“Le disposizioni della I. n. 92 del 2012, ed in particolare quelle relative alla procedura di convalida delle dimissioni, non si applicano automaticamente al pubblico impiego ma necessitano di uno specifico intervento legislativo di armonizzazione”.
Ciò è quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14993 del 28 maggio 2021.
Ai fini dell'applicabilità all'impiego pubblico contrattualizzato della disciplina relativa alla procedura di convalida delle dimissioni, di cui all'art. 4, commi 16-22 della legge n. 92 del 2012, è necessaria l'adozione di appositi provvedimenti attuativi per l'armonizzazione del lavoro privato con il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, e questo in quanto anche la disciplina della convalida delle dimissioni è modulata sulle dinamiche del lavoro privato, in relazione alla necessità di garantire che le dimissioni siano frutto di autonoma determinazione del lavoratore, in particolare nei periodi in cui quest’ultimo non può essere licenziato, piuttosto che su quelle del lavoro pubblico contrattualizzato.
Difatti, l'art. 4, commi da 16 a 22, della l. n. 92 del 2012, per assicurare la corrispondenza fra la dichiarazione di volontà del lavoratore e l'intento risolutorio, rafforza il regime della convalida, che diviene condizione sospensiva della risoluzione del rapporto di lavoro stesso.
“Non sussiste alcuna disparità di trattamento ovvero violazione degli artt. 3 e 102 Cost., atteso che il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere totalmente assimilati (Corte costituzionale sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in seguito all'estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, e che la medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l'area del lavoro pubblico contrattualizzato e l'area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale”.
Dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, essendo il cd. rapporto di pubblico impiego privatizzato disciplinato dalle norme del codice civile, dalle leggi civili sul lavoro ed anche dalle norme sul pubblico impiego, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio che comportano la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengono a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché, per divenire efficaci, non necessitano più di un provvedimento di accettazione da parte della P.A.
Pertanto, l’amministrazione “non può rigettare l'istanza del dipendente di dimissioni, ma si deve limitare ad accertare che non esistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con il termine delibera (o deliberazione) ci si riferisce ad un atto formale che identifica la decisione di un organo e gli effetti che dalla stessa scaturiscono.
Mentre fino a qualche tempo fa le delibere caratterizzavano in modo esclusivo l'ordinamento amministrativo, che esprimeva quasi sempre la propria volontà all'esterno tramite detti atti, adesso, invece, le delibere costituiscono lo strumento con cui la Pubblica Amministrazione esprime i suoi indirizzi politico-amministrativi e, attraverso esse, vengono approvati, ad esempio, i regolamenti o i bilanci dell'ente.
La delibera può avere una natura diversa a seconda dell'organo collegiale dal quale è emanata. Essa può essere un provvedimento, un atto normativo, endoprocedimentale o di diritto privato.
I soggetti possono essere sia pubblici che privati; ad esempio, vi è la delibera del consiglio comunale che ha carattere pubblico, mentre la delibera di un’assemblea condominiale o una delibera emanata dal consiglio di amministrazione di un’azienda hanno carattere privato.
La delibera esprime la volontà della pluralità di soggetti che l’ha emanata ed è proprio a questa pluralità che è imputata, piuttosto che alle singole persone che compongono l’organo. È proprio tale aspetto che la differenzia dalla convenzione, che è, invece, quell’atto imputato ai singoli individui che l’hanno conclusa.
Per poter deliberare occorre il consenso di solo una parte della pluralità dei soggetti del collegio; questa percentuale varia a seconda delle maggioranze previste dalla legge per ciascun caso (ad esempio, potrebbe trattarsi del 50%+1 dei soggetti, dei 2/3 dei millesimi di un condominio, e via dicendo). Contrariamente, per la conclusione di una convenzione è, invece, necessario il consenso di tutte le parti che la sottoscrivono.
La determina, detta anche determinazione dirigenziale, è un provvedimento di un dirigente o funzionario preposto a specifiche funzioni.
Con essa i responsabili dei servizi manifestano e dichiarano la propria volontà nell’esercizio della potestà di gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa.
Attraverso la determina, la quale può avere o meno rilevanza contabile, i dirigenti impegnano l’amministrazione verso l’esterno.
In virtù di quanto esposto, dunque, si deduce che le deliberazioni sono atti normativi che indicano un indirizzo, una programmazione, mentre le determinazioni sono atti amministrativi mediante i quali si esplica la volontà del dirigente/responsabile del servizio dell’ente.
Sostanzialmente, mentre con la deliberazione vengono fornite delle disposizioni, la determinazione ha una valenza esecutiva.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9313 del 7 aprile 2021, si è pronunciata in materia di diritto del lavoro, affermando che, qualora il lavoratore sia sottoposto a procedimento penale, per valutare la tempestività dell’azione disciplinare esperita dalla P.A., occorre individuare il momento in cui quest’ultima sia venuta a conoscenza, oltre che del contenuto dell’avviso di garanzia, anche degli elementi che costituiscono l’illecito.
La vicenda traeva origine dalla conferma, da parte della Corte d’Appello, della decisione del giudice di prime cure con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento irrogato dall’INPS ad un dipendente per avere l’ente pubblico violato il principio di tempestività ed immediatezza della contestazione disciplinare. Secondo il giudice di merito, non poteva essere condivisa la tesi difensiva dell'INPS nella parte in cui aveva indicato come legittima l'attesa dell'esercizio dell'azione penale nei confronti del lavoratore per l'instaurazione del procedimento disciplinare, dal momento che l'avviso di garanzia emesso dalla Procura era già caratterizzato da un contenuto affatto puntuale in ordine all'illecito addebitato al lavoratore, al nominativo della persona offesa ed alle circostanze spazio-temporali in cui il fatto di reato sarebbe stato commesso dal dipendente, così da consentire al datore di lavoro il compimento dei necessari approfondimenti istruttori e di giungere ad autonome valutazioni in sede disciplinare.
A questo punto, il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale l’INPS sosteneva in particolare che la piena conoscenza del fatto addebitato al dipendente non potesse essere dedotta da notizie indiziarie contenute nell'informazione di garanzia.
Il Tribunale Supremo, accogliendo il ricorso, stabiliva che ai fini di una contestazione disciplinare occorre “una notizia 'circostanziata' dell'illecito ovvero una conoscenza certa, da parte dei titolari dell'azione disciplinare, di tutti gli elementi costitutivi dello stesso. È stato, infatti, ritenuto che, in tema di procedimento disciplinare, ai fini della decorrenza del termine per la contestazione dell'addebito, assume rilievo esclusivamente il momento in cui l'ufficio competente abbia acquisito una 'notizia di infrazione' di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l'avvio al procedimento mediante la contestazione, la quale può essere ritenuta tardiva solo qualora la P.A. rimanga ingiustificatamente inerte, pur essendo in possesso degli elementi necessari per procedere”.
Per i giudici di piazza Cavour, queste caratteristiche “non possono essere rinvenute esclusivamente nel contenuto, per quanto puntuale, di una informazione di garanzia che, a termini dell'art. 369 cod. proc. pen., è atto che viene inviato dal pubblico ministero all'indagato quando deve essere compiuta una qualche attività cui il difensore ha diritto di assistere”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Il silenzio assenso ricorre in tutti i casi in cui il legislatore attribuisce all'inerzia dell'amministrazione il valore di provvedimento di accoglimento dell'istanza presentata dal privato. Esso, pertanto, costituisce un vantaggio per il privato, il quale ottiene implicitamente l’autorizzazione allo svolgimento della sua attività senza subire i ritardi della azione amministrativa. Tale istituto rappresenta uno strumento efficace di semplificazione dell’attività amministrativa, dal momento che la logica che lo presiede è quella di fornire un rimedio al comportamento inerte della pubblica amministrazione. La figura del silenzio assenso costituisce la più rilevante tra le ipotesi di silenzio significativo, in considerazione dell'ampia previsione di carattere generale contenuta nell'attuale testo dell'art. 20 della legge 241/90 (come modificato dall'art. 3, comma 6 ter, del decreto legge, n. 35/2005, convertito nella legge n. 80/2005). La norma stabilisce che, “Fatta salva l'applicazione dell'articolo 19 [che attiene alla dichiarazione di inizio attività], nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2”. Nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio assenso è un istituto di carattere generale, nel senso che esso opera senza necessità di una espressa previsione. L’istituto del silenzio assenso incontra però alcune limitazioni. Quando si parla, ad esempio, di difesa e sicurezza nazionale, tutela della salute, ambiente e patrimonio culturale, il silenzio assenso non trova applicazione. Sebbene tale istituto consenta sicuramente al cittadino di evitare conseguenze negative a causa dell’inerzia della Pubblica Amministrazione, la mancanza dell’atto scritto e, dunque, di una motivazione, non permette di effettuare delle verifiche in merito, pregiudicando non solo il buon andamento della P.A., ma pure le ragioni del soggetto privato. A tal proposito è opportuno annoverare una importante pronuncia del Consiglio di Stato, secondo cui “Il silenzio assenso su una domanda di sanatoria edilizia ai sensi dell’art. 39, L. n. 724/1994 si può produrre solo se per il rilascio della sanatoria vi siano tutti i requisiti formali e sostanziali, e in particolare risulti che le opere in questione sono state ultimate alla data prevista” (Cons. St., sent. n. 5384 del 2019). In materia, invece, di condono di abusi edilizi, “deve ritenersi che il silenzio assenso si venga a formare solo nel caso in cui, quantomeno al momento dell'istanza, il manufatto, ancorché incompleto, sia pur sempre riferibile all'abuso per il quale è stato proposto il condono, in quanto in caso contrario si verificherebbe la manifesta inammissibilità dell'istanza per indeterminatezza dell'opera condonata, per cui non si potrebbe mai legittimamente formare il predetto silenzio accoglimento. Pertanto, in relazione al completamento funzionale del manufatto è necessario che, entro la predetta data, siano stati realizzati quei lavori che consentono di ritenere che il bene sia adeguato all'uso” (Cons. St., sent. n. 4182 del 2013). Altre ipotesi di esclusione del silenzio assenso possono essere individuate con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti. La P.A. mantiene il potere, entro il termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, di promuovere una conferenza di servizi che impedisce la formazione del silenzio assenso e conserva, altresì, il potere di assumere determinazioni in autotutela, vale a dire, provvedimenti di annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies L. n. 241 del 1990 o provvedimenti di revoca ex art. 21 quinquies. Secondo un’altra importante sentenza del Consiglio di Stato (n. 3805/2016), “è possibile l'applicazione del silenzio assenso solo ai casi di attività vincolata della P.A., poiché in questi casi l'effettivo possesso dei requisiti previsti dalla legge rende possibile l'avvio dell'attività sottoposta ad autorizzazione, e rende altresì possibile ogni successivo accertamento ed esercizio di poteri di autotutela o inibitori. Al contrario, nel caso di poteri discrezionali, la valutazione e la conseguente scelta della misura concreta da adottare per il perseguimento dell'interesse pubblico (per la tutela del quale il potere è stato conferito), non verrebbero ad essere effettuate da alcuno, determinandosi sia che in luogo dell'Autorità decida, in pratica, il tempo (e il caso), sia, soprattutto, una sostanziale decadenza dall'esercizio di potestà pubbliche”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Partiamo dal presupposto che l’Autorizzazione Paesaggistica sia un atto autonomo richiesto in virtù di una specifica disciplina, con validità di cinque anni.
Negli interventi di edilizia libera l’autorizzazione de quò risulta necessaria laddove presente vincolo paesaggistico, dovendo conseguire preliminarmente all’inizio dei lavori tale atto di assenso.
Se volessimo dare uno sguardo al rapporto tra titolo edilizio ed autorizzazione paesaggistica, emerge dall’art.146 comma 9 del D.Lgs 42/2004 essere l’Autorizzazione Paesaggistica “atto autonomo e presupposto dei titoli edilizi” ragion per cui il titolo abilitativo edilizio non può essere rilasciato o reso effettivo senza il previo parere, nulla osta o autorizzazione favorevole da parte della Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali.
Resta, comunque, come da costante giurisprudenza, valevole il fatto che la mancata acquisizione non renda illegittimo il titolo edilizio, più precisamente, trattandosi di due diverse tipologie di atti, autonomi l’uno rispetto all’altro.
Le disposizioni del Testo Unico per l’Edilizia, d. P.R. 380/2001 in relazione agli atti di assenso
Nell’introdurre la disciplina urbanistico – edilizia è l’art. 1 “Ambito di applicazione” al comma 1 a riportare il testo inerisca “i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia” facendo comprendere al lettore, al successivo comma 2, lo stesso testo unico per l’edilizia non attenga in alcun modo quanto riguardante normative settoriali specifiche, pertanto da quel punto di vista non ne legittima la liceità. In tal senso viene precisato, anche nel disciplinare l’attività edilizia non soggetta ad alcuna comunicazione allo Sportello Unico per l’Edilizia, ovvero al protocollo del Comune per gli enti sprovvisti di S.U.E., che non possano essere iniziati i lavori, sia nel recitare “Restano ferme le disposizioni in materia di tutela dei beni culturali e ambientali contenute nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (oggi decreto legislativo 42/2004), la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico, e le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia”.
Non si limita ancora il concetto disposto dal T.U.E., ripreso, ulteriormente al comma 1 dell’art.6 “Attività edilizia libera”, che testualmente recita: “Fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisimiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, i seguenti titoli sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo edilizio […]”, proseguendo il disposto normativo con la elencazione delle opere.
Resta inteso che il mancato conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica sia condizione di inefficacia, ma non di validità del titolo edilizio come confermato al prima citato comma 9 dell’art.146: “i lavori non possano essere iniziati in difetto dell’autorizzazione paesaggistica, senza riferimento al titolo edilizio”.