Con l’ordinanza n. 27846 del 3 ottobre 2023, la Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in materia condominiale, ha chiarito che la terrazza a livello è bene di proprietà del condominio.
IL CASO
Il Tribunale rigettava l’appello proposto da Tizio alla sentenza del Giudice di Pace, che aveva rigettato la sua impugnazione alla delibera dell’assemblea del condominio Alfa.
La delibera aveva preso atto delle infiltrazioni di acqua provenienti dalla terrazza del condomino Caio verso il sottostante immobile del condomino Sempronio, del degrado del parapetto e del cornicione della medesima terrazza e, con l’astensione dalla votazione del condomino Tizio, aveva deliberato di eseguire i lavori di ripristino della pavimentazione della terrazza, del cornicione e del parapetto, approvando le relative spese e il loro riparto.
Il giudice di merito:
• rilevava che si trattasse di terrazza a livello, con caratteristiche assimilabili a quelle del lastrico solare, dal momento che la terrazza si trovava alla sommità dell’edificio, era direttamente accessibile dall’unità immobiliare adiacente, di proprietà del condomino Caio, e svolgeva funzione di copertura dell’edificio, sebbene solo parzialmente, essendo circondata dal tetto;
• rilevava che l’uso esclusivo della terrazza che ne faceva il proprietario dell’unità immobiliare annessa non rendesse il lastrico di proprietà esclusiva, ma incidesse solamente sulla ripartizione delle spese;
• ritenuto che i lavori di manutenzione erano stati determinati dalle infiltrazioni di acqua provenienti dal lastrico, dovute al deterioramento della guaina impermeabilizzante, e avevano avuto a oggetto la pavimentazione, il parapetto e il cornicione e perciò la struttura del lastrico di proprietà comune, rigettava la censura dell’appellante secondo cui si trattava di spese in favore della proprietà esclusiva e considerava legittima l’applicazione del criterio di riparto previsto dall’art. 1126 c.c.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Tizio si rivolgeva alla Cassazione, la quale gli dava torto.
I giudici di legittimità precisavano che “La terrazza a livello, con funzione di copertura dei vani sottostanti, deve ritenersi bene di proprietà condominiale ex art. 1117 cod. civ. in quanto, svolgendo la medesima funzione del lastrico solare, è necessaria all’esistenza stessa del fabbricato; non osta a tale conclusione la circostanza che a essa si acceda da un appartamento contiguo, al cui servizio pertinenziale la terrazza sia destinata, perché occorre che la deroga all’attribuzione legale al condominio, con assegnazione della terrazza a livello in proprietà risulti da uno specifico titolo”.
Per gli Ermellini, “Per titolo, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, non si intende il titolo del soggetto individuato come proprietario della terrazza, ma deve intendersi l'atto costitutivo del condominio -ossia il primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell'edificio in più proprietà individuali-, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l'alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d'acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni”.
In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Cass. Civ., sez. VI, ord. n. 16613 del 23/05/2022
Il Tribunale accoglieva l’appello proposto da Tizia avverso la sentenza del Giudice di Pace con cui era stata respinta l’opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio Alfa nei confronti dell’appellante per il pagamento delle spese condominiali. Secondo il Tribunale, era fondato il motivo di appello di Tizia relativo al proprio difetto di legittimazione passiva rispetto alle pretese creditorie avanzate dal condominio, dal momento che la stessa era mera assegnataria della casa familiare – di proprietà esclusiva del coniuge - a seguito di separazione personale. Il giudice di secondo grado osservava che le deliberazioni assembleari con le quali vengono ripartite le spese condominiali sono azionabili solo verso i condòmini, poiché unici legittimati a partecipare all’assemblea medesima esercitando il diritto di voto. Altresì, secondo il Tribunale, il soggetto assegnatario della casa coniugale acquista un semplice diritto di godimento sul bene, inidoneo a far gravare sull’assegnatario stesso l’obbligo di pagamento delle spese condominiali. Per il giudice del gravame, il principio secondo il quale le spese condominiali che riguardano la casa familiare oggetto di provvedimento di assegnazione rimangono a carico dell’assegnatario, ha effetto esclusivamente nei rapporti interni fra i coniugi e non è per nulla rilevante nei confronti del condominio. Dunque, il giudice di secondo grado riformava la sentenza del Giudice di pace e revocava il decreto ingiuntivo intimato dal condominio.
Davanti alla Suprema Corte di Cassazione, il condominio Alfa lamentava, in particolare, il fatto che la sentenza impugnata avesse considerato l’assegnataria della casa familiare esclusa dall’obbligo di pagamento delle spese condominiali. Difatti, parte ricorrente sosteneva che l’assegnatario deve ritenersi soggetto sul quale incombono le spese che concernono la manutenzione e l’uso del bene.
I giudici Ermellini, nel dichiarare il ricorso inammissibile, stabilivano che “L'amministratore di condominio ha diritto di riscuotere i contributi per la manutenzione e per l’esercizio delle parti e dei servizi comuni esclusivamente da ciascun condomino, e cioè dall’effettivo proprietario o titolare di diritto reale sulla singola unità immobiliare, sicché è esclusa un'azione diretta nei confronti del coniuge o del convivente assegnatario dell’unità immobiliare adibita a casa familiare, configurandosi il diritto al godimento della casa familiare come diritto personale di godimento "sui generis"”.
Secondo il Tribunale Supremo, contro il conduttore della singola unità immobiliare “può invece agire in risoluzione il locatore, ove si tratti di oneri posti a carico del locatario sulla base del rapporto contrattuale fra loro intercorrente”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3440 del 3 febbraio 2022, pronunciandosi in materia condominiale, ha stabilito quali sono i casi in cui l’innovazione è vietata.
Nella vicenda in esame, Tizio impugnava la delibera condominiale adottata dal condominio Alfa, che aveva deciso l’installazione nella piazzetta condominiale di strutture fisse volte ad impedire il parcheggio, deducendone l’annullabilità ovvero la nullità. Inoltre, domandava di accertare incidenter il proprio diritto di proprietà ovvero il diritto reale di uso o di servitù sull’area adibita a parcheggio antistante il proprio ufficio, assumendo anche l’illegittimità della richiesta di contributo pro quota per i lavori approvati. Infine, Tizio chiedeva la condanna del convenuto al risarcimento dei danni patiti.
Poiché il giudice di prime cure non accoglieva le domande dell’attore ed anche la Corte d’Appello rigettava il gravame, Tizio si rivolgeva alla Cassazione.
Il Tribunale Supremo, nel dichiarare il ricorso inammissibile, precisava che “nel condominio sono vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell'utilità, secondo l'originaria costituzione della comunione, ma che l'indagine volta a stabilire se, in concreto, un'innovazione determini una sensibile menomazione dell'utilità che il condomino ritraeva dalla parte comune, secondo l'originaria costituzione della comunione, ovvero se la stessa, recando utilità ai restanti condomini, comporti soltanto per uno o alcuni di loro un pregiudizio limitato, che non sia tale da superare i limiti della tollerabilità, è demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se non nei limiti di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.”.
Secondo gli Ermellini, nel caso di specie, le opere approvate non potevano rientrare nella nozione di innovazione, non essendo stata riscontrata l’esistenza di un diritto del singolo condomino a trarre utilità sotto forma di parcheggio dal bene comune, suscettibile di essere menomato dalla collocazione di cubi di cemento.
Inoltre, le installazioni non erano lesive del decoro del bene, né tantomeno impedivano il pur limitato uso della piazzetta come consentito dal regolamento, essendo stata riscontrata la permanente possibilità di accesso di veicoli per l’attività di carico e scarico.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
I muri perimetrali sono parti comuni di un edificio condominiale che delimitano gli spazi in essi compresi. È per questa ragione che possono essere usati dai condòmini a loro vantaggio, a patto che vengano rispettate delle regole specifiche. Fino all'entrata in vigore della legge n. 220 del 2012, in assenza di una espressa menzione nel corpus normativo, è stata la giurisprudenza a considerare i muri perimetrali tra quelle parti dell'edificio che devono essere considerate comuni. Nella definizione di muro perimetrale rientra anche quella di muro di confine, espressione con cui si fa riferimento a quello che ha la funzione di delimitare una determinata proprietà. È bene precisare che, tuttavia, quest’ultima non è una regola generale, nel senso che è ben possibile che il muro perimetrale di un edificio in condominio non sia anche il muro di confine dell’intera proprietà condominiale: può accadere, infatti, che tra edificio e pubblica via vi siano piccoli spazi destinati a cortile, a parcheggio o, comunque, zone di passaggio tra il muro perimetrale e l’effettivo confine tra proprietà privata (condominiale) e proprietà pubblica. Inoltre, può non essere presente un muro di confine, bensì soltanto uno spazio privato (sempre del condominio) fra muro perimetrale e strada pubblica. I muri perimetrali sono da considerare comuni a tutti i condòmini anche nelle parti che si trovano in corrispondenza dei piani di proprietà singola ed esclusiva e quando sono collocati in posizione, avanzata o arretrata, non coincidente con il perimetro esterno dei muri perimetrali esistenti in corrispondenza degli altri piani, come normalmente si verifica per i piani attici. La giurisprudenza fa rientrare i muri perimetrali nella categoria dei muri maestri sul rilievo che, pur non potendo essere considerati strutture portanti dell’edificio, essi sono comunque essenziali per l’esistenza di quest’ultimo, delimitandone la consistenza volumetrica e delineandone la sagoma architettonica (Cass. 21-2-1978, n. 839). Con la conseguenza che i muri perimetrali degli edifici in cemento armato devono essere ricompresi fra i muri maestri definiti comuni dall’art. 1117, n. 1, c.c., in quanto, in assenza di essi, il fabbricato altro non sarebbe che uno “scheletro” vuoto, privo di alcuna utilità (Cass. 7-3-1992, n. 2773). Poiché i muri perimetrali sono parti comuni dell’edificio, l’uso che i condòmini possano farne deve rispondere al criterio fissato dall’art. 1102 c.c., secondo cui ciascun condòmino può utilizzare il bene comune nella misura in cui non ne alteri la destinazione e non leda il diritto di ciascun condòmino di farne parimenti uso. Sono vietate tutte quelle opere che possano compromettere la sicurezza dello stabile. È legittimo il comportamento del condòmino che crei un incavo nel muro perimetrale comune al fine, ad esempio, di eseguire tracce o canali per incassare impianti elettrici (Trib. Milano 24-6-1991), così come è lecito l’abbattimento di un tratto di muro comune al fine di creare un nuovo ingresso che serva la proprietà esclusiva di un singolo condòmino (Cass. 29-4-1994, n. 4155). L’abbattimento di un muro perimetrale comune, tuttavia, incidendo sulla sostanza essenziale della cosa, non rientra nell’ambito disciplinato dall’art. 1102 c.c., ma costituisce una vera e propria innovazione, soggetta alle regole dettate dall’art. 1120 c.c. (Cass. 18-6-1982, n. 3741). Dal momento che i muri perimetrali sono condominiali, tutti i condòmini devono partecipare alle decisioni inerenti alla loro conservazione e tutti alle spese per l'esecuzione degli interventi medesimi. In assenza di patti contenuti in un regolamento contrattuale o in un accordo sottoscritto comunque da tutti i condòmini, le spese per le opere di manutenzione dei muri perimetrali dell'edificio devono essere suddivise tra i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Partiamo dal presupposto che l’Autorizzazione Paesaggistica sia un atto autonomo richiesto in virtù di una specifica disciplina, con validità di cinque anni.
Negli interventi di edilizia libera l’autorizzazione de quò risulta necessaria laddove presente vincolo paesaggistico, dovendo conseguire preliminarmente all’inizio dei lavori tale atto di assenso.
Se volessimo dare uno sguardo al rapporto tra titolo edilizio ed autorizzazione paesaggistica, emerge dall’art.146 comma 9 del D.Lgs 42/2004 essere l’Autorizzazione Paesaggistica “atto autonomo e presupposto dei titoli edilizi” ragion per cui il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato o reso effettivo senza il previo parere, nulla osta o autorizzazione favorevole da parte della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali.
Resta, comunque, come da costante giurisprudenza, valevole il fatto che la mancata acquisizione non renda illegittimo il titolo edilizio, più precisamente, trattandosi di due diverse tipologie di atti, autonomi l’uno rispetto all’altro.
Le disposizioni del Testo Unico per l’Edilizia, d. P.R. 380/2001 in relazione agli atti di assenso
Nell’introdurre la disciplina urbanistico – edilizia è l’art. 1 “Ambito di applicazione” al comma 1 a riportare il testo inerisca “i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia” facendo comprendere al lettore, al successivo comma 2, lo stesso testo unico per l’edilizia non attenga in alcun modo quanto riguardante normative settoriali specifiche, pertanto da quel punto di vista non ne legittima la liceità. In tal senso viene precisato, anche nel disciplinare l’attività edilizia non soggetta ad alcuna comunicazione allo Sportello Unico per l’Edilizia, ovvero al protocollo del Comune per gli enti sprovvisti di S.U.E., che non possano essere iniziati i lavori, sia nel recitare “Restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (oggi decreto legislativo 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico, e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia”.
Non si limita ancora il concetto disposto dal T.U.E., ripreso, ulteriormente al comma 1 dell’art.6 “Attività edilizia libera”, che testualmente recita: “Fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisimiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, i seguenti titoli sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio […]”, proseguendo il disposto normativo con la elencazione delle opere.
Resta inteso che il mancato conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica sia condizione di inefficacia, ma non di validità del titolo edilizio come confermato al prima citato comma 9 dell’art.146: “i lavori non possano essere iniziati in difetto dell’autorizzazione paesaggistica, senza riferimento al titolo edilizio”.