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OBBLIGO DI REPECHAGE: IN COSA CONSISTE?

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Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, deve prendere in considerazione tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in esubero o che sia divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli. È questo il cosiddetto obbligo di repechage (ripescaggio) che vige in capo al datore. Dunque, il repechage è strettamente legato al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, consiste nel licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Difatti, nell’esercizio della sua attività d’impresa, il datore di lavoro, spinto da necessità economiche o di riorganizzazione (ad esempio, sopravvenuta inidoneità alla mansione, esternalizzazione di una certa attività, ecc.) può decidere di sopprimere una posizione lavorativa. Qualora il lavoratore contesti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare di aver tentato il repechage, cioè dovrà dimostrare:
• che, al momento del licenziamento, i posti di lavoro residui erano occupati stabilmente e che, dopo il licenziamento, per un lungo periodo di tempo, non ha effettuato alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del dipendente licenziato; • che il dipendente non possedeva la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda; • che, al momento del licenziamento, non erano disponibili posizioni analoghe a quella soppressa e che il lavoratore non ha dato il suo consenso alla prospettata possibilità di reimpiego in mansioni inferiori, rientranti nel suo bagaglio professionale. Nell’ipotesi di licenziamento di dirigenti la verifica del repechage non è invece necessaria. La mancata prova dell'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore (cd. repêchage), gravante sul datore di lavoro, determina l'illegittimità del licenziamento, ma esula dal fatto posto a fondamento del licenziamento. Ne consegue l'applicazione del regime risarcitorio di cui all'art. 18, comma 7, St. lav., come novellato dalla L. n. 92/2012 (Trib. Milano, 28 novembre 2012). Quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di un personale omogeneo e fungibile, non soccorre più il normale criterio costituito dalla "posizione lavorativa" da sopprimere in quanto non più necessaria e, tantomeno, soccorre il criterio della impossibilità di "repêchage", in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono quindi potenzialmente licenziabili: si tratta di un caso, in definitiva, in cui il nesso di causalità si configura non tra il motivo e la soppressione di un determinato posto di lavoro, ma tra il motivo e la soppressione dell'uno o dell'altro, indifferentemente, tra più posti di lavoro (App. Venezia, 31 ottobre 2012). In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (e soggettivo), il datore di lavoro deve dare al lavoratore il preavviso o, in mancanza, deve corrispondere la relativa indennità sostitutiva, equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Durante il periodo di preavviso continuano ad applicarsi le norme di legge e di contratto concernenti il rapporto di lavoro, proseguono gli effetti del contratto e persistono i doveri che incombono sul lavoratore nell'esecuzione del rapporto di lavoro.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È NULLO IL LICENZIAMENTO EFFETTUATO IN FRODE ALLA LEGGE

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Con la sentenza n. 29007 del 17 dicembre 2020 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di licenziamento. Più precisamente, ha affermato che è disposta la nullità del licenziamento in tutti i casi in cui il lavoratore, reintegrato dopo un precedente licenziamento illegittimo, viene di nuovo espulso dal datore di lavoro. Nel caso in esame, una società era stata condannata a reintegrare un proprio dipendente in seguito all'accertata illegittimità di un precedente licenziamento, disponendo la reintegra del lavoratore non presso il negozio ove questi era precedentemente occupato, ma adducendo intervenuti cambiamenti strutturali e commerciali nell'originaria sede di lavoro, presso un diverso punto vendita sito in altra regione. Tuttavia, a soli cinque giorni dal trasferimento, la società operava una consistente riduzione del personale proprio presso il punto vendita di nuova adibizione del dipendente appena reintegrato, il quale era stato nuovamente licenziato. La vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale la società ricorrente eccepiva l'annullamento del secondo licenziamento, non soltanto per la violazione del proprio ius variandi nell'organizzazione aziendale, ma anche perché il dipendente non aveva prima impugnato il trasferimento. Secondo il Tribunale Supremo, il trasferimento, contestato dal lavoratore come parte del comportamento fraudolento dell'azienda, non necessitava di autonoma impugnazione, ma era fonte di prova dell'illecito datoriale. Inoltre, poiché non rinvenivano alcuna autonoma necessità d'impugnazione del singolo atto costitutivo della complessa fattispecie frodatoria, considerato lo stretto legame logico-giuridico intercorrente tra i due provvedimenti, i Giudici di legittimità chiarivano l'irrilevanza della mancata impugnazione del trasferimento da parte del lavoratore. In sostanza, l'avere impugnato l'atto finale della condotta illecita assunta dal datore di lavoro in maniera tempestiva , esonerava il lavoratore dalla necessità di contestare la legittimità del provvedimento emanato dalla società nell'esercizio dello ius variandi. Inoltre, gli Ermellini affermavano che, la Corte distrettuale aveva bene lumeggiato il meccanismo fraudolento (perché articolato in una serie di condotte nella loro atomistica essenza, apparentemente lecite) posto in essere dalla società, che ha condotto alla definitiva espulsione del lavoratore, dall'assetto organizzativo aziendale. In virtù dei suddetti principi, la Suprema Corte rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


INSUBORDINAZIONE E LICENZIAMENTO: I CHIARIMENTI DELLA CORTE DI CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 13411/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sul concetto di insubordinazione, posta in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro e, dunque, al di fuori dei locali aziendali. La quaestio ha origine dal licenziamento disciplinare che una società aveva inflitto ad un proprio dipendente, il quale, da un lato, aveva adottato una condotta di insubordinazione e, dall’altro, la violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega. Il lavoratore si era opposto al licenziamento lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in relazione al fatto che non sussisteva un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata. Inoltre, questi sosteneva che non sussisteva neppure un’infrazione disciplinare, dal momento che il diverbio era avvenuto a giornata lavorativa ormai conclusa. Le motivazioni del prestatore, però, non hanno trovato accoglimento in sede di secondo grado di giudizio. I giudici di merito, infatti, avevano sottolineato che il rapporto gerarchico si ha nel caso in cui vi sia una “sovraordinazione”, non solo nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma pure in un contesto più particolare, che, nel caso di specie, era quello proprio del settore amministrativo di cui la collega era responsabile. Oltretutto, la questione che il diverbio fosse avvenuto fuori dell’orario di lavoro non escludeva la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, a maggior ragione se esso aveva avuto ad oggetto obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi aziendali. Anche la Suprema Corte di Cassazione è giunta alla stessa conclusione. Secondo i Giudici di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, in quanto detto termine “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”. Nel caso in esame, gli Ermellini hanno osservato che la fattispecie integrava la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.). Pertanto, il licenziamento è comminato al lavoratore che commette gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro. La minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso e corrispondeva a quella di voler chiedere “conto” della condotta della responsabilità amministrativa fuori dall’azienda. Dunque, la serietà della minaccia, per come intesa dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore. A questi elementi occorre poi aggiungere, come evidenziato nella sentenza, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, attraverso un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità. In virtù dei suddetti presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Licenziamento per reati anteriori all’assunzione

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Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente

Il caso: il licenziamento disciplinare

Nel caso che ci occupa, il Giudice di merito aveva accertato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa operato dalla datrice di lavoro nei confronti del proprio dipendente, disponendo, per l’effetto, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna della società (datrice di lavoro) al pagamento della relativa indennità risarcitoria. Nella specie, il licenziamento intimato al dipendente era stato giustificato da parte datoriale poiché il lavoratore aveva riportato, anteriormente alla costituzione del rapporto lavorativo, una condanna penale per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. La Corte territorialmente competente aveva confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di prime cure.

Illegittimo il licenziamento intimato per fatti molto risalenti

Avverso la decisione del Giudice di merito, la società ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione la quale, con ordinanza n. 8899/2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. Nel formulare le proprie contestazioni dinanzi al Giudice di legittimità, la datrice ha ribadito “di essere venuta a conoscenza delle condotte contestate solo (successivamente alla costituzione del rapporto) e sottolinea che la società opera esclusivamente nell’ambito dei contratti di appalto con la pubblica amministrazione e che in tale contesto la condotta extralavorativa, sebbene risalente, è rilevante e può ben integrare una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro”. La società ha inoltre precisato che i fatti penalmente accertati fossero “idonei a ledere gravemente l’elemento fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro poiché violano quel “minimo etico” che è richiedibile al lavoratore”.

Rispetto alle suddette argomentazioni, la Corte ha sottolineato che “intanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d'una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso. Diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l'unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare”.

Quanto sopra riferito, ha proseguito il Giudice di legittimità, non significa che le condotte costituenti reato, pur essendo state realizzate prima della costituzione del rapporto lavorativo, non possano di per sé integrare giusta causa di licenziamento. Sul punto la Corte ha infatti rilevato che “per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604 del 1966 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto”.

Ciò posto, ha sottolineato la Corte “il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l'essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: Condotte costituenti reato possono (…) integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino (…) incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.

Sulla scorta dei suddetti principi e facendo riferimento al caso di specie, la Corte ha rilevato come “i fatti addebitati al lavoratore non solo sono risalenti nel tempo (…) ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna (…) è precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro (..) e la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la società non abbia specificamente indicato “l’incidenza negativa” di fatti così risalenti “sulla funzionalità del rapporto”, e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a fatti accertati o commessi anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro”. In ragione di tale ricostruzione interpretativa la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro.