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“Ruinengarten”, il Giardino delle Rovine

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La palafitta sulla Sprea a Berlino, progettata per l’artista tedesco Anselm Reyle dalla moglie Tanja Linke è immersa all’interno di un parco singolare che prende il posto del cantiere navale della polizia idrica della RDT degli anni Settanta, ormai dismesso.

Passerelle in cemento armato, armature di sponde e rimesse per barche entrano in simbiosi con la vegetazione e il fiume. All’interno della casa e dell’Atelier tra le opere dell’artista stesso sono collezionati pezzi di design di altri artisti.

La casa è quindi il cuore del giardino, la visuale sulla Sprea si apre tramite un giardino abbandonato preesistente, l’affaccio sull’acqua invece è reso con il sollevamento dell’edificio, rendendolo di fatto una palafitta i cui pilastri sono stati realizzati con una cassaforma in legno grezzo. Il nucleo centrale, così come il cornicione del parapetto superiore, è in calcestruzzo leggero che si mimetizza con l’ambiente circostante attraverso l’impiego di una cassaforma industriale a pannelli di calcestruzzo a vista. Il blocco abitativo vero e proprio si contrappone al piccolo nucleo centrale privo di aperture con finestrature che si snodano lungo tutto il perimetro dell’edificio. All’interno la casa non prevede mura divisorie, ma pannelli in vetro, riprendendo lo stesso elemento dalla rimessa delle barche esistente, o nel caso della zona giorno l’arredo diventa elemento di separazione realizzati dallo stesso Reyle.

Non si tratta solo della volontà dell’architetto di operare in senso conservativo secondo la ben nota estetica della rovina quale traccia della memoria, si tratta di un progetto nato e sviluppatosi nel corso di dieci anni, anni che hanno visto una trasformazione dell’area più che materiale concettuale. Come racconta la progettista:

“Quando l’abbiamo trovata, l’area era in stato di abbandono molto avanzato, soprattutto l’edificio principale da cui è stato poi ricavato il Ruinengarten: era il capannone dove venivano riparate le barche, costrutio negli anni Settanta, e occupava proprio il centro del lotto. Noi non avevamo bisogno di molto spazio e non abbiamo contemplato l’opzione di ricostruirlo. Allo stesso tempo non volevamo cancellarlo, piuttosto trasformarlo”.

Non tutti gli edifici esistenti sono stati demoliti, la scelta è stata operata in maniera critica seguita da prove, realizzazione di modelli e simulazioni. Successivamente, dopo gli interventi a carattere strutturale, si è passati a quelli paesaggistici. La piantumazione di piante resistenti e che non richiedevano troppa manutenzione è stata una operazione pianificata ed elaborata nel tempo, come afferma la Lynke:

“Abbiamo piantato subito molti alberi, fiori, piante, ma ci siamo resi conto che avevamo piantato troppo, commettendo l’errore tipico di chi non ha troppa esperienza con i giardini. Solo in un secondo momento abbiamo scoperto la natura apparentemente “spontanea” dei progetti di Piet Oudolf e visto il suo intervento sulla High Line a New York. Abbiamo allora rifatto il giardino nel 2014, e abbiamo scelto di piantare alberi e piante che si possono trovare di solito in queste aree industriali abbandonate: era importante per noi non scegliere fiori per la loro bellezza, ma qualcosa che potesse realmente accordarsi al contesto di rovina”.

Il progetto nel suo complesso risulta essere perfettamente equilibrato, la pianificazione e l’essenza più selvaggia dell’area si amalgamano traendo ispirazione dal giardino spontaneo e pittorico e da quello romantico. Sostanzialmente l’edificio stesso si trasforma in giardino dando origine alla rovina:

“Per noi il riferimento è stato ai giardini inglesi, che costruiscono davvero le rovine come elementi artistico-architettonici nel paesaggio, le folies: in un sito industriale l’effetto è come se fosse un paesaggio residuale, ma in realtà è del tutto progettato”.

L’erba cresce attraverso le feritoie e fessure del cemento degradato e il tutto non sembrerebbe ad un occhio inesperto frutto di una progettazione, la bivalenza tra controllo e spontaneità si riversa dal giardino verso gli edifici, rendendo difficile una distinzione tra quello che c’era e quello che è stato realizzato.


Apologia del Cemento, il Saya Park Art Pavilion

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In Corea del Sud l’architetto portoghese Álvaro Siza con Carlos Castanheira ha progettato tre edifici grezzi, manifesto di un’architettura brutalista, immersi nel paesaggio florido del Saya Park.

Si tratta di tre volumi dedicati a tre diversi usi, o forse potremmo dire a tre diverse muse, l’arte, la natura e la religione, si tratta infatti di un padiglione per l’arte, una cappella e una torre panoramica. Totalmente assenti sono lavorazioni superficiali o rifiniture, gli edifici realizzati interamente in cemento si integrano nel paesaggio con la loro essenzialità generando prospettive e spazialità singolari.

Il Padiglione dell’Arte riprende i tracciati originari del parco, l’impianto ad andamento longitudinale e parzialmente interrato si biforca all’estremità, il volume principale è quello rettilineo che ospita i principali spazi espositivi, il secondo ad andamento curvilineo contiene ulteriori spazi espositivi. L’illuminazione puntuale dei percorsi interni rende la percezione degli ambienti quasi introspettiva, esternamente l’edificio mantiene infatti un aspetto solenne privo di aperture. Come sostiene Carlos Castanheira:

“Il Padiglione dell'Arte ha modificato il sito collinare e si è adattato ad esso. E anche noi tutti ci siamo adattati alla bellezza di questo progetto. C'era una forte volontà di costruire questa particolare idea su quel sito e tutte le sfide sono state superate.”

L’edificio ospiterà inoltre alcune sculture di Siza, sul tema della vita e della morte, e riprende un altro edificio dello stesso architetto, un progetto del 1992 a Madrid per esporre due opere di Pablo Picasso ma che non fu mai realizzato. Quello realizzato in Corea del Sud ha dimensioni nettamente inferiori a quello pensato per Madrid, si estende infatti per 1.370 metri quadrati.

La torre di osservazione trova posto sulla cima di una collina, risalendo verso la sommità le aperture sono irregolari e minimali ai livelli più bassi fino ad aprirsi totalmente in cima, gli scorsi che regalano sono sempre differenti e la luce ha avuto un ruolo fondamentale per la resa dell’effetto finale desiderato. Sulla torre Castanheira afferma:

“La finitura quasi grezza del calcestruzzo a vista contrasta con la purezza della forma. Nonostante il suo aspetto semplice, l'essenza della torre è complessa,”.

In una posizione più defilata si trova invece la cappella. Anche in questo caso l’obiettivo era quello di conferire allo spazio una certa solennità minimizzando le aperture, vi è infatti una sola apertura zenitale, i tagli di luce plasmano e rivelano la volumetria e la complessità dell’edificio. Castanheira descrive così la cappella:

“L’edificio della cappella si insinua nella collina, aprendosi verso est e permettendo alla luce del nuovo giorno. Condivide il luogo con altri spazi di grande simbolismo e significato emotivo. La sua geometria è pura, perché anche la sua funzione è pura”.

La scelta materica secondo gli architetti era la migliore possibile per la forma architettonica progettata, inoltre il suo colore si adatterà a quella del paesaggio circostante con il passare del tempo.


Il Multimediale a servizio della storia, le celebrazioni dei 100 anni della Scuola di Architettura della Sapienza di Roma

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Un riallestimento attento e preciso permette di immergersi in uno spazio fino a poco prima fatiscente ed abbandonato a se stesso. È quello che è stato reso possibile negli uffici amministrativi dell’Università La Sapienza di Roma in occasione dei 100 anni dalla sua fondazione.

Il progetto a cura di Andrea Grimaldi, professore di Architettura degli interni è un vero e proprio vademecum di come luoghi della quotidianità possano essere rinnovati e valorizzati. L’area oggetto d’intervento era un delimitato spazio distributivo che le strategie di design riallestivo messe in campo dall’architetto ampliano verso uno spazio che è contemporaneamente di comunicazione, osmosi e conoscenza più che un semplice spazio di second’ordine. Si poneva inoltre una questione pratica ovvero quella dell’organizzazione impiantistica, per cui gli interventi di semplice rimodulazione hanno eluso i costi ingenti che essa prevedeva. Il progetto di allestimento, dunque opera una sorta di mimetizzazione cromatica rispetto all’involucro originario dello spazio ed una controsoffittatura in barre luminose e binari elettrificati posti sopra l’importa delle porte. Elemento focale dell’allestimento sono i grandi canon à lumière prismatici sospesi, questi hanno una duplice funzione, da un lato fungono da amplificatori sonori, dall’altro costituiscono un fondale scenico cangiante grazie a lampade RGB colorate. Altro tema dominante è il cosiddetto “pentagramma architettonico” ovvero un sistema espositivo in massello multistrato di abete.

La prima “messa in scena” dell’allestimento, che vede la collaborazione di Studio Azzurro per le installazioni multimediali. nella ricorrenza dei 100 anni della Scuola di Architettura della Sapienza, allora chiamata Regia Scuola Superiore di Architettura, negli stessi anni in cui nasceva a Weimar il Bauhaus e promossa nel 1920 da Giovannoni. La mostra è un racconto dei tanti docenti che hanno animato la Scuola romana e il loro contributo alla formazione della professione di architetto del ‘900. Alfonso Giancotti, coordinatore della mostra ha dichiarato:

«Attraverso materiale d’archivio e filmati abbiamo cercato di raccontare la storia della più antica Facoltà di architettura d’Italia per mezzo di una multicolore Linea del Tempo progettata da Studio Azzurro che presenta - dall’anno della sua istituzione ad oggi - le figure, i libri, le opere e i maggiori avvenimenti, sincronicamente a confronto con gli accadimenti politici, culturali, scientifici e artistici della storia del mondo. Il pubblico scoprirà come fatti e figure apparentemente distanti tra loro siano invece coevi, come libri apparentemente antichi siano stati scritti in momenti in cui si costruivano i simboli della modernità e potrà leggere, nei punti di intersezione di questi due percorsi, eventuali allineamenti o considerevoli discontinuità. Una serie di dialoghi immaginari tra i maestri della scuola accompagneranno il visitatore in questo viaggio nel tempo. Sarà la narrazione, dichiaratamente trasversale e obliqua, di uno spazio fisico e di un progetto culturale a più livelli di percezione che guarda decisamente al futuro della nostra scuola».

La mostra dunque alterna video-installazioni con le voci dei testimoni del passato e del futuro ed una selezione di documenti d’archivio dedicata ai progetti elaborati per le sedi della Scuola di Architettura dal 1919 al 1963. Come racconta Leonardo Sangiorgi di Studio Azzurro: “Il tempo scorre e le parole della “storia”, nello stendersi del loro racconto, fermano o tentano continuamente di arrestare il suo fluire. Immaginiamo che questo tentativo sia imperfetto, immaginiamo addirittura di poter seguire, superare o rincorrere e ritornare, alle origini degli eventi. Senza bloccarli, senza arrestare il loro flusso”.


Bourse de Commerce, fare l’architettura a partire dall’architettura

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Dalla sinergia della squadra Pinault+Ando nasce il progetto per la Bourse de Commerce a Parigi. Ci sono voluti quattro anni di lavoro per dar vita al fiore all’occhiello dell’arte contemporanea della capitale francese, inaugurata con una mostra lo scorso 22 maggio.

Dopo Punta della Dogana, Palazzo Grassi e il Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia, il magnate francese François Pinault e l’architetto giapponese Tadao Ando si riconfermano un’accoppiata vincente. La Collezione Pinault vanta oltre 10.000 opere d’arte contemporanee di quasi 400 artisti, una collezione che viene portata avanti da più di 40 anni. Insieme a Jean-Jacques Aillagon e Martin Bethenod, la decisione di François Pinault di collocare le numerose opere all’interno della Bourse de Commerce è la naturale conseguenza dell’ideale di esporre l’arte nell’arte.

Lo stesso Aillagon, Chief Executive Officer della Collezione Pinault ha dichiarato: “Penso che François Pinault abbia scelto la Bourse de Commerce perché non è un edificio qualunque; è un edificio unico. François Pinault ha gusti molto chiari, apprezza i grandi edifici storici, perché crede che l'arte dei nostri tempi non possa solo accontentarsi di cubi bianchi, ma debba anche confrontarsi con la realtà del mondo da un lato, e quella dei secoli precedenti dall'altro. Come a Venezia, tutti edifici permeati di storia. E François Pinault ha trovato qui le stesse qualità.”

Prima di essere concepito come uno spazio espositivo l’edificio della Bourse de Commerce dalla sua fondazione, nel 1763, era utilizzato come mercato del grano. Si trova sulla Rive Droit, nel 1° arrondissement, tra la Rue de Louvre e il Forum des Halles, l’edificio comprende anche la prima colonna isolata di Parigi del XVI sec., quattro secoli di vita per questo edificio che ha ancora tanto da dare.

Una locazione di 50 anni e 160 milioni portano al progetto di Tadao Ando Architect & Associates in collaborazione con le agenzie NeM / Niney & Marca Architectes, Setec Bâtimen. Un ruolo fondamentale ha anche ricoperto Pierre-Antoine Gatier, capo architetto del patrimonio nazionale francese.

Il progetto illuminotecnico è stato curato dai designer Ronan ed Erwan Bouroullec, nello specifico l’intervento ha riguardato le aree dell’ingresso, della scalinata monumentale e del ristorante. Non manca la progettazione del dettaglio: ogni dispositivo è stato pensato ad hoc per assecondare le necessità del complesso progetto architettonico.

Trattandosi di un edificio storico si pone sempre il grande quesito del restauro, il sovrapporsi dell’istanza estetica su quella storica e viceversa. Equilibri che i progettisti hanno in questo caso sapientemente calibrato, il risultato finale è l’efficace compenetrarsi dell’arte contemporanea in un organismo settecentesco, come lo stesso Pinault aveva sperato: “La mia intenzione - afferma Pinault - è mostrare che questo straordinario edificio antico poteva esistere in armonia con un progetto architettonico radicale del XXI secolo. L'ensemble funziona perfettamente. Lo stesso si può dire per l'arte.”

L’architetto Tadao Ando descrivendo il suo progetto ha affermato: “In questo edificio, che ha più di cento anni, il mio scopo era dare alla luce un bambino. Con questo atto viene rianimato e trasformato. Volevo creare un'architettura potente, capace di proiettarsi nel futuro. Un'architettura che tocchi le persone con la sua bellezza.”. Il linguaggio dominante è quello della sovrapposizione di volumi circolari, senza negare le volumetrie esistenti, ma valorizzandole. L’edificio di per sé già circolare, presenta una cupola in ferro e vetro del 1812 al di sotto della quale è stato posto un volume cilindrico, quasi asettico, in cemento a facciavista, con finiture in vetro che lasciano al visitatore la possibilità di ammirare gli affreschi preesistenti. Il volume contribuisce a riorganizzare i percorsi espositivi fornendo, da diversi punti di vista, inaspettate percezioni del monumento. Oltre alle dieci gallerie è stato progettato un auditorium da 284 posti, e lo “studio” ai piani più bassi per la presentazione di opere video e sonore.

Un progetto dai risvolti simbolici importanti, sul piano culturale rappresenta una rinascita per la città dopo il difficile periodo pandemico, e non meno importante, la Bourse de Commerce si impone nel panorama europeo come nuova istituzione per l’arte contemporanea.


“Fedeltà al tradimento”, la mostra su Carlo Aymonino alla Triennale di Milano.

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La mostra sarà aperta fino al 22 agosto 2021, nasce da un’idea di Livia e Silvia Aymonino. Il curatore Manuel Orazi attraverso progetti, schizzi, foto d’archivio ed interviste pone l’attenzione anche sull’uomo che c’era dietro il grande architetto Aymonino.

La mostra monografica su Aymonino (1926-2010) è ospitata presso la Triennale di Milano insieme a quella di altri due grandi designer Enzo Mari e Vico Magistretti, tuttavia la figura di Aymonino sembra passare spesso in secondo piano rispetto ai grandi del Novecento. Manuel Orazi tenta dunque di accendere nuovamente i riflettori su questo architetto viaggiando su due linee parallele: la vita privata e quella lavorativa.

Ne emerge una figura complessa che si dedica alla pittura così come alla politica, all’editoria così come all’insegnamento, come afferma lo stesso curatore Orazi: “Gli architetti, che lavorano all’incrocio di diverse discipline, sono inevitabilmente poliedrici e lo sono stati ancora di più nella seconda metà del ‘900. Aymonino non fa eccezione, ma ha un elemento di unicità, legato alle sue geografie biografiche e professionali.”

Aymonino è di Roma ma il suo operato si sposta allo IUAV di Venezia nel 1963, poi a Milano realizza tra il 1967 e il 1972 il complesso Monte Amiata al Quartiere Gallaratese, per poi spostarsi in tutta Italia superando le resistenze regionali dell’epoca. Il Gallatarese è il progetto più famoso ed anche il più importante di Aymonino se consideriamo le parole del curatore Orazi: “Un progetto come il Gallaratese di Milano è la traduzione costruita del confronto e scambio proficuo tra saperi, discipline e personalità diverse. Non si tratta solo del tradizionale affiancamento di teoria e prassi, ma della capacità di articolare in maniera organica riflessione storico-critica e teorica ed esperienza sul campo.”

Il titolo della mostra rende onore proprio a questa sua poliedricità e straordinaria capacità di destreggiarsi tra ambiti diversi tra loro, senza focalizzarsi in schemi prefissati ma distaccandosene di volta in volta come dei piccoli tradimenti.

Il soggetto principale dell’allestimento a cura di Federica Parolini sono i suoi disegni, in grande formato, che, come dei “pop-up”, saltano fuori dando vita agli schizzi del grande architetto, trasportando il visitatore in una onirica Wunderkammer. I caratteristici quadernetti rossi che utilizzava per disegnare, appuntare aneddoti aiutano a comprendere meglio la sua vita quotidiana. Il rapporto con le diverse città che lo hanno accolto viene narrato in senso cronologico Roma, Matera, Venezia, Milano, Pesaro. Ogni città ha contribuito ad influenzare l’architetto, in uno scambio reciproco fondamentale in periodi come quello del dopoguerra, periodo in cui egli si impegnò particolarmente nella ricostruzione delle periferie.

L’obiettivo della mostra è quello di portare la figura di Aymonino alla conoscenza dei “non addetti ai lavori”, di marcare l’attualità della sua personalità, e di superare quell’oblio, che a causa di oscillazioni di gusto, lo ha relegato in una posizione d’ombra.

Il Presidente della Triennale di Milano, Boeri ha dichiarato infatti: “Uno degli obiettivi di Triennale è restituire attraverso le proprie mostre e iniziative la grandezza di figure complesse della cultura italiana del progetto, portando all’attenzione nuove chiavi interpretative, superando facili etichette e inquadramenti, a volte anche contribuendo a riscoperte e riletture critiche inedite. Questa mostra offre l’opportunità per rivisitare non solo il profilo professionale del progettista, ma anche l’intreccio di vite e passioni dell’uomo. Aymonino è stato in grado di proporre un originale discorso sulla città: la ha studiata, discretizzata, scomposta. Quello di Aymonino, nei suoi progetti e nei suoi testi, è un invito a spostare lo sguardo, da orizzontale a verticale, come ben esemplificato dagli edifici del complesso del Monte Amiata nel quartiere Galleratese di Milano del 1967-1972”.