Posts in category “Diritto del Lavoro”

INFORTUNIO SUL LAVORO E CAUSA VIOLENTA

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Con la sentenza n. 923/2021, il Tribunale di Velletri si è pronunciato in tema di causa violenta nell’infortunio sul lavoro. Nella vicenda in esame, Tizio citava a giudizio l’Inail, chiedendo l’accertamento degli esiti invalidanti permanenti in percentuale superiore a quella originariamente riconosciuta dal predetto Istituto. Tizio, in merito alla causa violenta dell’infortunio asseriva che: • dall’anno 2017 svolgeva la mansione di autista e che il 4 settembre 2017, verso le ore 15, nel mentre scaricava la merce dal suo furgone cadeva accidentalmente dal retro del mezzo e, a causa dell’urto, riportava “frattura scomposta esposta della tibia destra e del perone destro, ferita lacero contusa della gamba destra”, con prognosi di 40 gg s.c., refertate nell’immediatezza dal PS dell’Ospedale; • veniva accertata frattura in tre frammenti del malleolo tibiale con distacco ed angolatura del moncone mediale per apertura della pinza tibio-peroneale, minimo scivolamento caudale del moncone prossimale, frattura spiroide del terzo distale del perone con disassiamento e parziale sovrapposizione dei monconi, estesa imbibizione edematosa dei tessuti molli periarticolari prevalentemente a carico del compartimento mediale e presenza di minute formazioni aeree nel contesto del tessuto periarticolare sul versante plantare; • in seguito, Tizio denunciava all’Inail l’infortunio sulla base della diagnosi “Arto inf. dx: ipotrofia, algie, infiltrato fibroso caviglia in esiti fratturativi; esiti cicatriziali; limitazione funzionale caviglia”, ma l’Istituto rigettava il riconoscimento dell’infortunio risultando, a suo dire, assente la causa violenta. Il Tribunale sottolineava che in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la norma contenuta nell’art. 41 c.p., secondo cui “il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p. in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni”. Altresì, il Tribunale, condividendo le risultanze della CTU e accertando il diritto del lavoratore, condannava l’Inail a corrispondere l’indennizzo in capitale previsto dal D. Lgs. 38/2000 per il danno biologico permanente del 15%, oltre interessi legali e detratto quanto già corrisposto allo stesso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SUL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO: IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Nella vicenda in esame, i giudici d’appello rigettavano il reclamo proposto nei confronti di Tizia dal Ministero dell’Interno avverso la sentenza del Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione ex lege 92/2012, aveva confermato l’ordinanza resa in sede cautelare dallo stesso Tribunale, che aveva accolto il ricorso di Tizia volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 29 maggio 2014 per superamento del periodo di comporto, e la condanna del Ministero sia alla reintegra del posto di lavoro, sia al risarcimento del danno quantificato nelle mensilità non corrisposte dal licenziamento fino alla data di effettiva reintegra. I giudici di secondo grado constatavano che il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, non aveva ritenuto quale requisito ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto l’indicazione specifica dei giorni conteggiati e sommati, bensì aveva affermato il principio secondo cui se il datore di lavoro nel provvedimento espulsivo provvede a specificare le giornate di assenza del lavoratore non può più modificarle o successivamente aggiungerne altre. Inoltre, la Corte distrettuale rilevava che il Ministero aveva scelto di indicare i periodi di assenza per malattia da computare ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Così, il periodo indicato dal Ministero per assenza da malattia risultava di 472 giorni complessivi (per sommatoria), cioè inferiore al periodo di comporto limite previsto dalla contrattazione in 484 giorni. Riguardo al periodo 15-26 luglio 2012 (periodo contestato ai fini del suddetto superamento), la Corte d’Appello constatava che nel decreto del Ministero del 31.03.2014, richiamato dal decreto espulsivo del 29 maggio 2014, era specificato che le assenze dal 15 al 26 luglio 2012 non rientravano nel computo ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto, poiché dette assenze erano indicate come assenze “ingiustificate” e, dunque, non potevano essere conteggiate per tale superamento. Infine, i giudici di merito ritenevano che non era rilevante l’eventuale successiva dimostrazione in giudizio che detto periodo di assenza era stato giustificato per malattia, in quanto ciò che rilevava era l’incontrovertibilità/immodificabilità dei periodi contestati nel provvedimento di espulsione, in base al principio della immodificabilità dei motivi di recesso. Poiché la vicenda veniva posta al vaglio degli Ermellini, questi ultimi stabilivano che “In tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l'onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tuttavia, ciò vale per il comporto cd. ‘secco’ (unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore; invece, nel comporto cd. per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorre una indicazione specifica delle assenze computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore”. Dunque, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso del Ministero e condannava quest’ultimo al pagamento delle spese processuali.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


EQUO INDENNIZZO E RENDITA INAIL: QUALE CORRELAZIONE?

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Con l’ordinanza n. 7682 del 9 marzo 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di infortuni sul lavoro, soffermandosi in modo particolare sul rapporto che intercorre fra equo indennizzo e rendita INAIL. Nella vicenda in esame, i giudici d’appello, in riforma della sentenza del Tribunale, rigettavano la domanda proposta da Tizia nei confronti del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, riguardante il riconoscimento come dipendente da causa di servizio dell'infortunio sul lavoro subito e del conseguente diritto all'equo indennizzo con riferimento anche a patologie diverse da quelle riconosciute dall'amministrazione di appartenenza con ascrivibilità del complesso delle patologie connesse all'infortunio nella Tab. A, cat. III (e che l'INAIL aveva valutato nella misura del 70% in sede di riconoscimento di una rendita per lo stesso evento), anziché nella Tab. A, cat. VIII, come riconosciuto dall'amministrazione stessa. La Corte territoriale considerava infondata la domanda di condanna al pagamento della provvidenza invocata alla luce del disposto dell'art. 50, comma 2, d.P.R., n. 686/1957 che prevede vada dedotto dall'equo indennizzo quanto eventualmente percepito dall'impiegato in virtù di assicurazione a carico dello Stato o di altra pubblica amministrazione, avendo accertato aver Tizia percepito a titolo di rendita INAIL una somma di gran lunga maggiore rispetto a quella liquidabile a titolo di equo indennizzo ed inammissibile per carenza di interesse la mera domanda di accertamento del diritto all'equo indennizzo. Tizia si rivolgeva alla Suprema Corte, la quale dichiarava inammissibile il ricorso. Gli Ermellini precisavano che “Le distinte provvidenze dell'equo indennizzo e della rendita INAIL sono da ritenersi compatibili ma non cumulabili”. Per il Tribunale Supremo, la Corte d’Appello aveva correttamente “ritenuto l'eccezione del Ministero relativa, non all'incompatibilità, ma alla mera non cumulabilità delle due distinte provvidenze e come tale già proposta in primo grado, erroneamente disattesa dal giudice di prime cure e meritevole di accertamento istruttorio sulla base delle allegazioni e mezzi istruttori proposti agli atti dal Ministero così da concludere, stante l'evidente sproporzione tra l'importo percepito quale rendita INAIL e l'importo spettante a titolo di equo indennizzo, insuperabile anche a fronte dell'accertamento dell'ascrivibilità dei postumi dell'infortunio sofferti dalla ricorrente alla diversa Tab. A cat. III e, comunque, in considerazione della mancata prospettazione di benefici ulteriori, come si deve ritenere in ragione della mancata specificazione in ricorso della tempestiva deduzione di tali motivi di interesse ad agire, per l'infondatezza della domanda e comunque per la sua inammissibilità in ottemperanza al disposto dell'art. 50, comma 2, d.P.R. n. 686/1957”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULLA RIPARTIZIONE DELL’ONERE DELLA PROVA FRA DATORE E LAVORATORE: IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 7058 del 3 marzo 2022, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla ripartizione dell'onere della prova fra il datore di lavoro ed il lavoratore, il quale lamenti danni biologici, esistenziali, morali, nonché patrimoniali e non patrimoniali dallo stesso patiti per essere stato addetto all'esecuzione di mansioni usuranti. Più nello specifico, gli Ermellini hanno specificato che “incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”. Difatti, l'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, dal momento che la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


LICENZIAMENTO DISCIPLINARE E TEMPESTIVITÀ DELLA CONTESTAZIONE

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Con l’ordinanza n. 2869 del 31 gennaio 2022, la Corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di licenziamento disciplinare, ha affermato che il datore di lavoro deve dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva contestazione del fatto poi addebitato al lavoratore. Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado, accoglieva il reclamo proposto da due dipendenti avverso la sentenza del Tribunale e, dichiarata l'illegittimità dei licenziamenti intimati ai reclamanti dalla ditta Alfa in data 1 luglio 2016, dichiarava risolto il rapporto di lavoro di entrambi i reclamanti dalla data del licenziamento, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata in quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ciascuno e compensando per metà le spese di lite. In particolare, la Corte territoriale escludeva che la contestazione, effettuata nel 2016 in ordine a comportamenti pacificamente posti in essere nel 2013, potesse reputarsi tempestiva alla luce delle importanti esigenze, lato sensu difensive che il principio di tempestività mira a tutelare ed in assenza di congrue giustificazioni da parte del datore di lavoro. A questo punto, la società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte, la quale rigettava il ricorso. Secondo gli Ermellini, i giudici d’Appello avevano correttamente osservato che la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione, qualora assumi il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idonea a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare pienamente la sua difesa effettiva nell'ambito del procedimento disciplinare, e che detta garanzia non può certo essere vanificata da un comportamento del datore di lavoro non improntato ai canoni di correttezza e buona fede. Pertanto, secondo i giudici di piazza Cavour, sul datore “grava l'onere di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva contestazione del fatto poi addebitato al dipendente”. Inoltre, il Tribunale Supremo, richiamando consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, affermava che “In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l' accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'