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IL DATORE NON È TENUTO A RISPONDERE ALL’ISPETTORATO IN CASO DI RICHIESTE GENERICHE

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Non si configura il reato di omessa risposta alle richieste di informazioni dell'ispettorato del lavoro, ex art. 4 L. 628/1961, qualora il datore di lavoro, al quale sia stata genericamente richiesta la trasmissione della documentazione di lavoro, non fornisca notizie all’organo ispettivo. Ciò è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 46032 del 16 dicembre 2021. Nella vicenda in esame, un datore di lavoro veniva assolto dal Tribunale sulla base dell’articolo 131-bis del Codice penale per particolare tenuità del fatto; tuttavia, il Tribunale riconosceva la violazione del citato articolo 4, dal momento che il datore non aveva ottemperato, quale legale responsabile, alla richiesta dell’Ispettorato del lavoro, con verbale di primo accesso, di fornire notizie in materia di personale occupato, tutela del rapporto di lavoro e legislazione sociale. La Suprema Corte annullava la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto sussistente il reato di omessa risposta alle richieste di informazioni dell'ispettorato del lavoro. In particolare, gli Ermellini sottolineavano che la condotta del datore risulta penalmente rilevante principalmente nel caso in cui la mancata risposta all’ispettorato del lavoro riguardi richieste di informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell’agenzia. Altresì, secondo i giudici di legittimità, il reato in questione si configura anche nell’ipotesi di omessa esibizione di documenti richiesti dall’Ispettorato nell'esercizio dei compiti di vigilanza, come pure nel caso di richiesta di informazioni avvenuta nel contesto delle indagini di polizia amministrativa. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso dell’imputato, prosciogliendolo dall’accusa che gli era stata mossa. Difatti, per la Suprema Corte “è penalmente sanzionata solo la mancata risposta a richieste di informazioni specifiche e strumentali rispetto ai compiti di vigilanza e di controllo dell’ispettorato medesimo”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


CONCORSO ANOMALO: COS’È?

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Il concorso anomalo trova la sua disciplina nell’art. 116 c.p., il quale dispone che “Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”. Trattasi di una forma particolare di aberratio delicti (art. 83 c.p.), in cui, a differenza di quest'ultima, non sussiste un errore nei mezzi di esecuzione del reato, dal momento che qui il reato deve essere voluto da uno dei correi. Affinché sussista il concorso anomalo devono ricorrere i seguenti tre requisiti: • l’adesione psichica dell’agente ad un reato concorsuale diverso; • la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso; • un nesso psicologico in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi (Cass., I, 23 febbraio 1995, n. 3381). Non è sufficiente un rapporto di causalità materiale fra la condotta dell’agente e l’evento diverso, bensì occorre vi sia un nesso eziologico di natura psichica, nel senso che il reato diverso commesso dal compartecipe deve rappresentarsi alla psiche dell’agente come sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Il presupposto per l’applicabilità al concorrente che ha voluto il reato diverso della minore responsabilità anomala prevista dall’art. 116 c.p. è che tale fatto non sia stato voluto neppure a titolo di dolo e, dunque, che non sia stato già ritenuto come possibile conseguenza ulteriore o diversa della condotta criminosa concordata e non sia stato accettato il rischio del suo verificarsi. Contrariamente, infatti, si parla di concorso pieno ex art. 110 c.p. “Non ricorre la fattispecie del così detto «concorso anomalo» di cui all'art. 116 c.p., bensì quella prevista all'art. 48 c.p. nel caso in cui si accerti che i concorrenti non abbiano avuto ab origine un accordo criminoso comune - inteso come convergenza delle volontà dei soggetti in concorso - ed il reato sia stato realizzato in conformità della reale intenzione di un concorrente dissimulata all'altro” (Cass. Pen., n. 15481/2004).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


REVENGE PORN: COS’È?

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Con il termine revenge porn si intende la condivisione pubblica di immagini o video intimi attraverso internet, senza il consenso dei protagonisti degli stessi. In Italia la legge contro il revenge porn è entrata in vigore il 9 agosto 2019, con il titolo di "Codice Rosso". Detta legge, introducendo nuove disposizioni per la tutela contro la violenza domestica e di genere, prevede sanzioni per il fenomeno, stabilendo all'art. 10 che “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro danno. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”. Integrano il reato di revenge porn due specifiche condotte: • la realizzazione o la sottrazione e la successiva diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso delle persone rappresentate; • la diffusione di foto o video ricevuti o acquisiti. Nel primo caso, chi diffonde il materiale a contenuto sessualmente esplicito è lo stesso autore delle foto e dei video. Circostanza ancora più grave si ha quando il materiale viene sottratto alla persona rappresentata nelle immagini diffuse. In entrambe le ipotesi, trattasi di detenzione di materiale di “prima mano”, la cui divulgazione avviene mediante gli strumenti telematici. La seconda ipotesi di reato concerne chi ha ricevuto il materiale sessualmente esplicito realizzato da terzi. In tal caso si parla di detenzione di “seconda mano” e la condotta successiva consiste nella diffusione del materiale. Qui il dolo è specifico e non generico. Come spiega l’articolo suesposto, detto reato è procedibile a querela di parte e la vittima può sporgere querela entro 6 mesi dal momento in cui ha avuto conoscenza della diffusione del materiale sessualmente esplicito o se i fatti sono connessi con altri reati perseguibili d’ufficio. Nel reato di revenge porn, una volta presentata, la querela non può essere ritirata, anzi, il Codice Penale specifica che la remissione può essere soltanto processuale.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È RESPONSABILE DEL REATO DI LESIONI PERSONALI COLPOSE IL PADRONE DEL CANE CHE SCAPPANDO AGGREDISCE UN PASSANTE

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Con la sentenza n. 13464/2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al reato di lesioni personali colpose, stabilendo che risponde di detto reato il detentore di un cane che, fuggendo dalla sfera di controllo del suo padrone, morde un passante. La vicenda traeva origine dalla decisione del Giudice di Pace, con la quale una donna veniva condannata per il reato di cui all’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose). L’imputata, nell’aprire il cancello elettrico di casa, non era riuscita ad impedire al suo cane di grossa taglia di scappare in strada e di mordere un passante. Per il giudice, la donna, non avendo adottato le cautele necessarie alla custodia di un cane di grossa taglia, aveva omesso di impedire che l’animale mordesse un passante, provocandogli una ferita alla gamba. Il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale l’imputata lamentava il vizio di violazione di legge in ordine agli artt. 43 e 590 cod. pen., 125, comma 3, 192, commi 1 e 2, 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., nonché il vizio motivazionale. Secondo la donna, il giudice di merito si era limitato ad una mera ricostruzione del fatto senza procedere al doveroso approfondimento sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Asseriva che non erano stati correttamente applicati i principi di diritto in tema di omessa custodia di animali, che impongono l’accertamento della loro effettiva pericolosità. Infine, contestava il fatto che non era stato operato alcun giudizio sul tema della prevedibilità in concreto circa la condotta aggressiva dell’animale. Il Tribunale Supremo, ritenendo il ricorso privo di fondamento, lo rigettava. Più nello specifico, gli Ermellini confermavano consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, al fine di escludere la colpa rappresentata dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia di un animale, “non è sufficiente che esso si trovi in un luogo privato e recintato, ma è necessario che tale luogo abbia caratteristiche idonee ad evitare che l'animale possa sottrarsi alla custodia e al controllo, superare la recinzione, raggiungere la pubblica via ed arrecare danno a terzi” (Cass. Pen., n. 47141/2007; Cass. Pen., n. 14829/2006).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'