La mancata dimostrazione, a carico del datore di lavoro, dell’impossibilità del repêchage, ossia di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo conto, peraltro, non di tutti i compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solamente di quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale, determina l’illegittimità del licenziamento del lavoratore.
Tale principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30102 del 30 ottobre 2023.
IL CASO
I giudici d’appello, in riforma della sentenza appellata dall’associazione Alfa, rigettavano l'impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo proposta da Sempronia condannando la parte appellata alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.
I giudici di secondo grado rilevavano che la contrazione dell'attività dell'associazione che gestiva una casa di riposo era dimostrata dalle prove in atti, in particolare dal prospetto statistico relativo alla media degli ospiti presenti in struttura redatto dalla testimone Caia, segretaria amministrativa; in base a ciò, poteva ritenersi confermata la progressiva riduzione nel corso del tempo dell'afflusso di anziani presenti nella casa di riposo, tenuto conto degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni).
Non valeva a smentire tale assunto la circostanza accertata in giudizio circa l'impiego stabile, nella funzione di assistente tutelare, di personale della cooperativa cui erano stati esternalizzati solo i servizi di pulizia, trattandosi di un modus operandi in atto già da prima del licenziamento di Sempronia.
LA CENSURA
A questo punto, Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli articoli 3 e 5 della Legge 604/1966, relativamente all'articolo 360, n. 3 c.p.c. ed in subordine in relazione ai nn. 4 e 5, per non avere la Corte territoriale accertato l'impossibilità del repêchage ovvero di una differente collocazione della dipendente licenziata nonostante il contenuto del ricorso introduttivo e della sentenza di primo grado (che aveva correttamente concluso, sul punto, nel senso che il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’impossibilità del repêchage).
Resisteva con controricorso l’associazione Alfa.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione dava ragione alla lavoratrice Sempronia.
I giudici Ermellini specificavano che “Il giustificato motivo oggettivo è composto da tre elementi fondamentali: la soppressione del posto di lavoro in forza di una ragione organizzativa; il nesso causale tra la ragione addotta, la soppressione del posto e il lavoratore licenziato; la dimostrazione, a carico del datore di lavoro, della impossibilità del repêchage, e cioè di una proficua riutilizzazione del lavoratore in mansioni corrispondenti al proprio livello di inquadramento contrattuale o anche a mansioni inferiori tenendo in considerazione, peraltro, non tutti compiti astrattamente attribuibili al dipendente ma solo quelli coerenti con il proprio bagaglio tecnico professionale. La carenza anche soltanto di uno di questi elementi (o di più di uno) determina l’illegittimità del licenziamento”.
Nella vicenda esaminata, non era stato riscontrato alcun accertamento sull’impossibilità del repêchage, né poteva considerarsi fondata la tesi formulata in proposito nel controricorso, secondo cui i giudici d’appello avrebbero escluso la possibilità di un repêchage in modo implicito, avendo accertato la diminuzione dei ricoveri e della contrazione dell'attività ed avendo tenuto conto, ai fini occupazionali, degli standard organizzativi prescritti dalla convenzione stipulata con il Comune Beta (un ausiliario ai servizi tutelari per 15 utenti per 2 turni).
I giudici di legittimità chiarivano che il repêchage richiede un accertamento in concreto dell’organico presente in azienda all’epoca del licenziamento, piuttosto che la conformità a degli standard astratti e della impossibilità di una utile ricollocazione del dipendente in mansioni, anche inferiori, confacenti con il suo bagaglio professionale.
L’accertamento in questione non era stato effettuato dalla Corte, la quale si era soffermata sul numero degli utenti e degli addetti standard, senza invece esprimersi sulle unità lavorative presenti in azienda.
Dal canto suo, l’associazione controricorrente si era limitata a sostenere che Sempronia non aveva indicato l'esistenza di una posizione lavorativa disponibile, senza tuttavia considerare che, secondo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, mentre incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore (Cass. 12101/2016), restando escluso alcun onere di allegazione e prova in capo al lavoratore (Cass. n. 24882/2017).
In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva la censura della lavoratrice Sempronia.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza impugnata, in sede di rinvio, ed in riforma della sentenza del Tribunale, veniva rigettata la domanda proposta da Tizio nei confronti della società Alfa, volta, tra l’altro, all’accertamento della ingiustificatezza del licenziamento allo stesso intimato (in ragione della profonda riorganizzazione e ristrutturazione concernente diversi settori e funzioni dell’azienda), ed alla conseguente condanna della predetta società al pagamento, in suo favore, dell’indennità supplementare.
A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione, davanti alla quale deduceva, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 26 e 29 del c.c.n.l. per i dirigenti dipendenti delle imprese creditizie del 19 aprile 2005, in ordine all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale aveva erroneamente affermato che il licenziamento fosse giustificato ed aveva erroneamente statuito l’impossibilità di individuare ulteriori ambiti lavorativi adeguati all’inquadramento del dirigente.
La Suprema Corte dava torto a Tizio stabilendo che “In caso di licenziamento del dirigente d’azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro”.
Per gli Ermellini, andava esclusa la violazione denunziata in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., poiché nella pronunzia impugnata vi era un esplicito riferimento alla questione del repêchage, nella parte in cui era stato affermato che la legittimità del licenziamento impugnato deve essere vagliata alla stregua della nozione di “giustificatezza” propria del recesso nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, senza che possa darsi rilievo di per sé all’adempimento da parte del datore dell’onere di repêchage, onere quest’ultimo che risultava inapplicabile al rapporto di lavoro dedotto in giudizio.
Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, costituiscono presupposti di legittimità del recesso sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. ... Ciò comporta che l’onere probatorio del datore di lavoro deve necessariamente investire entrambi gli elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso, sia le ragioni economiche e sia l’impossibilità di cd. “repêchage”. (Cass. Civ. Sez. lav., 29/09/2022, n. 28399)
Il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica accompagnato dalla violazione dell'obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, integra l'ipotesi di difetto di giustificazione, suscettibile di reintegrazione, a norma dell'art. 18, comma 7, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 ... che è possibile quando risulti manifestamente insussistente il fatto posto a base dello stesso vale a dire che sia chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso. Al riguardo si è ritenuto che a tale nozione non possa essere ricondotto il caso in cui la prova sia meramente insufficiente ovvero quando non si possa ritenere legittimo il recesso in relazione all'esistenza di elementi di prova opinabili e non univoci. ... Del pari si è ritenuto che una insufficienza probatoria in ordine all'adempimento dell'obbligo di repéchage non potesse essere sussunta nell'alveo della manifesta insussistenza del fatto. (Cass. Civ. sez. lav., 21/03/2022, n. 9158)
Ai fini dell'obbligo del “repechage”, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell'organigramma aziendale ma solo quelle che siano compatibili con le competenze professionali del lavoratore, ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, senza che sia previsto un obbligo del datore di lavoro di fornire un'ulteriore o diversa formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro. (Cass. Civ. sez. lav., 23/02/2022, n. 5981)
Spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale. (Cass. Civ, 18/01/2022, n. 1386)
Nell’ipotesi di licenziamento del personale in servizio presso le aziende speciali delle Camere di commercio per giustificato motivo oggettivo, consistente nell’accertata impossibilità di prosecuzione dell’attività per grave dissesto economico, la giustificatezza del recesso non è esclusa dal mancato accorpamento con altre aziende speciali ex art. 3, comma 2, lett. b, del d.lgs. n. 219 del 2016, trattandosi di normativa speciale, che prevede l’aggregazione non come obbligatoria ma solo in presenza di determinati presupposti; né, rispetto alle altre aziende speciali, sono applicabili i principi in tema di obbligo di “repêchage”, trattandosi di un contesto plurisoggettivo (rispetto alla ricollocazione del lavoratore nella medesima azienda) caratterizzato dal perseguimento di interessi pubblicistici (rispetto al regime privatistico). (Cass. Civ. sez. lav., 12/03/2021, n. 7068)
In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugna il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repechage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti. Va poi ulteriormente precisato che l’onere probatorio a carico del datore di lavoro può essere assolto anche mediante ricorso a presunzioni. (Trib. Messina sez. lav., 10/03/2021, n. 555)
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 1386 del 18 gennaio 2022, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il datore di lavoro è tenuto a provare che, al momento del licenziamento del lavoratore, non vi fosse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti.
Tizia domandava di essere ammessa al passivo del fallimento della società Alfa per crediti derivanti dal proprio rapporto di lavoro subordinato con la predetta società: crediti ammontanti a complessivi euro 56.098,85 e riguardanti, oltre il TFR, le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla dichiarazione di fallimento, e ciò a titolo di risarcimento del danno ex art. 18, comma 3 legge n. 300/1970, nonché per quanto previsto, sempre a titolo risarcitorio, dallo stesso art. 18, comma 4.
Il giudice delegato ammetteva il solo credito relativo al trattamento di fine rapporto.
Il Tribunale di Roma respingeva con decreto l’opposizione allo stato passivo proposta da Tizia, rilevando che il licenziamento dell'istante, motivato dalla necessità di soppressione della mansione di arredatrice cui la stessa era stata adibita, fosse legittimo.
In ordine alla contestata sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, il giudice dell'opposizione osservava che la società fallita si era determinata alla risoluzione del rapporto di lavoro per la circostanza, confermata testimonialmente, della soppressione del posto di visual; in ordine, invece, all'onere, gravante sulla datrice di lavoro, di provare di non aver potuto adibire la dipendente ad una diversa mansione, il giudice capitolino osservava che la fallita aveva rinnovato alla ricorrente la proposta, già formulata in sede conciliativa, di destinare la stessa all'incarico di addetta alla vendita, proposta che non aveva avuto seguito.
Tizia si rivolgeva alla Cassazione, che, nell’accogliere il ricorso, richiamava consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale”, e sottolineava “l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento”.
Secondo gli Ermellini, il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo il licenziamento intimato si configura proprio in assenza di collocazioni alternative del lavoratore all'epoca del licenziamento stesso; questo può ritenersi legittimo ove la determinazione del datore di lavoro di recedere dal rapporto sia motivata dall'impossibilità di destinare il prestatore di lavoro a mansioni diverse, situazione che, per condizionare il valido esercizio del diritto potestativo del datore, deve evidentemente sussistere nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, deve prendere in considerazione tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in esubero o che sia divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli. È questo il cosiddetto obbligo di repechage (ripescaggio) che vige in capo al datore.
Dunque, il repechage è strettamente legato al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, consiste nel licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Difatti, nell’esercizio della sua attività d’impresa, il datore di lavoro, spinto da necessità economiche o di riorganizzazione (ad esempio, sopravvenuta inidoneità alla mansione, esternalizzazione di una certa attività, ecc.) può decidere di sopprimere una posizione lavorativa.
Qualora il lavoratore contesti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare di aver tentato il repechage, cioè dovrà dimostrare:
• che, al momento del licenziamento, i posti di lavoro residui erano occupati stabilmente e che, dopo il licenziamento, per un lungo periodo di tempo, non ha effettuato alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del dipendente licenziato;
• che il dipendente non possedeva la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda;
• che, al momento del licenziamento, non erano disponibili posizioni analoghe a quella soppressa e che il lavoratore non ha dato il suo consenso alla prospettata possibilità di reimpiego in mansioni inferiori, rientranti nel suo bagaglio professionale.
Nell’ipotesi di licenziamento di dirigenti la verifica del repechage non è invece necessaria.
La mancata prova dell'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore (cd. repêchage), gravante sul datore di lavoro, determina l'illegittimità del licenziamento, ma esula dal fatto posto a fondamento del licenziamento. Ne consegue l'applicazione del regime risarcitorio di cui all'art. 18, comma 7, St. lav., come novellato dalla L. n. 92/2012 (Trib. Milano, 28 novembre 2012).
Quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di un personale omogeneo e fungibile, non soccorre più il normale criterio costituito dalla "posizione lavorativa" da sopprimere in quanto non più necessaria e, tantomeno, soccorre il criterio della impossibilità di "repêchage", in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono quindi potenzialmente licenziabili: si tratta di un caso, in definitiva, in cui il nesso di causalità si configura non tra il motivo e la soppressione di un determinato posto di lavoro, ma tra il motivo e la soppressione dell'uno o dell'altro, indifferentemente, tra più posti di lavoro (App. Venezia, 31 ottobre 2012).
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (e soggettivo), il datore di lavoro deve dare al lavoratore il preavviso o, in mancanza, deve corrispondere la relativa indennità sostitutiva, equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Durante il periodo di preavviso continuano ad applicarsi le norme di legge e di contratto concernenti il rapporto di lavoro, proseguono gli effetti del contratto e persistono i doveri che incombono sul lavoratore nell'esecuzione del rapporto di lavoro.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'