Posts in category “Diritto del Lavoro”

Licenziamento del dirigente e impossibilità di repechage

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Con la sentenza impugnata, in sede di rinvio, ed in riforma della sentenza del Tribunale, veniva rigettata la domanda proposta da Tizio nei confronti della società Alfa, volta, tra l’altro, all’accertamento della ingiustificatezza del licenziamento allo stesso intimato (in ragione della profonda riorganizzazione e ristrutturazione concernente diversi settori e funzioni dell’azienda), ed alla conseguente condanna della predetta società al pagamento, in suo favore, dell’indennità supplementare. A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione, davanti alla quale deduceva, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 26 e 29 del c.c.n.l. per i dirigenti dipendenti delle imprese creditizie del 19 aprile 2005, in ordine all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale aveva erroneamente affermato che il licenziamento fosse giustificato ed aveva erroneamente statuito l’impossibilità di individuare ulteriori ambiti lavorativi adeguati all’inquadramento del dirigente. La Suprema Corte dava torto a Tizio stabilendo che “In caso di licenziamento del dirigente d’azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro”. Per gli Ermellini, andava esclusa la violazione denunziata in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., poiché nella pronunzia impugnata vi era un esplicito riferimento alla questione del repêchage, nella parte in cui era stato affermato che la legittimità del licenziamento impugnato deve essere vagliata alla stregua della nozione di “giustificatezza” propria del recesso nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, senza che possa darsi rilievo di per sé all’adempimento da parte del datore dell’onere di repêchage, onere quest’ultimo che risultava inapplicabile al rapporto di lavoro dedotto in giudizio. Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Congedi parentali: le novità della manovra 2023

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La manovra economica per il 2023 contiene importanti novità, fra cui varie misure a tutela del lavoro, come quella sul congedo parentale. Come è noto, il congedo parentale è regolato dal d.lgs. 151/2001 Testo unico sulla maternità e paternità e successive modifiche e integrazioni. Si tratta di un periodo di astensione facoltativa dal lavoro spettante alla madre oppure al padre, che siano lavoratori dipendenti, iscritti alla gestione separata INPS oppure autonomi. La manovra 2023 estende anche ai papà la possibilità di fruire di un congedo parentale facoltativo retribuito all’80%. Tuttavia, madre e padre (lavoratori dipendenti) possono beneficiare dell’indennità maggiorata all’80% in alternativa fra loro e nel limite massimo di un mese da godere entro il sesto anno di vita del bambino con riferimento alle lavoratrici e ai lavoratori che terminano il periodo di congedo di maternità o di paternità successivamente alla data del 31 dicembre 2022. Recentemente, il d.lgs 105/2022 ha apportato una riforma all’istituto del congedo parentale, la quale è entrata in vigore il 13 agosto 2022. Da detta data i padri possono rimanere a casa con i propri figli per 10 giorni, con retribuzione piena, e i dipendenti possono godere di un periodo di congedo allungato da sei a nove mesi. Per fruire del congedo parentale, il genitore interessato deve farne richiesta all’INPS, inoltrando telematicamente la domanda con pagamento a conguaglio. I dipendenti pubblici devono presentare la domanda direttamente alla propria amministrazione di appartenenza. L’istanza in questione deve essere effettuata da parte dei genitori naturali in costanza di rapporto di lavoro entro i primi 12 anni di vita del bambino, per un periodo complessivo tra i due genitori non superiore ai dieci mesi, o undici mesi qualora il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo continuativo oppure frazionato di almeno tre mesi. Il periodo complessivo può essere usufruito da madre e padre anche in via contemporanea.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Prova della cessione di ramo d’azienda: il punto della Cassazione

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33814 del 16 novembre 2022, ha stabilito che, in coerenza con la disciplina dettata dall'Unione Europea, si ha una cessione di ramo d'azienda qualora il complesso di beni ceduto mantenga una propria identità, tale da consentirgli di proseguire l’attività svolta prima del trasferimento. Nella vicenda in esame, il Tribunale rigettava la domanda di Tizio di essere ammesso allo stato passivo della società Alfa, divenuta sua datrice all’esito di una cessione del ramo d’azienda presso cui lo stesso era adibito. In particolare, il Tribunale negava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra Tizio e la predetta società. A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale la comunicazione inviata al lavoratore a firma congiunta della società cedente e di quella cessionaria, relativa al trasferimento del ramo di azienda cui egli era addetto, documento decisivo ai fini della sua dimostrazione, negata dal Tribunale. Gli Ermellini davano ragione a Tizio affermando che “La cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. … Detta nozione è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23); posto che criterio decisivo per stabilire se si configuri un trasferimento ai sensi della Direttiva n. 2001/23/CE, è l’individuazione della circostanza che l'entità economica, indipendentemente dal mutamento del titolare, conservi la propria identità, il che risulta in particolare dal fatto che la sua gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa”. Per il Tribunale Supremo, la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che condizionano l'operatività del trasferimento incombe su chi intenda avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c.; soprattutto, spetta alla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti che concretano il trasferimento stesso. In virtù di ciò, la Suprema Corte accoglieva il ricorso proposto da Tizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Patto di non concorrenza: alcune sentenze rilevanti

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Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale . (Cass. Civ. Sez. lav., 11/11/2022, n. 33424)

Concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro; inoltre, è stato altresì precisato che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 cc, non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finirebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo. (Trib. Monza sez. lav., 23/03/2022, n. 108)

La naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile in quanto il legislatore non ha stabilito – in caso contrario – la sanzione della nullità espressa come diretta a tutelare un interesse pubblico generale; ne consegue che la mancata previsione di un corrispettivo non rende nullo il patto né consente la sostituzione della lacuna con la disciplina legale. (Corte App. Venezia sez. lav., 22/02/2022, n. 26)

In tema di accertamento della violazione del patto di non concorrenza, ciò che rileva non è la forma in cui l’attività lavorativa sia prestata, se mediante lavoro subordinato o autonomo o ancora attraverso l’esercizio di una vera e propria impresa, ma l’attività in sé considerata, in un settore che possa definirsi come tale in concorrenza con il precedente datore di lavoro. (Trib. Forlì sez. lav., 05/10/2021, n. 216)

La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta – in base a quanto previsto dall’art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost. – entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo. Ne consegue che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita. (Cass. Civ. sez. lav., 01/09/2021, n. 23723)

In tema di patto di non concorrenza, la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo – quale vizio del requisito generale prescritto dall’art. 1346 c.c. – e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo «non è pattuito», ovvero sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, operano su piani distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. (Cass. Civ. sez. lav., 01/03/2021, n. 5540)

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Prescrizione dei crediti da lavoro: il punto della Cassazione

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Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro. Nella vicenda in esame, i giudici di secondo grado rigettavano l’appello di Tizia e Caia avverso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato le domande nei confronti della società datrice Alfa, relative alle differenze retributive, loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno. Secondo la Corte distrettuale, la quale riteneva prescritto il diritto ai compensi, la prescrizione di cinque anni decorrerebbe da quando il rapporto è ancora in corso. A questo punto, Tizia e Caia si rivolgevano alla Suprema Corte, che dava ragione alle due lavoratrici. I giudici di piazza Cavour affermavano precisamente che “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”. Per il Tribunale Supremo, la prescrizione dei diritti che derivano dal rapporto di lavoro decorre da quando il rapporto è in corso soltanto nel caso in cui la reintegrazione risulta essere l'unico rimedio alla risoluzione illegittima dell'accordo di lavoro, come avviene per i dipendenti pubblici e per quelli privati, i quali godevano delle tutele di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori prima dell’entrata in vigore della Riforma Fornero.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'