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Il Museo-Ninfeo agli Horti Lamiani

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In Piazza Vittorio Emanuele II a Roma, sull’Esquilino, rivivono gli Horti Lamiani sotto le spoglie del nuovo museo archeologico, progettato dall’ingegnere Angelo Raffaele Cipriani.

L’iniziativa parte dalla Soprintendenza Speciale di Roma e dalla Enpam - Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri la cui sede è proprio al di sopra del nuovo museo. Nel 2001 considerando gli intenti del comune di realizzare un immobile come opera pubblica sul sito la Soprintendenza conduce dei saggi di scavo preventivi con carotaggi a diverse profondità, da 5,8 a 11, 5m. Quello che viene alla luce è un sito di pregevole importanza. La Fondazione ENPAM poi stipulerà un atto notarile di compravendita di cosa futura per la realizzazione della sua sede.

Gli scavi hanno preso avvio nel 2006, l’edificio soprastante progettato dall’architetto Giorgio Tamburini e dall’ingegnere Gilberto Sarti sarà poi inaugurato nel 2013. Si tratta di un edificio multipiano di cui 9 piani sono fuori terra e 5 piani sono interrati. L’obiettivo primario del progetto era quello della preservazione dei resti archeologici, nonché della loro conservazione, per cui il sistema costruttivo con struttura portante pilastro/trave ha “consentito di scavare sotto senza spostarli dal luogo del ritrovamento. Si tratta di un esperimento ingegneristico realizzato qui per la prima volta al mondo”.

Le campagne di scavo hanno restituito circa 1 milione di reperti afferenti ad un periodo che va dal IV sec. a.C. fino al IX sec. d.C. La fase successiva di studio, dunque, ha richiesto un team interdisciplinare condotto dall’archeologo Antonio Ferrandes e la cui direzione scientifica è stata affidata alla dott.ssa Mirella Serlorenzi, a loro disposizione la ENPAM ha fornito addirittura un laboratorio apposito. Il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha così commentato l’intera operazione:

“L’esigenza di realizzare opere, infrastrutture e sviluppo urbano si coniuga con quella di tutelare e preservare il patrimonio archeologico”.

Lo spazio espositivo è articolato in modo tale da mettere in risalto i reperti rispetto ad un omogeneo fondale bianco quasi asettico seppur intervallato da grandi pilastri circolari. I reperti esposti sono circa 3000, organizzati in 13 sezioni e corredati da ricostruzioni visuali e tridimensionali.
Sono stati mantenuti a vista i resti delle murature di età severiana pertinenti ad una piazza-ninfeo di 400 mq, la quale era recintata da mura caratterizzata dal largo impiego di marmi policromi e pitture. Il sistema di illuminazione volge alla valorizzazione di questi lacerti murari con l’impiego di stripes led ai piedi delle murature. Anche la pavimentazione, di cui pochi sono i resti era in un pregiato marmo bianco, ed insieme ai resti più diffusi di malta di sottofondo sono contemporaneamente conservate ma leggibili, in luogo dei saggi stratigrafici, attraverso lastre di vetro strutturale di 170 x 105 m.

Il presidente dell’ENPAM, Alberto Oliveti, che ha promosso la ricerca e la valorizzazione degli Horti, in occasione dell’apertura del Museo-Ninfeo del 6 novembre ha così dichiarato:

“L’Enpam, che ha come compito quello di garantire il futuro dei suoi iscritti nella stessa prospettiva ha voluto preservare i reperti e la memoria di questo luogo dal grande valore storico, rendendolo fruibile a tutti. Perché solo attraverso la conservazione e la conoscenza del nostro passato possiamo intravedere meglio il nostro avvenire. Dedichiamo l’apertura del Museo Ninfeo ai colleghi medici e dentisti che abbiamo perso nella pandemia, per essere stati vicini ai pazienti sia sul territorio sia in ospedale, con un impegno straordinario”.


Tanzhaus Zürich, una monumentalità sentimentale.

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La scuola di danza e centro culturale Tanzhaus di Zurigo torna a vivere con il progetto di Barozzi Veiga definendo nuovi connotati per il lungofiume.

L’edificio era andato distrutto a causa di un incendio nel 2012, successivamente nel 2014 è stato bandito un concorso internazionale, promosso dall’ente committente Eigentümerin Immobilien Stadt Zürich, vinto dai due architetti Fabrizio Barozzi e Alberto Veiga per un budget di approssimativamente 12.960.000 €.

Si estende per circa 1.500 metri quadrati e costituisce un esemplare caso di ricucitura del tessuto urbano, le aperture trapezoidali, i pieni e i vuoti enfatizzano il rapporto dell’edificio con il contesto, integrando perfettamente il nuovo con il vecchio. Come affermano i progettisti:

“La scelta della forma trapezoidale delle aperture è il risultato di una rivisitazione del tradizionale sistema ortogonale di pilastri, travi e finestre rettangolari. Una forma, quella del trapezio, a cui si è arrivati come sintesi tra la passeggiata lungo la riva e la passeggiata del foyer”.

Si sviluppa su due livelli e gli ambienti affacciano sul portico discretizzato, al piano inferiore sono sistemati una serie di ambienti di servizio: una sala ricreativa, uffici, guardaroba ecc. al piano superiore invece, si sviluppano gli ambienti principali dell’edificio. Un secondo porticato, arretrato rispetto a quello inferiore, ospita il foyer con caffetteria su cui affacciano l’auditorium per spettacoli, due sale di produzione, ed una sala prove oltre che a ulteriori servizi e locali tecnici. La grande permeabilità tra estero ed interno non si sottrae tuttavia al mantenimento degli standard climatici dell’edificio.

La facciata strutturale, spessa 68 cm, realizzata con cemento isolante nella sua essenzialità permette da un lato di proteggere il nucleo interno, prescindendo dall’impiego di sistemi oscuranti, e dall’altro di connotare, attraverso il susseguirsi dei trapezi, la sponda del fiume Limmat. Ulteriore espediente per limitare il passaggio delle radiazioni solari è la piantumazione di piante rampicanti che nella stagione invernale diradandosi, permettono alla luce solare di entrare e nella stagione estiva di mantenere i valori normativi.

La realizzazione durata tre anni termina nel 2019 riaprendo finalmente al pubblico quella che è un’istituzione per il mondo della danza contemporanea.


Stone Garden, il progetto di una torre sul porto di Beirut

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A Beirut, in Libano, si trova su un terreno scosceso sul porto un edificio monomaterico progettato da Lina Ghotmeh, la cui estetica è memoria del lavoro artigianale.

Il materiale utilizzato è costituito da terra e cemento ed il trattamento superficiale crea un effetto “pettinato” all’involucro esterno dell’edificio. Copre una superficie di circa 6.143 metri quadrati ed è stato realizzato nell’arco di un decennio, tra il 2010 e il 2020.

L’edificio sta riscuotendo successo tra le fila della critica internazionale per la qualità costruttiva e per l’interpretazione su scala urbana di una città ricca di storia ma martoriata nel corso del tempo, ultima l’esplosione del 4 agosto 2020 avvenuta proprio presso il porto ad 1 km dall’edificio.

L’intento della progettista Lina Ghotmeh è stato quello di esprimere attraverso questo edificio la sua idea di Beirut: “Un’archeologia vivente, ospite di vita, memoria e natura”, in una città dove coesistono edifici estranei al contesto in cui si trovano e case tradizionali. Questo edificio, situato a solo a un miglio dalla zona portuale, è stato da me progettato come un’espressione della storia della città e come reazione al paesaggio dilaniato dalla guerra a cui mi ero stranamente abituata. Avevo bisogno di creare una presenza terrestre, inserita tra gli alti grattacieli a specchio, che fosse capace di competere per il cielo mediterraneo".

Il terreno appartiene al fotografo Fouad El Khoury, che lo ha ereditato dal padre Pierre El Khoury, qui infatti sorgeva il suo studio di progettazione ed il primo cementificio del Libano, che diede dunque avvio alla repentina “cementificazione” della città. Dalle fondamenta storiche dell’area dove sorgerà l’edificio si arriva a quella che è assimilabile ad una scultura urbana, una torre amorfa che con la sua plasticità, come afferma la Ghotmeh, esprime:

“la capacità dell’architettura di agire come uno strumento di guarigione e attore attivo nella costruzione della resilienza in tempi di crisi”.

Le aperture, le cosiddette “finestre di vita”, di dimensioni differenti e poste a diversi livelli invitano la natura, come gli edifici in rovina vengono colonizzati, e allo stesso tempo suggeriscono diversi punti di vista verso la città e verso il mare. Gli accessi sono articolati su più livelli essendo l’edificio posto su un sito in pendenza. Il piano terra è provvisto di parcheggi ed atrio principale. Al primo piano invece si trova una galleria a doppia altezza, la Mina Image Centre che ospita opere legate al Medio Oriente. I nove piani superiori invece ospitano gli appartamenti, ogni piano è diverso dall’altro. L’organizzazione degli spazi è stata condizionata dalla linearità del lotto, ma è stata risolta attraverso aperture su più fronti e ambienti posti in successione, con la zona giorno rivolta a Nord e verso il mare.

Il trattamento dell’involucro esterno è frutto del lavoro artigianale di chi letteralmente “ci ha messo le mani”, ed ha resistito sorprendentemente anche alla terribile esplosione, emergendo come:

“Una trasformazione della pelle mitragliata degli edifici cittadini in un gioioso rifugio verticale”.

Per la resa così particolare ci sono voluti più di 40 campioni di prova impiegando miscele diverse di terra, cemento e fibre fino alla soluzione adottata: uno strato di intonaco colorato, spesso tra i 3 e i 6 centimetri steso su una griglia ancorata alla struttura di calcestruzzo armato; l’impermeabilità è garantita da additivi fibrosi ed un film protettivo. La “pettinatura” finale è stata resa grazie a dei pettini alti 3 metri in acciaio disegnati dalla stessa Ghotmeh, montati su delle rotaie e fatti scorrere dagli operai.

Un modello in scala dello Stone Garden è attualmente in mostra presso la Biennale di Architettura di Venezia, contiene all’interno fotografie e video, che raccontano la storia della città e della realizzazione del progetto.


Il Padiglione Italia per EXPO Dubai, tra consensi e critiche

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È aperto dal 1 ottobre il discusso Padiglione Italia per l’Expo di Dubai 2020. Il progetto di Carlo Ratti, Italo Rota, Matteo Gatto e F&M Ingegneria è senz’altro uno dei più grandiosi. L’Expo sarà visitabile fino al 31 marzo 2022.

La critica si è scagliata soprattutto contro l’esuberante copertura che non rappresenterebbe a pieno lo spirito italiano. Questa è stata realizzata impiegando tre scafi da imbarcazione, la cui lunghezza va dai 40 ai 50 metri, e che potrebbero essere riutilizzati in mare una volta terminato l’evento. L’obiettivo è quello di materializzare “l’anima navigante” degli italiani a contatto con il cielo. Allo stesso tempo la realizzazione in stampa 3D del David di Michelangelo con la parte bassa del busto nascosta ha destato diverse perplessità.

Certamente resta una delle architetture più riconoscibili tra i padiglioni realizzati per l’Expo e si presenta come una sperimentazione di una architettura riconfigurabile e di design circolare, nonché un’interpretazione del secolare dualismo: naturale e artificiale. Così come afferma uno dei progettisti, Carlo Ratti:

"Il nostro progetto per il Padiglione Italia si occupa di quella che è probabilmente la maggiore sfida dell’architettura di oggi: esplorare la doppia convergenza tra naturale e artificiale. Questo ci consente di prefigurare e suggerire strategie che saranno sempre più cruciali nel futuro delle nostre città, mentre affrontiamo le conseguenze dell’attuale crisi climatica”.

La facciata, non meno iconica della copertura, è espressione del legame tra multimedialità ed ecosostenibilità, la parete viene annullata in virtù di un intreccio verticale fatto di corde nautiche che insieme raggiungerebbero i 70 km di lunghezza, si sfrutta inoltre un avanzato sistema di mitigazione del clima in sostituzione dell’aria condizionata. Anche in questo caso, una volta terminato l’evento, le corde potranno essere riutilizzate, nell’ottica dell’economia circolare. Di qui la sua essenza riconfigurabile, Italo Rota descrive infatti così il progetto:

"Il padiglione muta continuamente e parla di riconfigurabilità sia nel lungo termine, grazie all’approccio circolare, sia nel breve termine, grazie all’uso di tecnologie digitali. Il Padiglione Italia ha grandi dimensioni e una struttura molto sofisticata, ma più che un’architettura nel senso canonico è una grande installazione sperimentale dedicata ai confini ormai sfumati tra Naturale e Artificiale. La sua costruzione si ispira allo stesso tempo ai biotipi naturali e alle tecnologie più avanzate che derivano dalla ricerca spaziale. Da un lato, l’edificio guarda all’organizzazione delle foreste tropicali, dove la luce filtra da un’alta copertura e la vita è organizzata di conseguenza.” Nel suo complesso l’edificio occupa circa 3.500 metri quadri e sfrutta nuovi materiali come le alghe, i fondi facce, le bucce d’arancia, la sabbia ecc. “un tema cruciale” aggiunge Italo Rota, “ è la produzione di neo-materia: nuovi materiali da costruzione di origine organica e biologica, la cui produzione tecnologica non è da confondere con il riciclo. Essendo il padiglione concepito secondo un approccio circolare, si può pensare a questa neo-materia come materiale che possono potenzialmente essere riutilizzati ovunque, con modalità e finalità diverse. Il Padiglione Italia rappresenta quasi una sorta di architectural banking: un catalogo da cui scegliere gli elementi di architetture future".

A partire dal piano terra troviamo una caffetteria, la Solar Coffe Garden di CRA e Italo Rota. Il David è collocato invece nel cosiddetto Teatro della Memoria, vi è poi il Belvedere, una installazione circolare la cui cupola di copertura è costituita da piante selvatiche della macchia mediterranea. Gli spazi più espressamente dedicati alla ricerca tecnologica vedono una serie di installazioni fatte di effetti luminosi: l’Innovation Space, il Second Sun e Second Moon.

Il Padiglione Italia è stato inoltre premiato come miglior progetto imprenditoriale dell’anno per i Construction Innovation Awards negli Emirati Arabi.


Porto di Knubben, reinventato da Snøhetta il lido anni ’30

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In Norvegia un’antica piattaforma sul porto viene riproposta secondo una rivisitazione del celebre studio Snøhetta.

Nella regione norvegese di Arendal un caratteristico avamposto sull’acqua, comunemente definiti “harbour bath”, viene realizzato già nel 1937, anno in cui Ketil Ugland progettò una piattaforma per l’Arendal Swimming Club, tra le isole Tromøy e Hisøy. La struttura modernista era provvista anche di piattaforma per i tuffi alta 10 metri, piscine, spogliatoi ed un chiosco. Venne utilizzata per circa dieci anni per attività subacquee e gare agonistiche, successivamente venne reimpiegato quale jazz club ed infine demolita nel 1980.

Inizialmente ci si sarebbe dovuti attenere ad un semplice lavoro di restauro di quello che è un esempio dell’architettura funzionalista norvegese; tuttavia, le forti potenzialità insieme alle esigenze legate all’incremento del turismo hanno portato alla decisione di creare qualcosa di più.

L’obiettivo dello studioSnøhetta, a cui il progetto è stato affidato nel 2018, è stato quello di non travalicare il passato e dunque l’importanza della struttura che già era esistita ed allo stesso tempo di integrare la nuova struttura con la città quale connettore urbano e nuovo polo attrattivo. Come afferma il responsabile del progetto Marius Hauland Næss:

“Nel riportare il tradizionale bagno del porto alla sua gloria originale, ci siamo resi conto che la risposta volumetrica doveva parlare un linguaggio architettonico diverso. È il nostro modo di onorare l’orgogliosa storia del bagno degli anni ’30”.

L’inaugurazione è prevista per il 2024 e celebra il 300° anniversario della città di Arendal. La superfice della struttura è ampliata rispetto all’originale ed arriva fino a 750 m circa, l’aspetto esteriore in blocchi di pietra su pali d’acciaio e dal forte impatto ricorda le coste norvegesi quasi come se si trattasse di un elemento naturale che emerge dalle acque. La forte orizzontalità è data inoltre dalle linee sinuose digradanti che rimandano alle naturali curve di livello del terreno pronte ad assecondare la marea ed i bagnanti e come racconta lo stesso studio:“assomiglierà a un blocco di pietra modellato durante l’ultimo periodo glaciale”.

Un punto ormai di fondamentale importanza è quello ecologico: “Uno dei nostri obiettivi è quello di infondere al progetto altre tecnologie supplementari che si concentrano sul recupero e il riciclaggio dei materiali, come, ma non solo, il vetro. Finora, non ci sono state composizioni che producono emissioni di CO2 pari a zero o addirittura negative, quindi stiamo considerando di passare a un’alternativa verde”, afferma Næss.

All’interno è prevista la realizzazione di ristoranti e zone dedicate a spettacoli e concerti anche all’aperto implementando la componente culturale del nuovo luogo di attrazione, o anora come lo descrive Næss :

”un ibrido che combina in modo fluido cultura, ricreazione, biologia marina e apprendimento e un’esperienza alimentare molto ancorata a livello locale”.