Reddito di cittadinanza: non ha funzione di soccorrere chi si è rovinato con il gioco

La Corte evidenzia come non sia la povertà da ludopatia, ma piuttosto la ludopatia stessa a rappresentare uno di quegli ostacoli di fatto che è compito della Repubblica rimuovere
Rdc: omessa dichiarazione degli importi vinti al gioco on line Nel caso in esame e per quanto qui rileva, il Tribunale di Foggia ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, in riferimento agli artt. 2 e 27 Cost., nonché ai principi «di uguaglianza sostanziale» e «di tassatività» delle norme penali, di cui agli artt. 3, secondo comma, e 25 Cost. In particolare, il rimettente doveva decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio di un imputato al quale era stato, tra l’altro, contestato il delitto di cui all’art. 7, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, per avere omesso di comunicare, come prescritto dal parimenti censurato art. 3, comma 11, gli importi delle vincite da gioco on line conseguite nel 2019, anno in cui egli aveva percepito il beneficio del Rdc. Il rimettente aveva infatti rilevato come la fattispecie incriminatrice in questione avrebbe violato il principio di tassatività, prevedendo la punizione per l’omessa dichiarazione e comunicazione di «informazioni dovute», ma «senza fare alcun riferimento [a] cosa debba essere ricompreso» in tale locuzione. Inoltre, la disposizione di cui all’art. 7, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, si porrebbe in contrasto con il suddetto principio anche perché, pur richiamando il precedente art. 3, comma 11, «in alcun modo indic[herebbe] le modalità con cui comunicare» le vincite.
Tassatività delle informazioni reddituali per l’accesso al Rdc La Corte Costituzionale con sentenza n. 54/2024 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 e non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019.
La Consulta, dopo aver ripercorso i fatti di causa ed esposto le specifiche questioni di legittimità costituzionale alla stessa sottoposte, ha anzitutto ricordato che «In materia penale, questa Corte è particolarmente attenta al rispetto dei requisiti minimi di chiarezza e precisione che debbono possedere le disposizioni incriminatrici, «in forza – in particolare – del principio di legalità e tassatività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.» (…), da cui deriva un «imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di “formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati”». Nella specie, ha proseguito la Corte, la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che l’impiego «di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del suddetto parametro costituzionale, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice (..) di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo». Sulla scorta di tali premesse il Giudice delle leggi ha affermato che «l’espressione “informazioni dovute” che compare nella descrizione della fattispecie incriminatrice (in esame), per quanto sommaria e non ulteriormente declinata in contenuti analitici, non può che collegarsi in via immediata ai requisiti previsti per l’accesso e per il godimento continuativo del Rdc, stabiliti dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito». In particolare, ai fini del giudizio sottoposto alla Consulta, rilevano gli elementi reddituali e patrimoniali declinati dalla lettera b) del suddetto comma 1 e che sono commisurati al valore dell’ISEE alla cui determinazione provvede l’INPS, così come previsto dall’art. 11, comma 4, del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159. In particolare, tra le componenti reddituali da prendere in considerazione, ha precisato la Corte, rientrano anche le vincite da gioco, rispetto alle quali il regime tributario è quello della ritenuta a titolo d’imposta. In ragione del quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, la Corte ha pertanto affermato che «Da quanto fin qui esposto emerge che, nonostante una complessa serie di rimandi normativi, è comunque possibile individuare con precisione le “informazioni dovute”, la cui omessa dichiarazione o comunicazione integra le fattispecie penali di cui all’art. 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito». Con la conseguenza che “Le disposizioni censurate non possono dunque ritenersi, in ultima analisi, in contraddizione con il principio di tassatività».
Vincite lorde da gioco: superamento delle soglie reddituali per l’accesso al Rdc Per quanto invece attiene alla seconda questione di legittimità costituzionale sollevata dall’ordinanza di rimessione, viene in rilievo il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che definisce «compito della Repubblica» rimuovere gli ostacoli che limitano «di fatto (…) la libertà e l’eguaglianza» e impediscono «il pieno sviluppo della persona umana». Rispetto alla presunta violazione del principio d’uguaglianza in questione, il Giudice delle leggi ha ripercorso alcuni precedenti formatesi in seno alla stessa Corte, con cui era stato affermato che «il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale». In tale ottica, ha precisato la Corte, appare coerente la previsione, contenuta nell’art. 5, comma 6, sesto periodo, del d.l. n. 4 del 2019, che «[a]l fine di prevenire e contrastare fenomeni di impoverimento e l’insorgenza dei disturbi da gioco d’azzardo (DGA), [ha] in ogni caso fatto divieto di utilizzo del beneficio economico per giochi che prevedono vincite in denaro o altre utilità». In tale accezione la Corte ha dunque ritenuto che «il Rdc risulta strutturato in modo da non poter venire in aiuto alle persone che, in forza delle vincite lorde da gioco conseguite nel periodo precedente alla richiesta, superino le soglie reddituali di accesso, anche se, a causa delle perdite subite, sono rimaste comunque povere. Da ciò consegue, non irragionevolmente, la pena prevista dall’indubbiato art. 7, comma 1, di chi, ai fini dell’ammissione al beneficio, non dichiari le vincite lorde ottenute rilevanti per la determinazione dell’ISEE». In definitiva, la Corte ha rilevato come non sia «configurabile la violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., evocato dal rimettente, in quanto non è irragionevole che il legislatore abbia escluso che sia compito della Repubblica quello di assegnare il Rdc a chi, poco prima, si è rovinato con il gioco». In tale ottica «L’eventuale situazione di povertà in cui la persona si sia venuta a trovare nonostante le vincite è (…) comunque quella di chi, avendo una disponibilità economica, l’ha dissipata giocando». In conclusione, la Consulta ha ricordato come «non è la povertà da ludopatia, ma è piuttosto la ludopatia stessa a rappresentare uno di quegli ostacoli di fatto che è compito della Repubblica rimuovere».