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Il punto della Cassazione sulla competenza territoriale in materia di lavoro

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La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 24975/2023, si è pronunciata in tema di competenza territoriale in materia di lavoro soffermandosi in particolare sul concetto di dipendenza aziendale. Nella vicenda in esame, con l’ordinanza resa nel procedimento introdotto da Tizio nei confronti della società Beta, il Tribunale dichiarava la propria incompetenza territoriale, assegnando il termine di novanta giorni per la riassunzione del giudizio innanzi al Tribunale ritenuto territorialmente competente. Avverso tale provvedimento Tizio proponeva ricorso per regolamento necessario di competenza. La Cassazione stabiliva che “La competenza territoriale in materia di lavoro va individuata, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., alternativamente nel luogo in cui è sorto il rapporto, in quello dove si trova l’azienda ovvero, infine, in quello ove si trova la dipendenza aziendale alla quale il lavoratore è addetto. A tal fine, per dipendenza aziendale va inteso il luogo in cui il datore ha dislocato un nucleo, seppur modesto, di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, dovendo escludersi che la competenza territoriale possa radicarsi nel mero luogo di svolgimento della prestazione lavorativa”. Detta nozione di dipendenza deve interpretarsi estensivamente, come articolazione della organizzazione aziendale in cui il dipendente lavora, potendo coincidere anche con l’abitazione privata dello stesso, se dotata di strumenti di supporto dell’attività lavorativa. È sufficiente che in tale nucleo operi anche un solo dipendente e non occorre che i relativi locali e le relative attrezzature siano di proprietà aziendale, ben potendo essere di proprietà del dipendente stesso oppure di terzi.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Demansionamento e onere della prova

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Con l’ordinanza n. 23325/2023, la Corte di Cassazione ha fornito alcune precisazioni in tema di demansionamento del lavoratore. Nella fattispecie esaminata, i giudici d’appello confermavano la sentenza del Tribunale che aveva accolto il ricorso di Tizio ed aveva accertato che il lavoratore era stato illegittimamente demansionato, pertanto aveva condannato la società Alfa a risarcire il danno commisurato al 20% della retribuzione globale di fatto, per la qualifica ricoperta comprese le mensilità aggiuntive, per ogni mese di demansionamento, oltre accessori dalle singole scadenze al saldo. Secondo la Corte territoriale, dal momento che l’art. 2103 c.c. è posto a salvaguardia della professionalità, il datore di lavoro non può assegnare mansioni che, pur riconducibili alla medesima area di inquadramento, concretizzino di fatto un mutamento in pejus delle stesse, e al giudice è demandata la verifica dell’omogeneità delle mansioni svolte. Nello specifico, il giudice di merito aveva accertato che il lavoratore era stato in precedenza assegnato a compiti di coordinamento del personale tecnico con assunzione di responsabilità e professionalità superiore rispetto ad un semplice operatore di macchine, mansioni alle quali era stato adibito successivamente. A questo punto, la società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte asserendo che il dipendente non aveva descritto le mansioni svolte e non le aveva confrontate con quelle precedenti così trascurando di offrire al giudice elementi dai quali desumere l’esistenza di una dequalificazione. I giudici di legittimità davano torto alla società ricorrente stabilendo che “Qualora il lavoratore alleghi un demansionamento professionale riconducibile a un inesatto adempimento dell'obbligo posto dall'art. 2103 c.c. a carico del datore di lavoro, è su quest'ultimo che incombe l’onere di provare l'esatto adempimento, dimostrando l'inesistenza, all'interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore”. Il divieto per il datore di variazione in pejus ex art. 2103 c.c., opera anche nel caso in cui al dipendente, nella formale equivalenza delle precedenti e nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, dovendo il giudice accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del lavoratore, senza fermarsi al mero formale inquadramento dello stesso. Di conseguenza, a fronte dell’allegata denuncia di assegnazione a mansioni differenti e ritenute dequalificanti, la datrice di lavoro avrebbe dovuto dimostrarne l’equivalenza. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Indennità di trasferta: alcune sentenze rilevanti

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Va nettamente distinto il “trasfertista abituale” dal lavoratore che va in trasferta, perché solo per il primo ricorrono cumulativamente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione “in misura fissa”, attribuite senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta. (Cass. Civ. Sez. L., 24/07/2023, n. 22171)

L’indennità di trasferta percepita dal lavoratore ha natura retributiva – e va, pertanto, assoggettata ad Irpef – nei limiti stabiliti dall’art. 51, comma 5, TUIR, ovvero per la parte eccedente l’importo di € 46,48 al giorno, al netto delle spese di viaggio, per le trasferte fuori del territorio comunale, e senza alcun limite per le trasferte nell'ambito del territorio medesimo. Presupposto del relativo diritto è il temporaneo comando del lavoratore a prestare la propria opera in un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla, a prescindere dalla sua effettiva residenza o dall’ubicazione della sede aziendale; scopo dell’indennità, infatti, è quello di compensare i disagi derivanti dal temporaneo espletamento del lavoro in luogo diverso da quello previsto. (Cass. Civ. Sez. V, 14/07/2023, n. 20412)

In tema di indennità di trasferta del medico per svolgere attività di ambulatorio al di fuori del proprio comune di residenza, le somme erogate a titolo di spese di viaggio sono previste dall’art. 86 dell’Accordo collettivo nazionale del 23 maggio 2005, quali spese di viaggio per recarsi dal luogo di residenza a quello di svolgimento dell’attività. Orbene, l’art. 51, comma 5, del d.P.R. n. 917/1986, prevede una imponibilità ridotta (ovvero nulla per i rimborsi spese a piè di lista), per le indennità percepite per le trasferte o missioni che il lavoratore compie al di fuori del territorio comunale ove è ubicata la sede di lavoro. (Cass. Civ. Sez. V, 16/06/2023, n. 17316)

L'art. 7 quinquies del d.l. n. 193 del 2016 (conv. con modif. in I. n. 225 del 2016) - ha introdotto una norma retroattiva autoqualificata di "interpretazione autentica" del comma 6 dell'art. 51 del d.P.R. n. 917 del 1986, con la quale si è stabilito, al comma 1, che i lavoratori rientranti nella disciplina prevista dal comma 6 sono quelli per i quali sussistono contestualmente le seguenti condizioni: a) la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro; b) lo svolgimento di un'attività lavorativa che richiede la continua mobilità; c) la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell'attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un'indennità o maggiorazione di retribuzione "in misura fissa", attribuite senza distinguere se il dipendente si sia effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta, e che, in caso di mancata contestuale esistenza delle suindicate condizioni, è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo art. 51. (Cass. Civ. Sez. VI, 12/04/2022, n. 11793)

In tema di contributi dovuti per i regimi assicurativi dei lavoratori operanti all’estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale, ai fini della individuazione della base imponibile contributiva, deve aversi riguardo alla retribuzione effettivamente corrisposta, e non alle retribuzioni convenzionali individuate con i d.m. richiamati dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 317 del 1987, conv. dalla l. n. 398 del 1987, restando inapplicabile il comma 8 bis dell’art. 48 del d.P.R. n. 917 del 1986 (poi divenuto 51 per effetto del d.lgs. n. 344 del 2003), che opera esclusivamente a fini fiscali; ne consegue che, ove l’indennità di trasferta corrisposta al lavoratore abbia natura retributiva, alla luce del suo carattere stabile e non contingente, va computata ai fini dell’individuazione della fascia di retribuzione convenzionale da applicare a fini contributivi. (Cass. Civ. Sez. L., 25/02/2022, n. 6294)

L’art. 20 del c.c.n.l. autoferrotranvieri del 23 luglio 1976 individua la “tratta a cui l’agente appartiene” quale elemento strutturale utile per l’individuazione della residenza di servizio, sicché essa, in ragione delle mansioni in concreto svolte dai dipendenti (nella specie, operatori di esercizio, addetti alla conduzione di autobus) e del luogo in cui vengono espletate, è idonea a costituire riferimento per l’assegnazione delle sede ed il riconoscimento dell’indennità di trasferta. (Cass. Civ. Sez. L., 29/10/2021, n. 30802)

Il trasferimento non consiste nella temporanea assegnazione del lavoratore ad un diverso luogo di lavoro, per fronteggiare temporanei incrementi di lavoro, poiché il trasferimento da una unità produttiva all’altra comporta un mutamento definitivo e non temporaneo del luogo di lavoro; come tale il trasferimento va tenuto distinto dalla trasferta, che invece si caratterizza per la temporaneità dell’assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale. (Trib. Venezia Sez. L., 14/09/2021, n. 505)

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Irriducibilità della retribuzione: il punto della Cassazione

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A quali componenti retributive si applica il principio di irriducibilità? A tale interrogativo ha fornito risposta la Suprema Corte con l’ordinanza n. 23205 del 31 luglio 2023. La vicenda traeva origine dal rigetto, da parte dei giudici di merito, della domanda di Tizio, il quale aveva proposto ricorso per domandare la condanna della società datrice al pagamento di 84.000,00 euro in ordine ad una serie di fringe benefits che gli erano stati revocati durante il rapporto di lavoro. I giudici di secondo grado rilevavano che i predetti benefit non rientrassero nella nozione di retribuzione compensativa della prestazione e perciò irriducibile. A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione, la quale rigettava il ricorso del lavoratore. Secondo i giudici Ermellini, il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia dell’irriducibilità della retribuzione, contemplata dall'art. 2103 c.c., deve essere sì determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi erogati, ma tenendo conto delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, ossia afferenti alla professionalità tipica della qualifica rivestita. I trattamenti di miglior favore altro non sono che componenti aggiuntive ai minimi tabellari e non sono coperti dalla tutela dell'art. 36 Cost. La loro eliminazione non contrasta con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall'art. 2103 c.c. Difatti, non vi sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati. Sostanzialmente, “Il principio di irriducibilità della retribuzione che implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non sia riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore e il prestatore di lavoro e che ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto va tuttavia coordinato con il legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi”. In tal caso la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare, come detto, particolari modalità della prestazione lavorativa”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Compiuta giacenza della raccomandata: no all’irrogazione della sanzione da parte dell’Ispettorato del Lavoro

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La Suprema Corte, con la sentenza n. 15237/2023 ha stabilito che nell’ipotesi di mancata comunicazione all'Ispettorato del Lavoro di informazioni in materia di lavoro ex art. 4 L. 628/1961 oppure qualora le stesse vengano date in maniera consapevolmente scorretta, ai fini della sanzione non può essere considerata sufficiente una notifica per compiuta giacenza. Nella vicenda in esame, i giudici di merito trasmettevano alla Corte di Cassazione l'impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica avverso la sentenza del Tribunale, con cui Tizio era stato assolto dal reato ascrittogli, di cui all'articolo 4, ultimo comma, della Legge n. 628 del 1961 (in qualità di datore di lavoro, Tizio non aveva trasmesso le notizie richiestegli, attraverso l’invio di una raccomandata, dall’Ispettorato del Lavoro), poiché, ai sensi dell'articolo 593, comma 3, c.p.p., non sono appellabili le sentenze di proscioglimento relative alle contravvenzioni punite con pena alternativa. Pertanto, ai sensi dell'articolo 569, comma 5, c.p.p., l'atto di impugnazione era stato qualificato dalla Corte distrettuale come ricorso per cassazione. I giudici di legittimità, confermando la statuizione dei giudici di secondo grado, sottolineavano che, relativamente alla fattispecie di cui all'art. 4, ultimo comma, Legge n. 628 del 1961, che sanziona penalmente chi non trasmette le notizie richieste dall'Ispettorato del Lavoro o le fornisce in modo errato e incompleto, non può essere considerata sufficiente una notificazione per compiuta giacenza. Per gli Ermellini, l'effettiva conoscenza della richiesta deve essere ritenuta necessaria in quanto fonte diretta dell'obbligo sanzionato penalmente. I giudici di piazza Cavour chiarivano che la compiuta giacenza concerne piuttosto quei casi in cui le comunicazioni sono dirette a soggetti che hanno già commesso reati e, dunque, hanno piena contezza della finalità di tali atti, provenienti dalle amministrazioni competenti e diretti ad attivare meccanismi di eliminazione o non punibilità dei reati stessi. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso del pubblico ministero.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'