La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17051 del 16 giugno 2021, ha affermato che, per la determinazione del quantum dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, il reddito percepito dopo il licenziamento va detratto qualora risulti compatibile con l’attività espletata prima del licenziamento.
Nella vicenda in esame, il giudice di merito aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore ed aveva rigettato l’eccezione sollevata dal datore di lavoro volta ad ottenere la riduzione dell’ammontare del danno risarcibile in ragione della richiesta detrazione di quanto percepito dal dipendente (aliunde perceptum) in epoca successiva al licenziamento. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che la prestazione di lavoro resa dopo il licenziamento non fosse incompatibile con quella svolta prima dello stesso sicché il relativo compenso non andava detratto ai fini della quantificazione del danno.
Per il Tribunale Supremo, “in tema di licenziamento individuale, il compenso per lavoro subordinato o autonomo - che il lavoratore percepisca durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento relativa (cd. periodo intermedio) - non comporta la riduzione corrispondente (sia pure limitatamente alla parte che eccede le cinque mensilità di retribuzione globale) del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se - e nei limiti in cui - quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito di licenziamento (come nel caso ricorrente nella specie in cui il lavoro medesimo sia svolto, prima del licenziamento, congiuntamente alla prestazione che risulti sospesa)”.
Tra l’altro, spetta al datore di lavoro che sollevi l’eccezione provare che il dipendente licenziato abbia, nelle more del giudizio, lavorato e percepito comunque un reddito.
Pertanto, in virtù dei suddetti principi, i giudici di legittimità rigettavano il ricorso.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Licenziamento: non è legittimo se la giusta causa è una prassi aziendale
La Cassazione afferma che la giusta causa di licenziamento è una nozione normativa ampia che deve essere specificata in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama
Il caso: il datore contesta l’improprio uso della carta fedeltà
La vicenda in esame prende avvio dal licenziamento (senza preavviso) attuato dal datore di lavoro a carico di una propria dipendente, all'esito di una contestazione disciplinare con cui veniva contestato alla lavoratrice di avere creato una fittizia carta fedeltà (intestata ad una persona inesistente), di averla utilizzata in più occasioni “per acquisti effettuati da clienti in modo da ottenere un indebito accumulo di punti nonché uno stato di "Card Platinum”, così privando “i clienti stessi della possibilità di sottoscrivere la propria fidelity". Tali condotte erano state valutate dal datore di lavoro “a danno e detrimento degli interessi della società e a (…) esclusivo vantaggio (della lavoratrice) per interessi del tutto personali”.
Avverso tale decisione, la dipendente impugnava il licenziamento dinanzi al Giudice del merito che, sia in primo che in secondo grado, aveva accolto il ricorso della lavoratrice.
In particolare, la Corte di appello di Firenze aveva ritenuto che il fatto contestato fosse inesistente e aveva pertanto condannato parte datoriale al pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione, oltre al risarcimento del danno nella misura di dodici mensilità in favore dell’ex-dipendente.
Tale decisione veniva assunta sulla base di una valutazione dei fatti, processualmente acquisiti, ritenuti dalla Corte territoriale “indicativi di una modalità diffusa (…) di impiego della carta irregolare: modalità condivisa dalle responsabili delle filiali e che non era stata smentita, dalla prova per testi raccolta, con la conseguenza sia della inesistenza di un qualche vantaggio personale della dipendente che di un uso diffuso circa una prassi diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali”.
La decisione del Giudice di secondo grado è stata impugnata dal datore di lavoro che ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
La giusta causa è ascrivibile alla cosiddette clausole generali
La Corte di Cassazione, investita della vicenda sopra rappresentata, con ordinanza n. 35516/2023, ha respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro e ha confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di secondo grado.
Rispetto al ritenuto utilizzo improprio della carta fedeltà, che ha condotto al licenziamento della dipendente, la Corte ha anzitutto ribadito “il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge”.
Ciò posto, il Giudice di legittimità ha proseguito il proprio esame, affermando che “nella fattispecie in esame la Corte territoriale, inquadrata la contestazione disciplinare in un contesto in cui la operazione irregolare di creazione della carta fedeltà era connessa anche all'esclusivo vantaggio della dipendente per interessi del tutto personali e a detrimento dell'interesse aziendale, ha ritenuto che nessuno di tali elementi, che rappresentavano componenti necessari dell'addebito, fossero ravvisabili nel caso de quo”. Rispetto a tali fatti, spiega la Corte, il Giudice di secondo grado ha “rilevato che la carta irregolare era risultata essere stata associata a vendite effettuate anche da diverse altre lavoratrici (…) e di tale circostanza erano a conoscenza le responsabili dei negozi”.
Quanto rappresentato era quindi idoneo, secondo la Corte territoriale, ad avvalorare l’esistenza di una prassi aziendale diretta a favorire gli acquisti di clienti occasionali, che, in mancanza, vi avrebbero rinunciato e dimostrava altresì che l'esecuzione delle operazioni irregolari “non era a esclusivo vantaggio della lavoratrice e a detrimento dell'interesse aziendale”.
La Corte di appello ha, in questo senso, valutato la creazione artificiosa di una carta fedeltà, inquadrando tale condotta rispetto all'intero addebito, considerandolo non dimostrato nella sua complessità, in quanto “la contestazione era appunto incentrata sul comportamento della lavoratrice e sui suoi effetti e non anche sul singolo episodio (creazione della carta), che da solo non era stato indicato quale causa esclusiva del recesso e comunque idoneo a giustificare il licenziamento”.
In relazione a quanto appena detto, la Cassazione ha dunque ritenuto che la Corte distrettuale aveva correttamente ritenuto insussistente il fatto contestato e, per l’effetto, ha dato applicazione alla tutela di cui alla legge n. 300/1970, ex articolo 18, comma 4.