Posts tagged with “avvocati”

Il punto della Cassazione sulla configurazione del trasferimento di ramo d’azienda

trasferimento-del-ramo-dazienda.jpg

Con l’ordinanza n. 33734 del 4 dicembre 2023, la Corte di Cassazione ha fornito alcune precisazioni in ordine al trasferimento di ramo d’azienda e alla sua configurazione.

IL CASO

La società Alfa concludeva un contratto di trasferimento di ramo di azienda con la società Beta, cedendole anche i rapporti di lavoro dei suoi dipendenti; in conseguenza del negozio traslativo, ritenuto illegittimo, era conseguito il loro licenziamento, in violazione della normativa in tema di licenziamenti collettivi. I lavoratori agivano in giudizio al fine di sentire accertare e dichiarare la nullità e/o inefficacia della cessione di ramo di azienda, nonché la illegittimità della cessione dei loro contratti di lavoro non ravvisandosi una ipotesi di trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c., con declaratoria della permanente sussistenza dei loro rapporti di lavoro con la società Alfa. Inoltre, domandavano che fosse dichiarata la nullità e/o inefficacia e/o annullabilità e/o illegittimità dei licenziamenti intimati dalla suddetta società con condanna alla immediata reintegrazione ovvero, in ogni caso, alla riammissione nel posto di lavoro. Il Tribunale rigettava la domanda di impugnazione dei licenziamenti e dichiarava la nullità del contratto di cessione di ramo di azienda intercorso tra le società, condannando la società Alfa a ripristinare i rapporti di lavoro, riammettendo in servizio i dipendenti. I giudici del gravame confermavano la sentenza del Tribunale evidenziando che: • oggetto della cessione era stato un ramo di azienda dematerializzato; • che i dipendenti ceduti non avevano uno specifico know-how ovvero legami organizzativi preesistenti alla cessione; • che nella cessione erano confluite attività disomogenee e che non era stata fornita prova che i reparti e le attività cedute costituissero in concreto una entità economica a sé stante.

LA CENSURA

La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte denunciando, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e, segnatamente, dell’art. 2112 c.c. e degli artt. 115 co. 1 e 116 co. 1 c.p.c., per avere la Corte territoriale valutato o omesso di valutare, erroneamente, circostanze dirimenti ai fini della decisione (come il fatto che i lavoratori trasferiti non fossero un gruppo professionalmente coeso e avessero tra di loro legami organizzativi preesistenti la cessione e uno specifico know-how), giungendo in tal modo alla errata conclusione che il trasferimento del ramo di azienda, nel caso in esame, non rientrava nel campo di applicazione dell’art. 2112 c.c.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto alla società Alfa. I giudici di piazza Cavour specificavano che “In tema di trasferimento di ramo d'azienda, la verifica della sussistenza dei presupposti dell'autonomia funzionale e della preesistenza, ma anche di ogni qualsiasi altro requisito, rilevanti ai sensi dell'art. 2112, comma 5, c.c., integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, censurabile per cassazione alla stregua dell'art. 360, n. 3, c.p.c., laddove alla fattispecie, così come accertata dal giudice di merito, sia stata applicata una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse (cd. vizio di sussunzione), ovvero sulla base dell'art. 360, n. 5, c.p.c., nell'ipotesi in cui sia stato omesso l'esame di un fatto decisivo per il giudizio, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che sia stato oggetto di discussione tra le parti”. Nella fattispecie esaminata, i giudici di legittimità non rilevavano alcun vizio di sussunzione, né un omesso esame di un fatto decisivo, in quanto i giudici d’appello avevano precisato, da un lato, che il ramo ceduto “servizi generali e di gestione delle infrastrutture aziendali”, fosse un ramo di azienda cosiddetto dematerializzato, dacché comprensivo solamente dei lavoratori e non anche di beni materiali e, dall’altro, che non era stato provato che tale gruppo di dipendenti fosse professionalmente coeso e che i suoi componenti avessero legami organizzativi preesistenti alla cessione ed uno specifico know how in modo da potere essere individuati come una unità funzionale ontologicamente in grado di produrre beni o servizi e non come mera somma di dipendenti. Inoltre, gli Ermellini richiamavano consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Un complesso di servizi - privi di struttura aziendale autonoma e preesistente che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario- non costituisce ramo d'azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., senza che assuma rilievo, al fine di ravvisare un valido fenomeno traslativo, la mera decisione, assunta dal cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un'unica funzione al momento del trasferimento, la cui considerazione in termini di sufficienza si porrebbe in contrasto sia con le direttive CE nn. 1998/50 e 2001/23 - che richiedono già prima di quest'atto "un'entità economica che conservi la propria identità" - sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, insindacabile per l'assenza di riferimenti oggettivi. Infatti, per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. (come sostituito dalla prima parte dell'art. 32 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276), deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone, comunque, una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata "ad hoc" in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, dovendosi ritenere preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici ovvero di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità” (Cass. n. 8757/2014). In virtù dei suddetti principi, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Volo cancellato e risarcimento del danno non patrimoniale

corte-di-cassazione-11.jpg

Con l’ordinanza n. 33276 del 29 novembre 2023, la Corte di Cassazione ha precisato che in caso di cancellazione del volo si ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale.

IL CASO

Il Tribunale, in qualità di giudice d'appello, confermava la sentenza del Giudice di Pace con cui era stato condannato il vettore aereo Omega s.p.a. a risarcire a Sempronio la somma di euro 600,00 per volo cancellato, ai sensi del Regolamento CE n. 261/2004, e l'ulteriore somma di euro 46,00 per spese. Erano, invece, state respinte le ulteriori domande attoree di risarcimento del danno patrimoniale, dovuto per lunga attesa in aeroporto, per pernottamento in albergo e per costi di bevande e mezzi di trasporto e di risarcimento del danno esistenziale, rectius non patrimoniale, per non aver potuto partecipare a causa della cancellazione del volo al funerale del padre.

LE CENSURE

Sempronio si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo quanto segue. 1) Violazione e la falsa applicazione dell'articolo 2059 c.c. in ordine all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3; secondo il ricorrente, il giudice d'appello, diversamente rispetto alla sentenza di primo grado, che si era limitata a ritenere non assolto l'onere probatorio attoreo, aveva negato la risarcibilità del danno non patrimoniale richiesto ex articolo 2059 c.c. sulla base della seguente, erronea, motivazione: "È evidente che avendo l'attore per la mancata partecipazione al funerale subito danno di tale lievità, non avendo perciò patito alcun peggioramento della qualità della vita e di felicità di vivere, non ha diritto al risarcimento, anche perché la cancellazione di un volo non è reato". 2) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti e mancato assolvimento dell'onere probatorio attoreo in ordine all'articolo 2697 c.c., articoli 115 e 321 c.p.c.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione a Sempronio precisando che secondo la Corte di Giustizia UE, qualora la compensazione pecuniaria prevista dal Regolamento 261/2004 non copra interamente il danno materiale morale patito dai passeggeri, questi ultimi possono chiedere il risarcimento supplementare alla compagnia aerea entro i limiti fissati dal diritto internazionale e dal diritto nazionale, dovendo infatti poter ottenere una compensazione integrale del danno subito (sentenza del 13/10/2011, C-83/10, Sousa Rodriguez e altri); inoltre, il massimale previsto dalla Convenzione di Montreal in caso di distruzione o di perdita dei bagagli comprende qualsiasi tipo di danno, vale a dire tanto il danno materiale quanto il danno morale, posto che la limitazione del risarcimento si riferisce al danno complessivamente subito da ciascun passeggero, indipendentemente dalla natura del danno (sentenza 06/05/2010, C-63/09, Walz). Altresì, gli Ermellini ribadivano i seguenti principi della giurisprudenza di legittimità:

  • il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale;
  • il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge", e cioè, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 2059 c.c.: a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice;
  • il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 2059 c.c. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: a) che l'interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell'articolo 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'articolo 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità;
  • il danno non patrimoniale, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, in quanto il danno risarcibile si identifica non con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni (v. ex multis Cass., 26/10/2017, n. 25420; Cass., 28/03/2018, n. 7594; Cass., 06/12/2018, n. 31537). In virtù dei suesposti orientamenti, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso di Sempronio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Somministrazione irregolare e invalidità del licenziamento inflitto dal somministratore

suprema-corte-11.jpg

Con la sentenza n. 30945 del 7 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di somministrazione irregolare stabilendo che in tali situazioni il licenziamento del lavoratore è da considerarsi invalido se comminato dal somministratore piuttosto che dall’utilizzatore.

IL CASO

La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra Tizio e la società Alfa e ordinava alla predetta società la ricostituzione del rapporto di lavoro, condannando la stessa al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori. In particolare, i giudici di secondo grado, sulla base delle risultanze delle prove testimoniali e documentali acquisite, riteneva il licenziamento intimato dalla società Alfa irrogato da soggetto privo della titolarità del rapporto e dunque del potere di risolvere il contratto, con conseguente persistenza del rapporto lavorativo e obbligo del predetto Gestore alla ricostituzione del rapporto di lavoro. Pertanto, ricorrendo una ipotesi di somministrazione di manodopera non autorizzata, e dunque in violazione dei limiti imposti dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articoli 20 e 21, considerava applicabile la Legge n. 183 del 2010, articolo 32 e condannava la società al pagamento dell'indennità onnicomprensiva pari a 12 mensilità.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte che, però, le dava torto. I giudici di legittimità precisavano che “In tema di somministrazione irregolare, il Decreto Legge n. 34 del 2020, articolo 80 bis conv., con modif., dalla L. n. 77 del 2020 - ove è previsto che il Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 38, comma 3, secondo periodo ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o gestione del rapporto si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento - deve qualificarsi come norma di interpretazione autentica, in quanto, chiarendo la portata della norma interpretata, intervenendo, con effetti retroattivi, su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze, prescrive una regola di giudizio destinata ad operare in termini generali per le controversie già avviate come per quelle future”. Di conseguenza, il licenziamento irrogato dal somministratore non estingue il rapporto che intercorre fra il lavoratore e l’utilizzatore. Inoltre, gli Ermellini ritenevano infondato l'assunto di violazione dell'articolo 384 c.p.c., in quanto “A norma dell'articolo 384 c.p.c., comma 1, l'enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, anche qualora, nel corso del processo, siano intervenuti mutamenti della giurisprudenza di legittimità, sicché anche la Corte di Cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare sulla base del principio di diritto precedentemente enunciato, e applicato dal giudice di rinvio, senza possibilità di modificarlo, neppure sulla base di un nuovo orientamento giurisprudenziale della stessa Corte, salvo che la norma da applicare in relazione al principio di diritto enunciato risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di "jus superveniens", comprensivo sia dell'emanazione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale” (v. Cass. n. 27155 del 2017; n. 6086 del 2014; n. 13873 del 2012). In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso della società Alfa.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario

corte-di-cassazione-10.jpg

Con la sentenza n. 32418 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione ha precisato che le ore di reperibilità notturna non vanno pagate con le maggiorazioni contemplate per il lavoro straordinario, bensì con un’indennità, in quanto il lavoratore in quel lasso di tempo non esercita alcuna effettiva attività lavorativa.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la sentenza del Tribunale di rigetto delle domande di alcuni lavoratori lavoratori, vigili del fuoco presso una base militare. Le domande azionate erano volte a ottenere la condanna del datore di lavoro alla modifica della turnazione di lavoro e alla corresponsione delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario per le 8 ore di prestazione notturna svolte per ogni turno di lavoro, con detrazione dell'indennità di pernottamento percepita, previa declaratoria di nullità degli artt. 18 e 54 delle Condizioni di impiego (Normativa per il personale civile non statunitense delle FF. AA. USA in Italia, stipulato con le rappresentanze sindacali ed assimilabile, per quanto qui rileva, a contratto collettivo nazionale di lavoro). I giudici di secondo grado ritenevano non fondata la rivendicazione degli appellanti, nel senso che tale pernottamento sul luogo di lavoro, remunerato con indennità di pernottamento, dovesse essere considerato orario di lavoro effettivo, e, contrariamente, ritenevano si trattasse di periodo di riposo intermedio.

LA CENSURA

I lavoratori proponevano ricorso in Cassazione deducendo la nullità della sentenza impugnata, ex art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 d. lgs. n. 66/2003, ed erroneità e contraddittorietà della motivazione della sentenza, relativamente all'interpretazione della nozione di orario di lavoro operata dalla Corte distrettuale, che aveva qualificato il pernottamento presso la base militare in termini di disagio e non di orario di lavoro, anche in relazione ad altri contratti collettivi (non prodotti) e alla giurisprudenza dell’Unione europea in materia. I ricorrenti asserivano che, in base ai principi espressi dalla Corte di Giustizia UE, i periodi di reperibilità, anche senza permanenza sul luogo di lavoro, devono essere qualificati come orario di lavoro; a maggior ragione, se il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest’ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità. Inoltre, evidenziavano che, secondo la nozione UE, la definizione di orario di lavoro va intesa in opposizione a quella di riposo, con reciproca esclusione delle due nozioni.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

I giudici di legittimità confermavano quanto statuito dai giudici di merito, pertanto davano torto ai lavoratori ricorrenti. Gli Ermellini sottolineavano che il periodo di guardia presso il datore di lavoro, deve ritenersi, ai fini della retribuzione, quale periodo durante il quale non viene di regola svolto alcun lavoro effettivo, rispetto ai periodi nel corso dei quali vengono realmente effettuate delle prestazioni di lavoro, e che il mancato pagamento di detta porzione dell’orario lavorativo quale lavoro straordinario, non risulta contrario alla normativa europea e nazionale. L'obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro è di natura tale da limitare in modo oggettivo la possibilità del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali, pertanto le ore di guardia devono essere ritenute come orario di lavoro. In tali casi, chiarivano i giudici di piazza Cavour, al prestatore di lavoro spetta soltanto un’indennità, piuttosto che le maggiorazioni previste per il lavoro straordinario. Per la Suprema Corte, la ricostruzione dei ricorrenti in termini di dicotomia tra orario di lavoro e periodo di riposo, in base alla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia e come attuata nella normativa italiana, era condivisibile, ma non determinava l’accoglimento della domanda. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso dei lavoratori e condannava questi ultimi alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Fondi previdenziali integrativi: il punto della Cassazione

cassazione-14.jpg

Con l’ordinanza n. 30699 del 3 novembre 2023, la Suprema Corte si è pronunciata in tema di fondi previdenziali integrativi fornendo alcuni importanti chiarimenti.

IL CASO

Mevia chiedeva il rimborso di parte delle ritenute operate sulla propria pensione complementare, erogatagli quale ex dipendente INAIL, per il periodo 2009-2012, per un importo di euro 5.204,00, in base al regime agevolativo di cui all’art. 11, comma 6, d.lgs. n. 252/2005. A fronte del silenzio-rifiuto dell’amministrazione fiscale, la contribuente proponeva ricorso respinto dalla Commissione tributaria provinciale sulla base della mancata emanazione del decreto legislativo previsto dall’art. 1, comma 2, lett. p, l. n. 243/2004, per cui ai dipendenti pubblici si applicherebbe tuttora la disciplina anteatta come disposto dall’art. 23, comma 6, del d.lgs. n. 252/2005. Anche la Commissione tributaria regionale, adita in sede d’appello, concludeva nel senso dell’ostacolo costituito dalla mancata emanazione del decreto attuativo, confermando la sentenza di primo grado.

LE CENSURE

A questo punto, Mevia si rivolgeva alla Cassazione sollevando le censure che seguono. Con il primo motivo di ricorso lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 11, comma 6, e 23, comma 6, d.lgs. n. 252/2005, in ordine all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Secondo la ricorrente, quella erogata dall’INAIL era una pensione integrativa, per la quale dunque trovava applicazione il regime agevolativo di cui all’art. 11, comma 6, d.lgs. n. 252/2005, che prevede la tassazione al 15 %, ridotta peraltro dello 0,30 % annuo relativamente all’iscrizione al fondo per ogni anno eccedente il quindicesimo; poiché Mevia era stata iscritta per trentacinque anni, la stessa godeva della riduzione massima, pertanto la tassazione andava operata all’aliquota del 9%. Mevia sosteneva che il vincolo contenuto nell’art. 23, comma 6, d.lgs. n. 252/2005, fosse superato dal fatto che il decreto attuativo non era stato emanato nei termini previsti, per cui rimaneva inoperante. Con il secondo motivo la ricorrente lamentava la violazione e la falsa applicazione dell’art. 23, comma 6, d.lgs. n. 252/2005, relativamente all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., sotto altro aspetto, nel senso che la Commissione tributaria regionale non aveva esaminato la questione di legittimità costituzionale della citata norma, ove ritenuta vigente, per disparità di trattamento che ne deriva tra ex dipendenti pubblici ed ex dipendenti privati (da cui discende la violazione dell’art. 3 Cost.) ed anche per violazione dei principi e criteri direttivi (in violazione quindi dell’art. 76 Cost.).

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto alla contribuente. I giudici di piazza Cavour richiamavano due consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità. In primo luogo, gli Ermellini ribadivano che “In tema di fondi previdenziali integrativi, ai sensi del d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, comma 7, per i lavoratori assunti antecedentemente al 29 aprile 1993, e che entro tale data risultino iscritti a forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore dalla l. n. 421 del 1992, ai montanti delle prestazioni maturate entro il 31 dicembre 2006 si applica il regime tributario vigente alla predetta data; ne consegue che il nuovo sistema di tassazione agevolata, introdotto dall'art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 252 del 2005, ed in vigore dal 1° gennaio 2007, è inapplicabile ratione temporis ai cd. "vecchi iscritti" a "vecchi fondi"”. Inoltre, “In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17, solo per quanto riguarda la "sorte capitale", corrispondente all'attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dal 1° gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al citato D.P.R. n. 917, art. 16, comma 1, lett. a) e art. 17”. Nella fattispecie esaminata, dal ricorso emergeva che la contribuente fosse una vecchia iscritta a vecchio fondo, con conseguente applicazione in radice del regime anteatto, senza che venisse dunque in rilievo la disposizione citata di cui all’art. 23, comma 6, d.lgs. n. 252/2005. Pertanto, il Tribunale Supremo respingeva il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'