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L’ISTITUTO DEL SILENZIO ASSENSO E IL SUO AMBITO DI APPLICAZIONE

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Il silenzio assenso ricorre in tutti i casi in cui il legislatore attribuisce all'inerzia dell'amministrazione il valore di provvedimento di accoglimento dell'istanza presentata dal privato. Esso, pertanto, costituisce un vantaggio per il privato, il quale ottiene implicitamente l’autorizzazione allo svolgimento della sua attività senza subire i ritardi della azione amministrativa. Tale istituto rappresenta uno strumento efficace di semplificazione dell’attività amministrativa, dal momento che la logica che lo presiede è quella di fornire un rimedio al comportamento inerte della pubblica amministrazione. La figura del silenzio assenso costituisce la più rilevante tra le ipotesi di silenzio significativo, in considerazione dell'ampia previsione di carattere generale contenuta nell'attuale testo dell'art. 20 della legge 241/90 (come modificato dall'art. 3, comma 6 ter, del decreto legge, n. 35/2005, convertito nella legge n. 80/2005). La norma stabilisce che, “Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19 [che attiene alla dichiarazione di inizio attività], nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2”. Nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio assenso è un istituto di carattere generale, nel senso che esso opera senza necessità di una espressa previsione. L’istituto del silenzio assenso incontra però alcune limitazioni. Quando si parla, ad esempio, di difesa e sicurezza nazionale, tutela della salute, ambiente e patrimonio culturale, il silenzio assenso non trova applicazione. Sebbene tale istituto consenta sicuramente al cittadino di evitare conseguenze negative a causa dell’inerzia della Pubblica Amministrazione, la mancanza dell’atto scritto e, dunque, di una motivazione, non permette di effettuare delle verifiche in merito, pregiudicando non solo il buon andamento della P.A., ma pure le ragioni del soggetto privato. A tal proposito è opportuno annoverare una importante pronuncia del Consiglio di Stato, secondo cui “Il silenzio assenso su una domanda di sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 39, L. n. 724/1994 si può produrre solo se per il rilascio della sanatoria vi siano tutti i requisiti formali e sostanziali, e in particolare risulti che le opere in questione sono state ultimate alla data prevista” (Cons. St., sent. n. 5384 del 2019). In materia, invece, di condono di abusi edilizi, “deve ritenersi che il silenzio assenso si venga a formare solo nel caso in cui, quantomeno al momento dell'istanza, il manufatto, ancorché incompleto, sia pur sempre riferibile all'abuso per il quale è stato proposto il condono, in quanto in caso contrario si verificherebbe la manifesta inammissibilità dell'istanza per indeterminatezza dell'opera condonata, per cui non si potrebbe mai legittimamente formare il predetto silenzio accoglimento. Pertanto, in relazione al completamento funzionale del manufatto è necessario che, entro la predetta data, siano stati realizzati quei lavori che consentono di ritenere che il bene sia adeguato all'uso” (Cons. St., sent. n. 4182 del 2013). Altre ipotesi di esclusione del silenzio assenso possono essere individuate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti. La P.A. mantiene il potere, entro il termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, di promuovere una conferenza di servizi che impedisce la formazione del silenzio assenso e conserva, altresì, il potere di assumere determinazioni in autotutela, vale a dire, provvedimenti di annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies L. n. 241 del 1990 o provvedimenti di revoca ex art. 21 quinquies. Secondo un’altra importante sentenza del Consiglio di Stato (n. 3805/2016), “è possibile l'applicazione del silenzio assenso solo ai casi di attività vincolata della P.A., poiché in questi casi l'effettivo possesso dei requisiti previsti dalla legge rende possibile l'avvio dell'attività sottoposta ad autorizzazione, e rende altresì possibile ogni successivo accertamento ed esercizio di poteri di autotutela o inibitori. Al contrario, nel caso di poteri discrezionali, la valutazione e la conseguente scelta della misura concreta da adottare per il perseguimento dell'interesse pubblico (per la tutela del quale il potere è stato conferito), non verrebbero ad essere effettuate da alcuno, determinandosi sia che in luogo dell'Autorità decida, in pratica, il tempo (e il caso), sia, soprattutto, una sostanziale decadenza dall'esercizio di potestà pubbliche”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L’ISTITUTO DEL “SOCCORSO ISTRUTTORIO”

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Il soccorso istruttorio rappresenta una delle espressioni peculiari della dialettica partecipativa tra privato e pubblica amministrazione, e, ancor prima di rivestire un ruolo centrale nelle pubbliche gare di appalto, è un istituto generale del procedimento amministrativo. L’istituto del soccorso istruttorio affonda le sue radici nell’articolo 6 della legge 241/1990, applicabile a qualsiasi procedimento amministrativo e avente lo scopo di colmare lacune documentali, rettificare dichiarazioni o emendare errori che dovessero emergere in fase istruttoria. Nell’ambito delle istruttorie procedimentali, il responsabile del procedimento “può chiedere il rilascio di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali”. Oggi tale istituto è disciplinato dall’art. 83, comma 9, del Codice dei contratti pubblici (disposizione da ultimo modificata dall’articolo 52, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 56 del 2017) e consente, in sintesi, la sanatoria delle “carenze di qualsiasi elemento formale della domanda”. Il soccorso istruttorio, però, incontra due limiti ben precisi: 1) non sono sanabili le mancanze, le incompletezze e le irregolarità che afferiscono all’offerta economica e a quella tecnica; 2) non sono sanabili quelle carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa. Nel “vecchio” codice degli appalti (l’art. 38, comma 2 bis, del d.lgs. n. 163/2006), l’istituto prevedeva che “la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara”. In presenza di irregolarità essenziali la disposizione stabiliva che il concorrente, il quale non voleva essere escluso dalla procedura, dovesse non soltanto pagare la sanzione pecuniaria nell’importo stabilito dal bando di gara e garantito dalla cauzione provvisoria, ma anche inviare nei termini stabiliti dalla stazione appaltante i documenti richiesti. Se poi il termine assegnato dalla stazione appaltante fosse decorso inutilmente senza che il concorrente avesse provveduto alla regolarizzazione o integrazione richiesta, questi veniva escluso dalla procedura di gara, non dovendo pagare la sanzione pecuniaria. Il Consiglio di Stato afferma che l’istituto del soccorso istruttorio possa operare, qualora non sia stato già attivato dalla stazione appaltante in sede di gara, anche nel processo amministrativo, a garanzia del principio di effettività della tutela. L’istituto rappresenta, infatti, uno strumento di rimedio che la stazione appaltante deve attivare al fine di consentire all’operatore economico di integrare la domanda carente di un requisito formale, consentendogli di dimostrare, dunque, il possesso dei requisiti sostanziali per partecipare alla gara. Qualora non sia stata attivata la suddetta doverosa procedura, è il giudice a dover fare la verifica (mancata nel corso della procedura di gara) volta a verificare se il vizio in questione sia esclusivamente formale oppure, al contrario, abbia carattere sostanziale. La circostanza che a effettuare la verifica sia il giudice e non la pubblica amministrazione implica che la stessa potrà essere attuata solo ove si tratti di operare un mero accertamento di sussistenza o meno del requisito mancante (ossia nel caso di attività vincolata); diversamente, se la verifica dovesse comportare anche valutazioni di carattere discrezionale, il giudice dovrà annullare l’aggiudicazione e disporre la riedizione della gara (non potendosi sostituire alla stazione appaltante). Per quanto concerne le modalità processuali, l’impresa, che intenda contestare l’esclusione dalla procedura di gara per mancato ricorso al soccorso istruttorio e invocare validamente in sede processuale lo stesso, deve provare in giudizio che l’istituto avrebbe avuto esito ad essa favorevole, qualora fosse stato attivato dalla stazione appaltante nel corso della gara, possedendo essa il requisito in contestazione. Ciò significa che è a carico del concorrente, nei cui confronti è invocata la sussistenza di una causa di esclusione per carenza dei requisiti di partecipazione, provare che possiede il requisito sostanziale di partecipazione fin dal momento in cui avrebbe dovuto rendere la documentazione di fatto mancante e che, dunque, si è trattato di una mera irregolarità documentale o dichiarativa, in ossequio ai principi generali in materia di riparto dell’onere probatorio ai sensi dell’articolo 2697 cod. civ. e, in particolare, al principio di prossimità o vicinanza della prova (Cons. St., sez. III, sent. n. 348/2019).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'