Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale . (Cass. Civ. Sez. lav., 11/11/2022, n. 33424)
Concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro; inoltre, è stato altresì precisato che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 cc, non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finirebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo. (Trib. Monza sez. lav., 23/03/2022, n. 108)
La naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile in quanto il legislatore non ha stabilito – in caso contrario – la sanzione della nullità espressa come diretta a tutelare un interesse pubblico generale; ne consegue che la mancata previsione di un corrispettivo non rende nullo il patto né consente la sostituzione della lacuna con la disciplina legale. (Corte App. Venezia sez. lav., 22/02/2022, n. 26)
In tema di accertamento della violazione del patto di non concorrenza, ciò che rileva non è la forma in cui l’attività lavorativa sia prestata, se mediante lavoro subordinato o autonomo o ancora attraverso l’esercizio di una vera e propria impresa, ma l’attività in sé considerata, in un settore che possa definirsi come tale in concorrenza con il precedente datore di lavoro. (Trib. Forlì sez. lav., 05/10/2021, n. 216)
La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta – in base a quanto previsto dall’art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost. – entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo. Ne consegue che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita. (Cass. Civ. sez. lav., 01/09/2021, n. 23723)
In tema di patto di non concorrenza, la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo – quale vizio del requisito generale prescritto dall’art. 1346 c.c. – e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo «non è pattuito», ovvero sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, operano su piani distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. (Cass. Civ. sez. lav., 01/03/2021, n. 5540)
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 22247/2021, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza.
Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale con cui era stata accertata l'insussistenza della giusta causa delle dimissioni, rassegnate da Tizio, ex dipendente della società Alfa e, per l'effetto, lo aveva condannato a pagare la indennità sostitutiva di preavviso, pari ad euro 43.551,75, oltre accessori, la penale di euro 287.103,00 per ciascuna violazione del divieto di storno e del patto di non concorrenza e a restituire il corrispettivo percepito per il patto suddetto, pari ad euro 48.373,99, sempre oltre accessori, rigettando anche le altre richieste formulate dalla società, nonché la domanda riconvenzionale spiegata da Tizio.
I giudici di merito rilevavano che le dimissioni di Tizio erano prive di giusta causa ed erano state rassegnate al solo scopo di passare alle dipendenze della nuova società datrice, ove il dipendente aveva fatto transitare alcuni clienti della società Alfa.
Tizio si rivolgeva così alla Suprema Corte di Cassazione, che, confermando la statuizione della Corte territoriale, rigettava il ricorso.
In particolare, gli Ermellini stabilivano che la disposizione di cui all'art. 2125 c.c. non può estendersi anche alla previsione contrattuale del divieto di storno di clienti, in quanto “il patto di non concorrenza ex art. 2125 cod. civ. e la clausola contrattuale contenente il divieto di storno di clientela vietano due condotte differenti: la prima, infatti, proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice, anche al termine del rapporto di lavoro ed ha durata, nel caso de quo, limitata a tre mesi dalla cessazione dello stesso; la seconda, invece, impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela storica verso un'altra impresa datrice, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società”.
Secondo i Giudici di piazza Cavour, i giudici di merito avevano correttamente ritenuto l’indipendenza delle due clausole (patto di non concorrenza e divieto di storno di clienti), la loro autonomia nella fonte normativa regolatrice le singole fattispecie e la loro singola violazione avvenuta attraverso condotte distinte, per tempi e modi, sebbene connesse sotto l'aspetto teleologico.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 5540 dell’1 marzo 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha trattato il tema relativo al patto di non concorrenza, soffermandosi in particolare sulla sua nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo spettante al prestatore di lavoro.
Più nello specifico, il Tribunale Supremo ha stabilito che il patto di non concorrenza è una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta, dal momento che configura un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e quest’ultimo si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto lavorativo, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore.
Dal punto di vista degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, le clausole di non concorrenza, da una parte hanno lo scopo di tutelare l'imprenditore da qualsiasi "esportazione presso imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, dall’altra, quello di salvaguardare il prestatore subordinato, affinché queste clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni considerate più convenienti.
Secondo gli Ermellini, il patto di non concorrenza, sebbene stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo sotto il profilo prettamente causale, pertanto il corrispettivo con esso stabilito, in quanto diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere solamente i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c. e, dunque, deve essere "determinato o determinabile".
Inoltre, “operano su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall'art. 1346 c.c. per ogni contratto, e la nullità per violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo "non è pattuito" ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato”.
Salva l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c., "l'espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato".
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'