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Accusa ingiusta e prescrizione del risarcimento dei danni

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Con la sentenza n. 5650/2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla prescrizione del diritto al risarcimento del danno per ingiusta accusa spettante all’imputato assolto dal giudice. I giudici di legittimità hanno sottolineato che l’autonomia dei processi concerne i rapporti tra i due procedimenti, che in sostanza non si influenzano; l’individuazione del dies a quo della prescrizione dell’azione civile, piuttosto che dalla regola della separazione dei due giudizi, dipende da un criterio esclusivamente civilistico. Vi sono casi nei quali la prescrizione si ritiene decorrere, ad esempio, dalla falsità della denunzia in caso di calunnia, oppure dall’innestarsi della comparsa del danno psico-fisico nella vittima di violenza carnale. Pertanto, l’individuazione del dies a quo è basata sulla consapevolezza dell’accusato di aver subito un’ingiusta accusa e varia a seconda dei casi. È sbagliato supporre che, ove fosse necessaria la sentenza penale per la consapevolezza, allora bisognerebbe attendere il passaggio in giudicato, divenendo così la sentenza e non il danno l’elemento costitutivo dell’illecito civile. Occorre distinguere i casi nei quali il danneggiato da un reato è egli stesso imputato nel processo penale, dai casi nei quali non lo è. Nel caso di vittima non imputata, è ragionevole supporre che al momento del rinvio a giudizio dell’autore del reato, la vittima possa avere una consapevolezza di aver subito il danno o che si tratti di danno ingiusto. Contrariamente, nell’ipotesi di vittima imputata, le parti sono invertite (il danneggiato è l’imputato e l’autore dell’illecito è parte civile), quindi il danneggiato dovrebbe avere la consapevolezza di essere tale, cioè di essere stato ingiustamente accusato, dal suo stesso rinvio a giudizio. In tal caso, il rinvio a giudizio indica la responsabilità del danneggiato, a differenza del caso tipico di vittima di illecito penale, ove il rinvio a giudizio indica la responsabilità altrui (del danneggiante). Per gli Ermellini, “La prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dal momento in cui il danneggiato ha avuto reale e concreta percezione dell’esistenza e gravità del danno stesso, nonché della sua addebitabilità ad un determinato soggetto, ovvero nel momento in cui avrebbe potuto avere tale percezione usando l’ordinaria diligenza. Si richiede, inoltre, che il danneggiato abbia consapevolezza del fatto che il danno è non solo causalmente riferibile ad un determinato autore, ma anche che lo è dal punto di vista soggettivo, del dolo e della colpa”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


DANNO DA DEPRIVAZIONE GENITORIALE E TERMINE DI PRESCRIZIONE

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Come è noto, per danno da deprivazione genitoriale si intende il pregiudizio sofferto con la violazione degli obblighi dei genitori verso la prole. Con la sentenza n. 40335 del 16 dicembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi in tema di illecito endofamiliare, ha affermato che il termine di prescrizione del danno da deprivazione genitoriale non decorre dal raggiungimento della maggiore età, in quanto occorre l’indipendenza psicologica del figlio. Secondo i giudici di legittimità, “l'illecito endofamiliare di protratto abbandono della prole da parte del genitore è una forma di illecito rispetto al quale la concreta capacità della persona danneggiata di esercitare il diritto risarcitorio - id est, la concreta percepibilità completa del danno - assume un peculiare rilievo, derivante dalla natura parimenti peculiare, del danno. Tale illecito infatti produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologicoesistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa”. La natura della condotta illecita, perlomeno nell’ipotesi in cui il disinteresse completo inizi dalla nascita del figlio, ha la particolarità di ledere la formazione della personalità del figlio stesso, e quindi di incidere sull'acquisizione della capacità di percepire correttamente e reagire di conseguenza. Per acquisirla è necessario che “la vittima dell’abbandono si svincoli dall'incidenza percettiva e comportamentale del notorio istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo con il genitore, per raggiungere una “maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”, per “maturità personale compatibile” dovendosi intendere - è ovvio - pienamente autonoma, e quindi capace di percepire la reale situazione a sé pregiudizievole e di assumere reattive decisioni di contrasto con la persona “desiderata”. Ovvero, accettare psicologicamente la illiceità della condotta del genitore e chiedere il risarcimento dei danni subiti quale figlio rifiutato del genitore che l'ha posta in essere”. Dunque, secondo gli Ermellini, il rifiuto della genitorialità altro non è che un illecito permanente, il quale si verifica momento per momento sino al raggiungimento non della maggiore età, bensì dell’indipendenza psicologica del figlio, che per convenzione viene fatta coincidere con il raggiungimento dell’indipendenza economica dello stesso. Affinché raggiunga l’indipendenza psicologica, il figlio deve superare il desiderio di ricongiunzione con il genitore e raggiungere una maturità personale che gli consenta di accettare psicologicamente l’illiceità della condotta del genitore e domandare il risarcimento dei danni patiti in quanto vittima di abbandono.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


SULL’INDENNITÀ DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO: IL PUNTO DELLA SUPREMA CORTE

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"In caso di cessazione del rapporto di lavoro, le indennità spettanti sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 n. 5 cod. civ. e non all'ordinario termine decennale, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, dell'indennità medesima, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato, in essere, in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto". Ciò è quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 14062 del 21 maggio 2021. Secondo i Giudici di piazza Cavour, l'art. 2948 n. 5 c.c., nel sancire che le indennità che spettano per la cessazione del rapporto di lavoro si prescrivono in cinque anni, trova la sua ragione giustificativa nell'opportunità di sottoporre a prescrizione breve i diritti del lavoratore che sopravvivano al rapporto di lavoro, poiché sorti nel momento della sua cessazione, e di evitare in tal modo le difficoltà probatorie che derivano dall'esercizio delle relative azioni troppo ritardate rispetto all'estinzione del rapporto sostanziale. Detta ratio legis sussiste per qualunque tipo di indennità, sia di natura retributiva sia previdenziale ed anche nell’ipotesi in cui si tratti di rapporto parasubordinato, quando sia a carico del datore di lavoro. L'assenza di distinzioni nell'art. 2948 n. 5 c.c. induce ad includere nella sua previsione qualunque credito del prestatore di lavoro, purché esso trovi causa nella cessazione del rapporto. Già il Tribunale Supremo (Cass. n. 10923/1994) aveva esplicitamente escluso che l'art. 2948 n. 5 c.c. potesse essere interpretato in senso restrittivo, nel senso della sua applicabilità unicamente ai crediti sorti nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato. A tal proposito aveva sottolineato, da una parte e sotto un profilo sistematico, che il Libro V del Codice Civile (Del Lavoro) disciplina varie forme di attività lavorative e, in particolare, il lavoro subordinato (Titolo II), il lavoro autonomo (Titolo III ) ed il lavoro subordinato in particolari rapporti (Titolo IV); dall’altra, aveva specificato la genericità della formula utilizzata dal legislatore nell'art. 2948 n. 5 c.c. ("le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro"), genericità ritenuta tanto più rilevante nella considerazione che le indennità di fine rapporto non sono previste soltanto nel rapporto di lavoro subordinato, bensì anche in altre forme contrattuali, che pure prevedono il regolamento di un'attività lavorativa: premesse, di ordine sistematico e logico, sulle quali ha concluso che l'art. 2948 n. 5 dovesse essere interpretato nel senso che la prescrizione quinquennale concerne tutte "le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro", senza la limitazione a quelle inerenti il rapporto di lavoro subordinato.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'