L'art. 6 del d.lgs. n. 218 del 1997, al comma 1, prevede che il contribuente nei cui confronti sono stati effettuati accessi, ispezioni o verifiche ai sensi degli articoli 33 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e 52 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, può chiedere all'Ufficio, con apposita istanza in carta libera, la formulazione della proposta di accertamento ai fini dell'eventuale definizione; al successivo comma 2, stabilisce che il contribuente nei cui confronti sia stato notificato avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall'invito di cui all'articolo 5, può formulare anteriormente all'impugnazione dell'atto innanzi la Commissione Tributaria Provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito, anche telefonico.
L'art. 3 dello stesso art. 6 prevede che il termine per l'impugnazione indicato al comma 2 e quello per il pagamento dell'imposta sul valore aggiunto accertata, indicato nell'articolo 60, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, sono sospesi per un periodo di novanta giorni dalla data di presentazione dell'istanza del contribuente..; in pendenza di tale sospensione, il successivo comma 4 attribuisce all'Ufficio un termine di giorni quindici per formulare al contribuente un invito a comparire.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che la mancata convocazione del contribuente non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge (Cass. Sez. Unite, n. 3676 del 17/2/2010; Cass. n. 29128 del 28/12/2011), riconoscendo in tal modo che si tratta di attività facoltativa, la cui omissione non produce effetti invalidanti del procedimento, poiché il Fisco può valutare autonomamente l'opportunità o meno della definizione consensuale. Resta, dunque, efficace l'atto impositivo pure se il fisco non ha promosso il contraddittorio sull'istanza del contribuente.
Si è precisato che, in tema di accertamento con adesione ai sensi dell'art. 6 del d.lgs. n. 218 del 1997, la presentazione dell'istanza di definizione, così come il protrarsi nel tempo della relativa procedura, non toglie efficacia all'accertamento, ma sterilizza per novanta giorni il termine d'impugnazione, decorsi i quali, senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, l'avviso di accertamento, in assenza di tempestiva impugnazione, diviene definitivo, poiché, a norma degli articoli 6 e 12 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, soltanto all'atto del perfezionamento della definizione l'avviso perde efficacia (Cass. n. 3368 del 2012), secondo un meccanismo non dissimile da quello per il normale consolidamento del silenzio-rifiuto (art. 2 legge n. 241 del 1990; art. 21 proc. trib.), il che rende coerente con l'ordinamento generale considerare tacitamente rigettata l'istanza di accertamento con adesione, una volta che sia spirato quel termine dalla presentazione della istanza senza che l'Ufficio abbia risposto (Cass. n. 993 del 21 gennaio 2015; Cass. n. 15401 del 21 giugno 2017).
Se non interviene la definizione dell'avviso di accertamento, l'omessa convocazione del contribuente non può impedire che l'atto impositivo divenga definitivo, se non impugnato entro il termine di legge, che decorre dalla data di cessazione del periodo di sospensione di cui al comma 3 dell'art. 6 del d.lgs. n. 218 del 1997.
Quest'ultimo termine, infatti, è volto a garantire uno spatium deliberandi in vista dell'accertamento con adesione (Cass. n. 16347 del 28/6/2013), sicchè, decorso lo stesso senza che sia stata definita la composizione bonaria, riprende a decorrere il termine per l'impugnazione sospeso dalla presentazione dell'istanza, senza che la mancata definizione della stessa ne comporti un'ulteriore sospensione sine die.
Dal tenore letterale della disposizione normativa in esame si evince, quindi, che la sospensione dei termini opera solo con riguardo all'istanza di accertamento con adesione formulata a seguito di notifica dell'avviso di accertamento, prevista al comma 2 dell'art. 6 citato, e non anche con riguardo all'istanza di accertamento con adesione prevista al comma 1 dello stesso art. 6, stante l'espresso richiamo, contenuto al comma 3 dell'art. 6 citato, all'impugnazione dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale indicata al comma 2 dello stesso articolo proponibile soltanto avverso l'atto impositivo.
Non rileva, pertanto, che il contribuente abbia presentato una prima istanza in data antecedente alla notifica dell'avviso di accertamento ed immediatamente dopo la verifica, poiché, non potendo da tale istanza derivare alcuna sospensione dei termini, non può dirsi che il contribuente abbia consumato la facoltà di avvalersi di tale sospensione; soltanto con la seconda istanza, proposta a seguito di notifica dell'avviso di accertamento, è iniziato a decorrere l'effetto sospensivo dei termini di cui all'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 218 del 1997.
La Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – con l’importante ordinanza n. 13172 depositata in cancelleria il 16 maggio 2019 ha affermato il seguente principio di diritto:
La sospensione del termine per l'impugnazione, prevista dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 218 del 1997, opera solo dalla data di presentazione, da parte del contribuente, dell'istanza di accertamento con adesione formulata a seguito di notifica dell'avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall'invito a comparire di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 218 del 1997, e non dall'istanza di accertamento con adesione, prevista dall'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 218/1997.
Con la recentissima ordinanza del 16 maggio 2019, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto da un contribuente, avente ad oggetto due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate a seguito di indagini bancarie.
In particolare, mediante la produzione in giudizio di dichiarazioni sostitutive dei familiari che avevano affermato che le ingenti somme contestate erano pervenute al contribuente per donazione paterna, veniva dimostrata l’illegittimità ed infondatezza delle contestazioni mosse dall’Agenzia delle Entrate.
Tuttavia, mentre i giudici di primo grado accoglievano in toto le doglianze del contribuente, i giudici di seconde cure ritenevano che le dichiarazioni sostitutive non potevano assurgere a prova idonea a giustificare le ingenti somme di moneta contante transitate dal padre defunto al figlio.
Avverso la sfavorevole sentenza dei giudici di secondo grado, il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione, in particolare eccependo l’insufficiente e contradditoria motivazione della sentenza della CTR che si era limitata a ritenere le dichiarazioni sostitutive non idonee ad assurgere a fonte di prova, senza tenere in considerazione alcuna l’ulteriore produzione documentale esibita in giudizio, costituita da assegni, estratti conto, atti di vendita e ricevute di pagamento.
Il contribuente rilevava, altresì, come gli atti notori costituiscono valida giustificazione delle operazioni segnalate in sede di verifica, rivestendo valore di elementi indiziari, considerato che il divieto di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 si riferisce alla sola prova testimoniale nella sua accezione tipica, ma non preclude al giudice tributario di porre a fondamento della decisione dichiarazioni di soggetti terzi acquisite dalle parti processuali.
Ebbene, i giudici di legittimità nell’accogliere le tesi difensive hanno finalmente chiarito che:
- il divieto di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 fa riferimento alla sola prova testimoniale, ma non preclude al giudice tributario di porre a fondamento della decisione dichiarazioni di soggetti terzi acquisite dalle parti processuali;
- gli atti notori hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni;
- anche al contribuente, al pari dell’Amministrazione finanziaria, è consentito introdurre in giudizio innanzi alle Commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni e tali dichiarazioni devono assurgere a rango di indizi, che necessitano di essere valutati congiuntamente ad altri elementi.
La Suprema Corte, inoltre, ha posto in evidenza come l’attribuzione di valenza indiziaria delle dichiarazioni dei terzi anche in favore del contribuente non si pone in contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla l. 4 agosto 1955, n. 848, atteso che la Corte Europea dei diritti dell’uomo, a tal proposito, ha chiarito che l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile (Corte EDU 23 novembre 2006, ricorso n. 73053/0143, Jussilla contro Finlandia, e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia).
Al riguardo, in sentenza la Corte di Cassazione ha, altresì, sottolineato come anche la Corte Costituzionale, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, ha statuito che la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992 non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale, trattandosi di dichiarazioni rese al di fuori e prima del processo, diverse dalla prova testimoniale, che è necessariamente orale, richiede la formulazione di capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio, rilevando, tuttavia, che tali dichiarazioni hanno efficacia minore rispetto alla prova testimoniale e possono considerarsi come meri argomenti di prova, da soli non idonei a formare il convincimento del giudice in assenza di riscontri oggettivi.
Nell’attuale quadro istituzionale i diritti fondamentali del cittadino giocano un ruolo fondamentale nel determinare il livello di civiltà di un sistema giuridico e la democraticità di un paese.
Le democrazie europee tutelano i diritti fondamentali su più livelli: oltre a una tutela da parte della normativa nazionale, vi è una tutela derivante da norme ed istituzioni dell’Unione europea (la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”) e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Fino a pochi anni fa il sintagma giustizia tributaria (o finanziaria) e diritti fondamentali sarebbe stato ritenuto come improbabile; oggi, la situazione è notevolmente mutata a causa di diversi fattori, tra i quali la crisi dell’economia globale e l’arretramento dello Stato nei settori propri dello “Stato sociale”, che non hanno più garantito ai cittadini la fruizione di servizi efficienti.
La giurisprudenza della CEDU sta influenzando sempre di più l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza nella tutela dei diritti fondamentali dei contribuenti; poiché i principi, come il nemo tenetur se detergere, il ne bis in idem e il nulla poena sine lege, oggi sono frequentemente violati a danno del contribuente italiano, attraverso il diritto CEDU si può trovare un’adeguata tutela e rientrare nell’alveo del diritto tributario.
La Cedu è parte dell’ordinamento nazionale e, pertanto, le sue norme devono essere rispettate dai tre poteri dello Stato. In particolare, il giudice nazionale deve verificare se le contestazioni sollevate dal cittadino sono fondate ed effettuare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme interne di cui è eccepito il contrasto con la CEDU.
Azioni giudiziali esperibili dal difensore tributario in caso di violazione di un diritto fondamentale.
Nel caso di violazione di un diritto fondamentale è possibile esperire un’azione giudiziale differente a seconda del tipo di violazione:
se questa è contestata relativamente all’accertamento di un tributo armonizzato, si può chiedere al giudice interno la disapplicazione della norma contrastante con la Carta Europea; in subordine, qualora ci sia incertezza su ciò, il difensore può richiedere al giudice di sospendere il processo e:
a) d’inviare gli atti alla CGE affinchè verifichi l’effettiva incompatibilità della norma italiana con quanto disposto dalla Carta Europea;
b) se la violazione riguarda l’accertamento di tributi non armonizzati, occorre chiedere al giudice nazionale d’interpretare in senso convenzionalmente orientato la norma interna; in via gradatamente subordinata, sarebbe conveniente richiedere al giudice di sollevare questione d’illegittimità costituzionale, per contrasto della norma dell’ordinamento interno e l’articolo della CEDU violato, che rappresenta una norma costituzionalmente interposta;
c) se le istanze di cui sopra non avranno condotto a un riscontro positivo, al cittadino rimane la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte EDU per una richiesta risarcitoria, ma solo qualora siano stati esperiti tutti i gradi di giudizio e non si versi nell’ipotesi di ricorso per saltum .
Dalla disamina effettuata inerente le violazioni dei principi fondamentali che possono riscontrarsi in ambito tributario, emerge che tale materia è compenetrata dal diritto penale.
La Corte EDU ha, infatti, stabilito che nei procedimenti amministrativi in cui una pubblica autorità accerta i fatti e il provvedimento emanato ha carattere afflittivo, devono trovare applicazione le garanzie tipiche dell’equo processo.
La bozza del Decreto Crescita apporta significative modifiche al regime dei lavoratori impatriati di cui all’art. 16 del D.lgs n.147/2015 nonché al regime del rientro dei cervelli di cui all’art. 44 del D.L.n. 78/2010.
La bozza del Decreto Crescita ha sostituito il comma 1 dell’art. 16 del D.lgs n.147/2015, rubricato “Regime speciale per lavoratori impatriati”, introducendo le seguenti novità:
a) si è incrementata la riduzione del reddito imponibile dal 50% al 70%;
b) si sono semplificate le condizioni per accedere al regime fiscale di favore e, precisamente, godranno di tale agevolazione fiscale:
- i lavoratori che non sono stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere in Italia per almeno due anni;
- i lavoratori che svolgono la loro attività prevalentemente nel territorio italiano.
Al comma 5-bis dell’ art.16, la citata bozza di Decreto prevede un’ ulteriore riduzione del reddito imponibile(pari al 90%), nel caso in cui i lavoratori si trasferiscano nelle regioni del Sud-Italia(Abruzzo , Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia).
Un’ altra novità, riguarda l’introduzione del comma 1-bis che andrà a disporre l’applicazione del regime di cui al novello comma 1 citato, anche ai redditi d’impresa prodotti dai soggetti , identificati dal comma 1 o dal comma 2 , che avviano un’attività d’impresa in Italia, a partire dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2020.
Per di più, il legislatore, introducendo il comma 3-bis ha previsto che le disposizioni normative contenute dell’art. 16 del D.lgs n.147/2015 , si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta anche nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti allo stesso.
Pertanto, per l’applicazione di tale agevolazione fiscale, l’unità immobiliare può essere acquistata dopo il trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti allo stesso e, inoltre, tale acquisto può essere effettuato direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal convivente o dai figli, anche in comproprietà. In entrambi i casi(acquisto in Italia dopo il trasferimento o nei dodici mesi antecedenti allo stesso), i redditi di cui al comma 1, negli ulteriori cinque periodi di imposta, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al cinquanta per cento del loro ammontare.
Nel caso di lavoratori che abbiano almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, il comma 3-bis prevede che i redditi contemplati al comma 1 dell’art. 16 cit., concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al dieci per cento del loro ammontare, negli ulteriori cinque periodi d’imposta.
In quest’ultimo caso, a differenza dell’acquisto dell’immobile, il comma 3-bis non pone chiarezza sul fatto se tali requisiti debbano sussistere all’atto del trasferimento in Italia o alla fine del periodo standard di agevolazione o, ancora, se debbano permanere fino al termine degli ulteriori cinque anni.
Ad esempio, tale dubbio si configura nell’ipotesi in cui un lavoratore rimpatriato abbia un figlio minore nella scadenza dei primi cinque anni del regime e, invece, nell’anno successivo diventi maggiorenne e magari non più a carico; si auspica, sul punto, una maggiore chiarezza nel testo definitivo.
La bozza del Decreto Crescita prevede anche il potenziamento del “regime del rientro dei cervelli”(art. 44 D.L. n.78/2010), ovvero:
- al comma 3 del citato articolo, viene prolungato il periodo di applicazione di tale regime fiscale agevolato dai tre periodi d’imposta (norma attuale) ai 5 periodi d’imposta(modifica attuata dalla bozza del Decreto Crescita);
- al comma 3-bis(aggiunto dalla citata bozza di decreto), il legislatore ha, altresì, prolungato il periodo della durata del regime di agevolazione fiscale di cui ai commi 1 e 2 dell’art.44 citato, nei seguenti casi:
a) quando il ricercatore o il docente trasferisce la residenza ai sensi dell’articolo 2 TUIR, nel territorio dello Stato, il regime di agevolazione si prolunga nei sette periodi d’imposta successivi, sempre che permanga la residenza fiscale in Italia, nel caso di docenti o ricercatori con un figlio minorenne o a carico, anche in affido preadottivo e nel caso di docenti e ricercatori che diventino proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento della residenza ai sensi dell’articolo 2 del TUIR o nei dodici mesi precedenti al trasferimento;
b) quando il ricercatore o docente trasferisce la residenza, ai sensi dell’articolo 2 TUIR, nel territorio dello Stato, il regime di agevolazione (art. 44 citato, commi 1 e 2) si applica nel periodo d’imposta e nei dieci periodi d’imposta successivi in cui il ricercatore o docente diviene residente, ai sensi dell’articolo 2 del TUIR, nel territorio dello Stato e sempre che permanga la residenza fiscale in Italia, nell’ipotesi in cui abbiano almeno due figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo;
c) quando il ricercatore o docente trasferisce la residenza ai sensi dell’articolo 2 TUIR, nel territorio dello Stato, il regime di agevolazione(art. 44 citato, commi 1 e 2) si applica nel periodo d’imposta e nei dodici periodi d’imposta successivi in cui il ricercatore o il docente diviene residente nel territorio dello Stato (art.2 TUIR), sempre che permanga la residenza fiscale in Italia, nell’ipotesi in cui abbiano almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo.
La bozza del Decreto Crescita ha aggiunto rispettivamente, al comma 6 dell’ art. 16 del D.lgs.n.147/2015 e al comma 4 dell’ art.44 del D.L. n.78/2010, per rendere più agevole l’accesso a entrambi i benefici fiscali, la disposizione che prevede sia per i lavoratori rimpatriati, che per i docenti e ricercatori universitari, che non sia più necessario essere stati iscritti all’AIRE nei periodi trascorsi all’estero, purché i predetti soggetti abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi.
Tale semplificazione, inoltre, interessa anche i soggetti (lavoratori impatriati, docenti e ricercatori universitari) rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2019 e che abbiano ricevuto contestazioni riguardo al requisito di iscrizione all’AIRE(Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), ai quali si applica il regime speciale nella formulazione attuale; tale precisazione è stata necessaria a seguito dei dubbi interpretativi creati dalla legge vigente in merito all’obbligo o meno d’iscrizione all’AIRE come presupposto per l’applicazione di predette agevolazioni fiscali.
Il c.d. “saldo e stralcio delle cartelle” è senza dubbio una delle principali misure fiscali contenute nella legge n. 145/2018 (in G.U. n. 302 del 31 dicembre 2018).
Di fatto, è l'ultimo tassello della c.d. pace fiscale 2019, e rappresenta una sorta di «super rottamazione» rivolta alle persone fisiche che abbiano un Isee fino a 20mila euro.
Si tratta di un nuovo pezzo di un puzzle che si aggiunge ai numerosi interventi di pacificazione fiscale introdotti dal D.L. n.119/2018 e che consente lo stralcio di specifici carichi affidati all'agente della riscossione tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2017.
Più nel dettaglio, la legge di bilancio 2019 ha introdotto, solo per le persone fisiche, che versano in una grave e comprovata situazione di difficoltà economica, il cosiddetto “saldo e stralcio” dei debiti fiscali e previdenziali, ossia una riduzione delle somme dovute nelle ipotesi di carichi tributari. L’adesione a quest’ultima sanatoria consente, infatti, l’abbattimento integrale delle sanzioni e degli interessi di mora e il versamento del capitale in misura ridotta e variabile a seconda della classe di Isee del debitore (il valore dell’imposta da versare può essere ridotto sino all’84%).
Il provvedimento riguarda i soli debiti intestati a persone fisiche, che versano in una grave e comprovata situazione di difficoltà economica, derivanti dall’omesso versamento:
• di imposte risultanti dalle dichiarazioni annuali e dalle attività previste dall’articolo 36-bis del D.P.R. 600/1973 e dall’articolo 54-bis del D.P.R. 633/1972, a titolo di tributi e relativi interessi e sanzioni, con esclusione di quelli richiesti a seguito di accertamento (art. 1, comma 184 legge 30 dicembre 2018, n. 145);
• dei contributi dovuti dagli iscritti alle casse previdenziali professionali o alle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi dell’INPS, con esclusione di quelli richiesti a seguito di accertamento (art. 1, comma 185, legge 30 dicembre 2018, n. 145).
E’ necessario chiarire che il debito deve essere stato iscritto a ruolo e, pertanto, pur non essendo necessaria la notifica della relativa cartella, non è sufficiente il semplice avviso bonario recapitato al contribuente, poiché la fase qui regolata precede l’affidamento all’agente della riscossione.
Nel perimetro di quest’ultima sanatoria rientrano, dunque, le cartelle riguardanti i contributi non versati alle casse professionali o a quelle separate dei lavoratori autonomi, e quelle riguardanti non solo il semplice omesso versamento di Irpef e Iva, ma anche la correzione dei dati dichiarati.
Ebbene, il richiamo specifico della norma alle attività di cui agli artt. 36-bis del D.P.R. 600/1973 e 54-bis del D.P.R. 633/1972 (entrambi definibili come “controlli automatizzati” nel primo caso, relativi ai dati reddituali e nel secondo, inerenti l’imposta sul valore aggiunto) consente di individuare prima facie lo spirito del legislatore che sembra aver voluto, appunto, destinare questo tipo di sanatoria alle sole persone fisiche che hanno regolarmente presentato la dichiarazione e che poi, per diversi motivi, non hanno provveduto al pagamento delle imposte e dei contributi. Il requisito implicito pare, quindi, essere quello della regolarità della presentazione della dichiarazione.