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La Cassazione si esprime sull’impugnazione stragiudiziale del licenziamento

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Cosa richiede l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento? Su ciò si è pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17731 del 21 giugno 2023. Nella vicenda esaminata, i giudici di merito confermavano la decisione resa dal Tribunale e rigettavano la domanda proposta da Sempronio nei confronti dell’ASL, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato. La Corte distrettuale rigettava la domanda del lavoratore in quanto non considerava espressiva della volontà di impugnare il licenziamento la manifestazione di dissenso rispetto al provvedimento espulsivo pronunciata con la dicitura in calce alla lettera di comunicazione del recesso “prendo solo per ricevuta visione della lettera non condividendo né la forma né il contenuto”. Sempronio si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la non conformità a diritto del convincimento espresso dai giudici di secondo grado circa l'inidoneità della nota dal ricorrente apposta in calce alla lettera di licenziamento a riflettere la volontà di impugnare l'intimato licenziamento; il ricorrente asseriva essere sufficiente, ai sensi di legge ed in base al principio della libertà della forma degli atti, qualsiasi atto scritto che valga a manifestare al datore la volontà di contestare la validità ed efficacia del licenziamento. Altresì, Sempronio, imputava alla Corte territoriale l'omessa pronunzia in ordine ai dedotti motivi di illegittimità del recesso. Il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso stabilendo che “Ai fini dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento ai sensi dell'articolo 6, L. n. 604 del 1966, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l'efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all'autorità giudiziaria”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta e onere della prova in capo al datore

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Con l’ordinanza n. 15002/2023, la Suprema Corte ha stabilito che nel caso di licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta alle mansioni assegnategli, il datore è tenuto a dimostrare la validità delle motivazioni che lo hanno spinto a detta decisione. Nella vicenda esaminata, i giudici di merito, in sede di reclamo ex L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 58 e in riforma della sentenza del Tribunale dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla cooperativa sociale Alfa a Tizia per sopravvenuta parziale inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di operatrice socio sanitaria – OSS incompatibili con residuali mansioni, con applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 e condanna al pagamento di un risarcimento del danno pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Secondo la Corte distrettuale, la Cooperativa aveva violato l’obbligo di verificare la possibilità di effettuare adattamenti organizzativi ragionevoli onde trovare alla lavoratrice una sistemazione adeguata alle condizioni di salute, adattamento possibile alla luce del tipo di organizzazione adottato dalla società. A questo punto, la Cooperativa si rivolgeva alla Cassazione, la quale riteneva il ricorso infondato. I giudici di legittimità precisavano che “Nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità del Decreto Legislativo n. 216 del 2003, articolo 3, comma 3-bis, il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 5, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto”. Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Rifiuto di trasformazione del rapporto: il lavoratore può essere licenziato?

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Al lavoratore che rifiuti la trasformazione del rapporto di lavoro in part time può essere irrogato il licenziamento? A tale interrogativo ha fornito risposta la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12244 del 9 maggio 2023. I giudici di legittimità hanno precisato che la previsione dell’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015, se esclude che il rifiuto di trasformazione del rapporto in part time possa costituire di per sé giustificato motivo di licenziamento, non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time, bensì comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere di prova posto a carico del datore. In questo caso, ai fini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, sono necessarie: • la sussistenza e la dimostrazione da parte del datore di effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solamente con l’orario ridotto; • l’avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto degli stessi; • l’esistenza di un nesso causale fra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento. Il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part time diviene una componente del più ampio onere di prova del datore, che comprende le ragioni economiche da cui deriva l’impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno e l’offerta del part time rifiutata. Il licenziamento non è intimato a causa del rifiuto, bensì a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part time. Ciò non esclude che, in linea generale, il licenziamento possa costituire una ritorsione rispetto al rifiuto di trasformazione del rapporto in part time. Affinché possa affermarsi la nullità del licenziamento è necessario che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con onere probatorio che ricade sul lavoratore e che può essere assolto anche attraverso presunzioni. La mancata prova dell’esistenza del giustificato motivo di recesso addotto dal datore, che è di per sé causa di illegittimità del recesso, può costituire indizio del carattere ritorsivo del licenziamento.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Concessione di ferie o aspettativa: nessun obbligo automatico

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Sebbene il CCNL contempli il diritto del lavoratore a godere di ferie o aspettativa in presenza di determinate situazioni, la richiesta deve essere necessariamente approvata dal datore, dal momento che non è previsto un obbligo di concessione automatica delle stesse. Ciò è quanto ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza n. 13482/2023. Tizia impugnava il licenziamento per giustificato motivo soggettivo che le era stato inflitto per assenza ingiustificata dal lavoro prolungatasi per oltre venti giorni. Tizia asseriva la sussistenza in capo alla società datrice di un obbligo di concedere le ferie o l'aspettativa non retribuita per motivi di salute. La stessa, infatti, soffriva di sindrome depressiva maggiore con chiusura relazionale. I giudici di secondo grado rigettavano il ricorso. Poiché la vicenda approdava in Cassazione, quest’ultima confermava la statuizione della Corte territoriale. Così si esprimevano gli Ermellini: “L'interpretazione della Corte territoriale dell'articolo 31 del CCNL, applicabile al caso di specie, nella parte in cui sono stati ritenuti necessari, ai fini della concessione delle ferie o dell'aspettativa, sia la domanda per iscritto del lavoratore che il provvedimento di concessione del datore di lavoro, è conforme al dato letterale della disposizione contrattuale collettiva ed è compatibile, sotto il profilo logico sistematico, con il principio di libertà di iniziativa economica sancito dalla Cost., articolo 41 che, attribuendo all'imprenditore il potere direttivo e gerarchico in ordine alla organizzazione dell'impresa, comunque gli conferisce un potere di controllo sulla valutazione delle relative istanze (perché magari le ferie non sono state maturate o per carenza dei presupposti in ordine alla concessione dell'aspettativa) sicché non è consentito ravvisare un obbligo automatico nella concessione delle stesse”. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Licenziamento ritorsivo: alcune sentenze rilevanti

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L'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. In tali ipotesi, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l'intento di rappresaglia per l'attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso. (Trib. Bari, sent. n. 1598, 30/05/2023)

Per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causati e del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento. (Cass. Civ., ord. n. 6838, 07/03/2023)

In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento. (Trib. Salerno, sent. n. 2062, 07/12/2022)

Il licenziamento ritorsivo è stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità, data l'analogia di struttura, alla fattispecie del licenziamento discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18. (App. Napoli, sent. n. 3486, 23/09/2022)

Nell’ipotesi di licenziamento ritorsivo – quindi nullo – il motivo illecito deve essere determinante (cioè deve rappresentare l’unica effettiva e concreta ragione del recesso datoriale) e deve essere altresì esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto deve essere riscontrato come insussistente. L’esclusività sta quindi a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale. (App. Brescia Sez. Lav., 08/09/2021, n. 204)

Il licenziamento per ritorsione costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento interessato del lavoratore colpito o di altra persona a lui legata e conseguentemente accomunata nella reazione, con conseguenza nullità ex art. 1345 cc del licenziamento, quando la finalità ritorsiva abbia costituito il motivo esclusivo e determinante dell’atto espulsivo. Ne segue che, allorquando il lavoratore alleghi che il licenziamento è stato intimo per un motivo illecito esclusivo e determinante ex art. 1345 cc, il datore di lavoro non è esonerato dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; quindi l’indagine in ordine alla sussistenza nonché al carattere esclusivo e determinante del motivo ritorsivo addotto potrà essere successivamente a quella concernente il presupposto giustificativo posto dalla società datrice a fondamento del licenziamento intimato e solo nell’ipotesi di accertata insussistenza della stessa; diversamente, infatti, il motivo ritorsivo non sarebbe, per forza di cose, esclusivo e determinante e quindi non renderebbe nullo il negozio estintivo. (Trib. Trento Sez. Lav. 22/07/2021, n. 71)

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che sia, è un licenziamento nullo, purché il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. sia stato determinante, cioè abbia costituire l’unica effettiva ragione del recesso da parte del datore di lavoro oltre che ragione esclusiva, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente. (Trib. Frosinone Sez. Lav., 27/04/2021, n. 395)

Il licenziamento è nullo per motivo ritorsivo quando esso costituisce l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale. Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L’esclusività sta a significare che il motivo illecito può concorrere con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel riscontro giudiziale. (Cass., sent. n. 1514, 25/01/2021)

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'