alla prestazione lavorativa. Il Giudice di prime cure, cui la Corte d’appello si è poi conformata, aveva in particolare evidenziato che, rispetto alla decisione del dipendente di dimettersi con preavviso, il datore è posto nella possibilità di scegliere tra la cessazione immediata del rapporto oppure la prosecuzione dello stesso per la durata del preavviso. Ne consegue tuttavia che, la parte che recede con effetto immediato ha l’obbligo di corrispondere all’altra parte l’indennità sostitutiva. Pertanto, il datore di lavoro, rispetto alla scelta di dimettersi esercitata dal dipendente, può esonerare quest’ultimo dalla prestazione lavorativa per la durata del preavviso, ma non può sottrarsi all’onere di corrispondere l’importo che sarebbe spettato per il periodo di preavviso. Avverso la decisione del Giudice di secondo grado la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La rinuncia al periodo di preavviso

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6782/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il motivo d’impugnazione formulato dalla datrice di lavoro con cui è stato evidenziato che la rinuncia al preavviso è una facoltà del datore di lavoro che egli esercita nella sua qualità di creditore, senza che, dall’esercizio di tale diritto, possa derivare una trasformazione della sua posizione giuridica in parte obbligata. Il Giudice di legittimità ha ritenuto fondata tale doglianza e, dopo aver dato conto delle diverse tesi in punto di natura, obbligatoria o reale del preavviso, nonché della funzione svolta dall’istituto in esame nell’ambito dei rapporti di lavoro, ha affermato che “nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale (…), ma ha efficacia obbligatoria, con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva (…), a meno che la parte recedente, nell’esercizio del suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sono a termine del periodo di preavviso”. In ragione della natura obbligatoria dell’istituto del preavviso, discende, ha riferito la Corte, che la parte non recedente, qualora rinunci al preavviso, nulla deve alla controparte “la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso; alcun interesse giuridicamente qualificato è, infatti, configurabile in favore della parte recedente; la libera rinunziabilità del preavviso esclude che a essa possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con le fonti delle obbligazioni indicate nell’art. 1173 c.c.”. La Corte ha in definitiva enunciato il principio secondo cui “in tema di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la rinuncia del datore di lavoro al periodo di preavviso, a fronte delle dimissioni del lavoratore, non fa sorgere il diritto di quest’ultimo al conseguimento dell’indennità sostitutiva, attesa la natura obbligatoria del preavviso, dovendo peraltro escludersi che alla libera rinunziabilità del preavviso possano connettersi a carico della parte rinunziante effetti obbligatori in contrasto con la disciplina delle fonti delle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c.”.