Con la sentenza n. 2071/2024, la Corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di rumori molesti in condominio, ha precisato in quali casi ciò configura il reato di disturbo della quiete pubblica.
IL CASO
Il Tribunale condannava Sempronio e Mevia alla pena di 200,00 euro di ammenda ciascuno, ritenendoli responsabili del reato di cui all'art. 659 c.p. per aver provocato all'interno del loro appartamento dalla fine dell'ottobre 2017 fino al 10 marzo 2018 nelle prime ore del mattino emissioni rumorose, eccedenti la normale tollerabilità.
LA CENSURA
Gli imputati, per il tramite del loro difensore, si rivolgevano alla Suprema Corte deducendo, in particolare, il vizio di violazione di legge riferito all'art. 659 c.p., rilevando come le uniche persone che avevano lamentato rumori molesti provenienti dal loro appartamento fossero Tizia e Caia, entrambe residenti nell'appartamento sottostante al proprio all'interno dello stesso stabile, senza che nessun altro condomino avesse mai svolto proteste o denunce al riguardo né avesse reso testimonianza in tal senso nell'istruttoria dibattimentale.
Eccepivano che nessun accertamento fosse stato svolto relativamente all'idoneità potenziale della fonte sonora a diffondersi all'interno del fabbricato, né alle sue caratteristiche, neppure essendo stato verificato se si trattasse di un'emissione costante o occasionale o ricorrente nel tempo, ed in tal caso con quale cadenza, né fosse mai intervenuta la PG ad effettuare ricognizioni o controlli sul posto; pertanto, gli imputati sostenevano l'inidoneità del disturbo, quand'anche ritenuto tale, ad integrare la fattispecie penalmente rilevante prevista dall'art. 659 c.p., per il cui perfezionamento è necessario, trattandosi di un illecito ricompreso fra quelli di natura "vagante", che venga leso l'interesse al riposo o a svolgere le proprie occupazioni di una cerchia indeterminata di soggetti, così da arrecare turbamento alla pubblica quiete.
Pertanto, Sempronio e Mevia contestavano l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui i rumori provenienti dall'abitazione degli imputati sarebbero stati percepiti anche da altri condòmini, trattandosi di risultanza mai emersa dall'espletata istruttoria, ribadendo che nessun altro soggetto residente nello stabile era mai stato sentito in dibattimento, né antecedentemente nel corso delle indagini, che nessuna lamentela proveniente da soggetti diversi dalle due denuncianti era stata acquisita agli atti e che neanche risultavano denunce o azioni civili proposte nei loro confronti.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione dava ragione a Sempronio e Mevia precisando che “In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui al comma 1 dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui al comma 2 dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995”.
Inoltre, i giudici di legittimità chiarivano che il disturbo alla pubblica quiete ricorre soltanto nel caso in cui il rumore molesto sia percepito o comunque sia percepibile da un numero indistinto di persone e non già dai componenti di un solo nucleo familiare residente nella stessa unità abitativa.
Poiché nella vicenda posta al vaglio degli Ermellini le emissioni rumorose erano state avvertite esclusivamente dalle condomine dell’appartamento sottostante e non anche dal resto dei comunisti, non poteva trattarsi di disturbo alla pubblica quiete.
Pertanto, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso e annullava la sentenza impugnata.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 741 del 9 gennaio 2024, la Suprema Corte ha chiarito che ai fini dell’accertamento della nullità di un licenziamento in quanto fondato su un motivo illecito, è necessario dimostrare che l’intento ritorsivo è un'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del dipendente.
IL CASO
Tizio agiva in giudizio, dinanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, per far dichiarare la nullità o, in subordine, l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società Alfa.
Il giudice di prime cure, all’esito della fase sommaria, respingeva il ricorso ritenendo legittimo il licenziamento.
Lo stesso Tribunale, con sentenza emessa nel giudizio di opposizione, dichiarava illegittimo il licenziamento per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva e applicava la tutela prevista dall’art. 18, comma 5, della L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
I giudici del gravame accoglievano il reclamo proposto da Tizio e dichiaravano nullo il licenziamento poiché ritorsivo, disponendo la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro con conseguente pagamento di tutte le retribuzioni maturate medio tempore.
LA CENSURA
La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 18, comma 1, della L. n. 300 del 1970, modificata dalla L. n. 92 del 2012, per avere la Corte territoriale deciso in contrasto con l’orientamento di legittimità, secondo cui il motivo illecito deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed essere esclusivo, mentre nella vicenda esaminata, il motivo lecito formalmente addotto, cioè l’addebito contestato, sussisteva, sebbene giudicato tale da non integrare una giusta causa di recesso.
La società ricorrente asseriva che, a fronte di condotte aventi rilievo disciplinare, anche se non giudicate rappresentative di una giusta causa di recesso, il giudice è tenuto comunque a valutare se il licenziamento è intervenuto per un errato (ma lecito) giudizio prognostico datoriale di non proseguibilità del rapporto, oppure per cogliere una (illecita) occasione di liberarsi di un dipendente indesiderato.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione dava ragione alla società Alfa.
I giudici di piazza Cavour definivano il licenziamento ritorsivo come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”.
Per gli Ermellini, “Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un “licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.”.
Tuttavia, per l’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre provare che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro.
La Suprema Corte sottolineava che “L'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio” e che si tratta “di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.
Per i giudici di legittimità, nella fattispecie esaminata, la Corte d’Appello aveva erroneamente attribuito efficacia determinativa esclusiva al motivo ritorsivo solo a causa della inidoneità dell’addebito, per difetto di proporzionalità, nonostante avesse preventivamente accertato la commissione dell’illecito disciplinare.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30418/2023, ha stabilito che rischia il licenziamento il dipendente che abbandona il posto di lavoro per la pausa pranzo senza timbrare.
IL CASO
Il Tribunale respingeva il ricorso con il quale Sempronia, collaboratrice amministrativa presso l’istituto Gamma, aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR.
Secondo il giudice di primo grado, le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell’anno 2017 si era allontanata dall’istituto Gamma per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all’uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialità e integravano la fattispecie di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001.
I giudici d’appello rigettavano il gravame proposto dalla lavoratrice nei confronti del MIUR, dell’Ufficio scolastico territoriale Alfa e dell’Ufficio scolastico regionale Beta, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale.
LA CENSURA
Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2106, 2119, 1455, c.c., della norma di cui all’art. 55- quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, comma 1, lett. a), 1-bis e 3, così come da modifiche di cui al d.lgs. n. 116 del 2016, dell’art. 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonché degli artt. 3 e 35, Cost., in ordine all’art. 360, n. 3, c.p.c.
Secondo la ricorrente, i giudici del gravame avevano applicato l’art. 55-quater, commi 1, lett. a), 1-bis e 3, e aveva richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale è da escludere qualunque automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non aveva considerato gli elementi volti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla dipendente relativamente alla sanzione disciplinare comminata.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
I giudici di piazza Cavour davano torto a Sempronia chiarendo che nella fattispecie esaminata veniva in rilievo “il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata”.
Secondo il Supremo Consesso, “La condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale”.
Dal piano di lavoro del personale ATA per l’a.s. 2016/2017, richiamato dai giudici di merito, emergeva che l’accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire attraverso la timbratura elettronica del badge personale e che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA.
Per di più, dalla comunicazione n. 98 del 17 gennaio 2009 risultava che il personale ATA dell’istituto Gamma fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali.
Pertanto, le condotte di Sempronia non potevano essere giustificate o comunque valutate con minor rigore soltanto perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo.
In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso della dipendente.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 36277 del 28 dicembre 2023, la Suprema Corte ha precisato che è tenuto a risarcire il condominio l’amministratore che non agisce contro i condòmini morosi per il recupero delle spese condominiali.
IL CASO
Tizio citava in giudizio il condominio Alfa domandando la condanna del convenuto al pagamento del complessivo importo di euro 5.074,03 a titolo di compensi e rimborsi spese per il periodo in cui egli aveva ricoperto la carica di amministratore del condominio medesimo.
Costituitosi in giudizio, il Condominio si opponeva alla domanda attorea e formulava una domanda riconvenzionale per sentir condannare Tizio al risarcimento dei danni procurati al Condominio nell’ambito dell’attività gestionale.
Il giudice di prime cure accoglieva la domanda principale nei limiti dell’importo di euro 388,90, mentre rigettava la domanda riconvenzionale.
A seguito di appello principale di Tizio ed incidentale del Condominio, i giudici di secondo grado rigettavano il gravame principale e accoglievano parzialmente quello incidentale condannando Tizio a pagare al Condominio la somma di euro 20.905,17.
La Corte distrettuale rilevava l’inadempimento di Tizio ai propri obblighi di amministratore per non aver promosso azioni giudiziarie finalizzate al recupero delle spese condominiali non versate dai soci morosi e in particolar modo dalla società Beta; l’inerzia preservata a lungo da Tizio aveva condotto alla impossibilità definitiva del recupero del credito dal momento che la predetta società era stata cancellata dal Registro delle Imprese.
LA CENSURA
Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1130, 1 co. n. 3 c.p.c. e dell’art. 63, 1 co. disp. att. c.p.c. in ordine all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c.
Il ricorrente asseriva che la sentenza aveva considerato negligente il comportamento dell’amministratore valorizzando in particolare la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti del condominio Alfa nei confronti della società Beta in virtù di una normativa sopravvenuta costituita dalla L. n. 220/2012 che, in quanto sopravvenuta, non avrebbe potuto essere applicata.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione dava torto a Tizio.
Secondo i giudici di legittimità, la sentenza impugnata aveva correttamente ritenuto che Tizio avrebbe potuto proporre ricorso per decreto ingiuntivo ottenendo anche la provvisoria esecuzione dello stesso ed iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili in vendita, in modo tale da scongiurare il rischio che la società debitrice, venendo cancellata dal registro delle imprese, non potesse essere più un soggetto escutibile.
Inoltre, gli Ermellini sottolineavano la non sussistenza di alcun vizio di sussunzione in ordine ad una normativa sopravvenuta, in quanto, anche antecedentemente all’entrata in vigore della L. n. 220/2012 non applicabile ratione temporis, l’amministratore era tenuto a provvedere al recupero dei crediti del Condominio ai sensi dell’art. 1130, 1° co. n. 3 c.c. nonché ex art. 63 disp. att. c.c.
In virtù di ciò, il Supremo Consesso rigettava il ricorso di Tizio.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza n. 1161/2023, ha affermato che nel supercondominio non è concessa al singolo condomino la modificazione di una strada comune in pista pedonale impedendo in via definitiva il transito carrabile.
IL CASO
Tizio e Caia agivano in giudizio contro Sempronia per sentire dichiarare l'illegittimità dell'apposizione di "panettoni" in cemento con catenella da questa apposta sulla via Alfa, nonché per sentire condannare la convenuta alla rimozione di detta opera.
Gli attori asserivano di essere proprietari dell'unità immobiliare posta nello stabile di via Alfa, situata al piano terra, con annesso giardino pertinenziale, al quale si accede attraverso una strada privata, direttamente collegata alla via pubblica.
La strada privata in questione era sempre stata aperta al traffico pedonale e carrabile.
Ad un certo punto la convenuta apponeva una serie di "panettoni" in cemento, collegati fra loro attraverso catenelle in metallo, creando una vera e propria pista pedonale totalmente interdetta al traffico veicolare, e suddividendo longitudinalmente in due corsie la strada, alterandone in tal modo la destinazione d'uso.
In via subordinata, gli attori asserivano anche di essere titolari di una servitù di passaggio pedonale e carrabile sulla strada privata, lamentando la diminuzione dell'esercizio della servitù di passaggio carrabile e pedonale di cui godevano, nonché l'aumento dell'incomodità del suo esercizio.
Costituitasi in giudizio, Sempronia, in via preliminare, eccepiva la nullità dell'atto di citazione per difetto di editio actionis, nonché l'incompetenza del giudice adito, mentre, nel merito, contestava la domanda degli attori.
Il giudice di prime cure, rigettate le eccezioni preliminari, dichiarava l'illegittimità delle opere realizzate da Sempronia e condannava quest’ultima alla rimozione delle stesse.
Altresì, il Tribunale stabiliva che attraverso l'apposizione dei "panettoni" con catenella la convenuta aveva alterato la destinazione d'uso del bene comune, avendo modificato la strada in modo tale da impedire ai condòmini frontisti l'utilizzo della stessa come praticato precedentemente.
LE CENSURE
Sempronia adiva la Corte d’Appello lamentando innanzitutto il difetto di competenza del Tribunale; inoltre, asseriva che l'abitazione di Tizio e Caia avesse un diritto di accesso esclusivamente pedonale dalla strada privata, mentre l'accesso carraio veniva effettuato abusivamente.
Secondo l’appellante, l'apposizione dei "panettoni" con catenella non aveva alterato la destinazione d'uso del bene, mentre la delimitazione di una pista pedonale avrebbe consentito un miglior godimento della strada a tutti i comunisti e, in particolare, avrebbe garantito una maggiore sicurezza ai pedoni.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE D’APPELLO DI GENOVA
I giudici del gravame liguri confermavano la sentenza di primo grado.
La Corte territoriale sottolineava che la collocazione dei "panettoni" con catenella aveva determinato, come affermato dal Tribunale, una immutazione definitiva e stabile della precedente naturale destinazione della strada in violazione dell'art. 1102 c.c., impedendo ai condòmini frontisti la loro libera utilizzabilità nelle diverse modalità usufruibili.
Secondo i giudici di secondo grado, tale limitazione, non può ricondursi alle facoltà spettanti al condomino ex art. 1102 c.c., essendo suscettibile di impedire l'uso della strada ai restanti comunisti.
Difatti, dalle varie fotografie prodotte in atti e dalle risultanze delle deposizioni testimoniali, era emerso che prima dell'apposizione dei "panettoni" la strada era liberamente percorribile nei due sensi, salvo il caso in cui (soprattutto d’estate) venivano parcheggiate vetture su un lato della strada e occorreva ricorrere a difficoltose manovre per permettere il transito sulla via.
Tuttavia, il parcheggio era episodico, saltuario, temporalmente non determinabile a priori, pertanto non impediva in via definitiva il transito carrabile.
In virtù di ciò, la Corte d’Appello di Genova rigettava il gravame.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'