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RESPONSABILITÀ MEDICA: LA POSIZIONE DI GARANZIA

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Per posizione di garanzia del medico si intende non soltanto l’obbligo di quest’ultimo di tutelare la salute (bene protetto) del paziente, preservandolo dai rischi che possano lederne l’integrità, ma anche gli obblighi di controllo e sorveglianza che impongono al sanitario di neutralizzare tutte le fonti di pericolo. La posizione di garanzia implica che il medico deve, ad esempio, informarsi sulle patologie del paziente esistenti al momento del ricovero o della visita e sull’esistenza di eventuali condizioni di rischio. L’obbligo di garanzia si fonda sull’art. 40 c.p., il quale, al secondo comma, dispone che “Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. L’obbligo in questione, che, in generale, riguarda tutti gli operatori di una struttura sanitaria, è, inoltre, strettamente connesso all’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 della Costituzione. Il fatto di essere titolare di una posizione di garanzia non implica, tuttavia, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del medico. Difatti, è necessario accertare concretamente la violazione, da parte del sanitario, di una regola cautelare, la prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, nonché la sussistenza del nesso causale fra la condotta del garante e l’evento dannoso. La posizione di garanzia del medico può derivare anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche, attraverso un comportamento concludente. A tal proposito, è opportuno menzionare un’importante pronuncia della Cassazione, secondo cui “In tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto” (Cass. Pen., 09/04/2019, n. 24372). Nel caso in cui più medici intervengano in équipe su un paziente, la Suprema Corte ha precisato che “In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in «équipe», il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori, che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui” (Cass. Pen., 23/01/2018, n. 22007). Inoltre, “L’equipe medica deve essere considerata come un’entità unica e compatta e non come una collettività di professionisti in cui ciascuno si limita ad eseguire i propri compiti, sicché ogni medico dell’equipe dovrà, oltre a rispettare le leges artis della propria sfera di competenza, verificare che gli altri colleghi abbiano eseguito correttamente la propria opera. Detto controllo dovrà esercitarsi anche sugli errori altrui, evidenti e non settoriali, tali da poter essere rilevati con l’ausilio delle conoscenze del professionista medio” (Cass. Pen., 21/06/2017, n. 18334).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È RESPONSABILE IL MEDICO CHE NON RICONOSCE I SINTOMI DELL’INFARTO?

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Il sanitario che non riconosce i sintomi dell’infarto risponde della morte del paziente soltanto se viene dimostrata l’incidenza causale della sua negligenza sull’evento lesivo con un alto grado di credibilità razionale. Ciò è quanto ha affermato la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 35058 del 10 dicembre 2020, la quale si è trovata ancora una volta ad affrontare il tema della responsabilità medica. La vicenda traeva origine dalla decisione della Corte di Appello di Bologna, con la quale veniva confermata la pronuncia di condanna emessa dal Gup del Tribunale di Modena all'esito di giudizio abbreviato nei confronti di un medico generico, al quale si contestava l'omicidio colposo ai danni di un paziente affetto da patologie cardiache, del quale conosceva la storia clinica, per colpa specifica consistita nell'omessa prescrizione di accertamenti e controlli strumentali e diagnostici a fronte di un dolore interno all'altezza della spalla destra lamentato durante due visite, all'esito delle quali si limitava a prescrivere l'uso di antinfiammatori e antidolorifici. Nella stessa giornata della seconda visita medica, il paziente moriva per infarto del miocardio acuto in coronopatia arterosclerotica di grado severo e di ipertrofia miocardica, complicazioni sopravvenute in conseguenza della mancata e tempestiva diagnosi della patologia cardiaca. Per i Giudici d’Appello, l’evento era ascrivibile all’imputato, in quanto, in presenza di un dolore toracico, la diagnosi si rivela spesso difficoltosa, per cui una corretta diagnosi va formulata non soltanto sulla base della localizzazione, irradiazione e qualità del dolore, ma anche tenendo in considerazione il “comportamento” del dolore stesso (insorgenza, regressione, durata, frequenza, sintomi associati); la sintomatologia del tipo di quella accusata determinava quanto meno una situazione di particolare attenzione e diligenza in relazione alla storia pregressa, alle sue patologie, al dolore presentato, che non si attenuava con gli antidolorifici e che richiedeva la prescrizione al paziente dell'Ecg d'urgenza, con invio al pronto soccorso per convalidare o meno una diagnosi differenziale ed alternativa di dolore anginoso. A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale, tra i vari motivi sollevati, il ricorrente lamentava la mancata dimostrazione del nesso causale. Il Tribunale Supremo accoglieva la doglianza dell’imputato, sostenendo che la motivazione dei Giudici di merito fosse lacunosa, dal momento che gli stessi si erano limitati a definire gravemente colposo il comportamento del sanitario, senza appurare con certezza la sussistenza del nesso di causalità fra il comportamento colposo per omissione addebitato al medico e l'evento morte del paziente. Insomma, non si era accertato che, tenendo la condotta omessa, l’evento sarebbe stato evitato. Il giudice ha infatti il compito di indagare allo scopo di accertare che, se il sanitario avesse compiuto l’azione doverosa, quest’ultima avrebbe scongiurato l’evento o, quantomeno, lo avrebbe ritardato. Occorre esaminare il nesso causale alla luce di un giudizio controfattuale. Il nesso di causalità sussiste quando la condotta doverosa avrebbe inciso in maniera positiva sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'