La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 3929 del 13/02/2024, ha chiarito che è passibile di licenziamento il dipendente che rifiuta il trasferimento ad altra sede lavorativa stabilito dalla società datrice.
IL CASO
I giudici del gravame rigettavano il reclamo proposto da Caio contro la sentenza del Tribunale, che pure aveva rigettato l'opposizione del predetto lavoratore all'ordinanza dello stesso Tribunale nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, che aveva rigettato la sua impugnativa del licenziamento disciplinare per giusta causa intimatogli dalla società Alfa.
Caio non aveva adempiuto all'ordine di trasferimento ad altra sede lavorativa, oltre ad aver alterato gli orari di ingresso e di uscita.
I giudici di secondo grado ritenevano le condotte poste in essere dal dipendente lesive del vincolo fiduciario.
LA CENSURA
Caio si rivolgeva alla Corte di Cassazione asserendo che la sua condotta, dalla quale non aveva tratto alcun vantaggio, non aveva arrecato alcun danno alla società, la quale, peraltro, non aveva lamentato in alcun atto difensivo i danni ad essa provocati dalla condotta del lavoratore.
Altresì, il ricorrente metteva in luce il fatto di aver comunicato alla società la sua opposizione al trasferimento con lettera raccomandata durante il periodo di malattia e precisava di aver scrupolosamente recuperato i minuti di ritardo con lavoro compensativo.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione dava torto a Caio.
I giudici di legittimità precisavano che qualora le decisioni di primo e di secondo grado siano concordanti e fondate sul medesimo iter logico-argomentativo non è possibile contestare l’omesso esame di fatti ritenuti decisivi.
Per il Supremo Consesso, la validità del provvedimento della società non risultava inficiata dal fatto che fosse stato notificato al dipendente nei giorni di malattia.
Pertanto, gli Ermellini confermavano la legittimità del licenziamento per giusta causa del lavoratore, evidenziando la necessità per il dipendente di accogliere le richieste organizzative della società datrice, nonché l’importanza del mantenimento della fiducia nel rapporto di lavoro.
In virtù di ciò, il Tribunale Supremo dichiarava inammissibile il ricorso e confermava la legittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30418/2023, ha stabilito che rischia il licenziamento il dipendente che abbandona il posto di lavoro per la pausa pranzo senza timbrare.
IL CASO
Il Tribunale respingeva il ricorso con il quale Sempronia, collaboratrice amministrativa presso l’istituto Gamma, aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR.
Secondo il giudice di primo grado, le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell’anno 2017 si era allontanata dall’istituto Gamma per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all’uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialità e integravano la fattispecie di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001.
I giudici d’appello rigettavano il gravame proposto dalla lavoratrice nei confronti del MIUR, dell’Ufficio scolastico territoriale Alfa e dell’Ufficio scolastico regionale Beta, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale.
LA CENSURA
Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2106, 2119, 1455, c.c., della norma di cui all’art. 55- quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, comma 1, lett. a), 1-bis e 3, così come da modifiche di cui al d.lgs. n. 116 del 2016, dell’art. 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonché degli artt. 3 e 35, Cost., in ordine all’art. 360, n. 3, c.p.c.
Secondo la ricorrente, i giudici del gravame avevano applicato l’art. 55-quater, commi 1, lett. a), 1-bis e 3, e aveva richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale è da escludere qualunque automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non aveva considerato gli elementi volti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla dipendente relativamente alla sanzione disciplinare comminata.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
I giudici di piazza Cavour davano torto a Sempronia chiarendo che nella fattispecie esaminata veniva in rilievo “il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata”.
Secondo il Supremo Consesso, “La condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale”.
Dal piano di lavoro del personale ATA per l’a.s. 2016/2017, richiamato dai giudici di merito, emergeva che l’accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire attraverso la timbratura elettronica del badge personale e che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA.
Per di più, dalla comunicazione n. 98 del 17 gennaio 2009 risultava che il personale ATA dell’istituto Gamma fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali.
Pertanto, le condotte di Sempronia non potevano essere giustificate o comunque valutate con minor rigore soltanto perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo.
In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso della dipendente.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 30945 del 7 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di somministrazione irregolare stabilendo che in tali situazioni il licenziamento del lavoratore è da considerarsi invalido se comminato dal somministratore piuttosto che dall’utilizzatore.
IL CASO
La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra Tizio e la società Alfa e ordinava alla predetta società la ricostituzione del rapporto di lavoro, condannando la stessa al pagamento di una indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
In particolare, i giudici di secondo grado, sulla base delle risultanze delle prove testimoniali e documentali acquisite, riteneva il licenziamento intimato dalla società Alfa irrogato da soggetto privo della titolarità del rapporto e dunque del potere di risolvere il contratto, con conseguente persistenza del rapporto lavorativo e obbligo del predetto Gestore alla ricostituzione del rapporto di lavoro.
Pertanto, ricorrendo una ipotesi di somministrazione di manodopera non autorizzata, e dunque in violazione dei limiti imposti dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articoli 20 e 21, considerava applicabile la Legge n. 183 del 2010, articolo 32 e condannava la società al pagamento dell'indennità onnicomprensiva pari a 12 mensilità.
LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte che, però, le dava torto.
I giudici di legittimità precisavano che “In tema di somministrazione irregolare, il Decreto Legge n. 34 del 2020, articolo 80 bis conv., con modif., dalla L. n. 77 del 2020 - ove è previsto che il Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 38, comma 3, secondo periodo ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o gestione del rapporto si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento - deve qualificarsi come norma di interpretazione autentica, in quanto, chiarendo la portata della norma interpretata, intervenendo, con effetti retroattivi, su quei profili applicativi che avevano dato luogo ad incertezze, prescrive una regola di giudizio destinata ad operare in termini generali per le controversie già avviate come per quelle future”.
Di conseguenza, il licenziamento irrogato dal somministratore non estingue il rapporto che intercorre fra il lavoratore e l’utilizzatore.
Inoltre, gli Ermellini ritenevano infondato l'assunto di violazione dell'articolo 384 c.p.c., in quanto “A norma dell'articolo 384 c.p.c., comma 1, l'enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, anche qualora, nel corso del processo, siano intervenuti mutamenti della giurisprudenza di legittimità, sicché anche la Corte di Cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunziata dal giudice di merito, deve giudicare sulla base del principio di diritto precedentemente enunciato, e applicato dal giudice di rinvio, senza possibilità di modificarlo, neppure sulla base di un nuovo orientamento giurisprudenziale della stessa Corte, salvo che la norma da applicare in relazione al principio di diritto enunciato risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di "jus superveniens", comprensivo sia dell'emanazione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale” (v. Cass. n. 27155 del 2017; n. 6086 del 2014; n. 13873 del 2012).
In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso della società Alfa.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Cosa richiede l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento?
Su ciò si è pronunciata la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17731 del 21 giugno 2023.
Nella vicenda esaminata, i giudici di merito confermavano la decisione resa dal Tribunale e rigettavano la domanda proposta da Sempronio nei confronti dell’ASL, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato.
La Corte distrettuale rigettava la domanda del lavoratore in quanto non considerava espressiva della volontà di impugnare il licenziamento la manifestazione di dissenso rispetto al provvedimento espulsivo pronunciata con la dicitura in calce alla lettera di comunicazione del recesso “prendo solo per ricevuta visione della lettera non condividendo né la forma né il contenuto”.
Sempronio si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la non conformità a diritto del convincimento espresso dai giudici di secondo grado circa l'inidoneità della nota dal ricorrente apposta in calce alla lettera di licenziamento a riflettere la volontà di impugnare l'intimato licenziamento; il ricorrente asseriva essere sufficiente, ai sensi di legge ed in base al principio della libertà della forma degli atti, qualsiasi atto scritto che valga a manifestare al datore la volontà di contestare la validità ed efficacia del licenziamento.
Altresì, Sempronio, imputava alla Corte territoriale l'omessa pronunzia in ordine ai dedotti motivi di illegittimità del recesso.
Il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso stabilendo che “Ai fini dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento ai sensi dell'articolo 6, L. n. 604 del 1966, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l'efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all'autorità giudiziaria”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 15002/2023, la Suprema Corte ha stabilito che nel caso di licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta alle mansioni assegnategli, il datore è tenuto a dimostrare la validità delle motivazioni che lo hanno spinto a detta decisione.
Nella vicenda esaminata, i giudici di merito, in sede di reclamo ex L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 58 e in riforma della sentenza del Tribunale dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla cooperativa sociale Alfa a Tizia per sopravvenuta parziale inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di operatrice socio sanitaria – OSS incompatibili con residuali mansioni, con applicazione della tutela reintegratoria di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 7, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 e condanna al pagamento di un risarcimento del danno pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Secondo la Corte distrettuale, la Cooperativa aveva violato l’obbligo di verificare la possibilità di effettuare adattamenti organizzativi ragionevoli onde trovare alla lavoratrice una sistemazione adeguata alle condizioni di salute, adattamento possibile alla luce del tipo di organizzazione adottato dalla società.
A questo punto, la Cooperativa si rivolgeva alla Cassazione, la quale riteneva il ricorso infondato.
I giudici di legittimità precisavano che “Nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità del Decreto Legislativo n. 216 del 2003, articolo 3, comma 3-bis, il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 5, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, con la possibilità di assolvere tale ultimo onere mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto”.
Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'