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Il dipendente che minaccia il datore è passibile di licenziamento

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Con una recente pronuncia (ordinanza n. 6584 del 6 marzo 2023), la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che il dipendente che rivolge minacce al suo datore di lavoro è passibile di licenziamento, non avendo rilevanza il fatto che l'accaduto sia conseguito a un particolare stato psicologico ed emotivo del lavoratore. Tizio, guardia giurata, dopo essere stato sentito da Caio, Amministratore delegato della società presso cui lavorava, in sede di presentazione delle giustificazioni in ordine ad una contestazione disciplinare, aveva raggiunto il piazzale della società e, in preda alla rabbia, aveva tirato fuori una pistola pronunciando parole minacciose contro il suo titolare. Nel riformare la sentenza del giudice di prime cure, i giudici del gravame respingevano l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato a Tizio e condannavano quest'ultimo a restituire alla propria società datrice la somma di 12.480,00 euro, percepita in esecuzione della pronuncia di primo grado. Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte di Cassazione, la quale gli dava torto. I giudici di piazza Cavour evidenziavano che la Corte territoriale non aveva affrontato il problema relativo alla corretta identificazione dell’oggetto dell’addebito (cioè se lo stesso fosse connesso o meno a profili concernenti stati emotivi e psicologici oppure riguardanti la sola condotta minacciosa del dipendente relativa a quel singolo episodio), dal momento che dalla sentenza impugnata emergeva che il fatto oggetto di addebito fosse costituito dall'episodio accaduto sul piazzale dell’azienda. Pertanto, per potersi sottrarre alla sanzione di inammissibilità per violazione del divieto di novum, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare l'allegazione e la deduzione della questione dinanzi al giudice di secondo grado. Secondo gli Ermellini, “La censura che denunzia errata applicazione della nozione di insubordinazione in relazione alla connessa necessità del verificarsi di un pregiudizio per la società datrice di lavoro, non si confronta con le effettive ragioni della decisione nella quale la valutazione di gravità della condotta non concerne solo il profilo di ribellione all’autorità datoriale titolare del potere disciplinare, ma risulta specificamente collegata alle particolari modalità con le quali si è estrinsecata la condotta addebitata, da ritenersi particolarmente pericolose e minacciose in quanto accompagnate dall’estrazione dalla fondina di un’arma caricata”. In virtù di ciò, i giudici di legittimità rigettavano il ricorso e condannavano il ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'