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LA DISCIPLINA DELLA LOCAZIONE NON ABITATIVA

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Secondo l’articolo 1571 del codice civile, la locazione è il contratto con il quale una parte (locatore) si obbliga a far godere all'altra (conduttore) una cosa mobile o immobile per un certo periodo di tempo verso un determinato corrispettivo. Detta norma prevede un ambito applicativo generale per i beni mobili e immobili (artt. 1571-1614), nell’ambito del quale rientra la locazione di fondi urbani (artt. 1607-1614). La Legge n. 431/98, che ha abrogato in parte la Legge n. 392/78, contiene, invece, la disciplina delle locazioni di immobili urbani adibiti a uso abitativo e delle locazioni ad uso diverso da quello abitativo. La locazione a uso diverso da quello di abitazione è il contratto con il quale un soggetto (detto locatore) mette a disposizione di un altro soggetto (detto conduttore) un immobile destinato a un uso diverso da quello abitativo, ottenendo in cambio il pagamento di un corrispettivo stabilito dalle parti. Per “uso non abitativo” si intende il fatto che trattasi di immobili destinati allo svolgimento di attività artigianali, industriali, nonché di interesse turistico, come, ad esempio, agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi e attività alberghiere o a queste ultime assimilate, vale a dire pensioni, trattorie, case di cura, stabilimenti balneari e stabilimenti di pubblici spettacoli. La durata della locazione non abitativa dipende dall'attività che il conduttore intende svolgere nell'immobile locato. In particolare, essa è fissata in sei anni se si tratta di attività commerciali, artigianali, industriali, professionali e turistiche, mentre è fissata in nove anni in caso di attività teatrali e alberghiere o di altre attività a queste ultime assimilate. Qualora venga pattuita dalle parti una durata contrattuale inferiore, questa è considerata automaticamente pari alla durata stabilita dalla legge. Diversamente è previsto per i contratti relativi ad attività a carattere stagionale: in questi casi, la locazione deve necessariamente essere rinnovata sempre allo stesso conduttore per la durata della stagione che interessa la sua attività, a seconda dei casi, per sei o nove anni consecutivi. Per quanto concerne invece la forma contrattuale, per questa tipologia di locazione vale il principio generale della libertà di forma (fatta eccezione per i contratti di durata superiore a nove anni e per quelli stipulati dalla pubblica amministrazione), a condizione che il contratto venga sottoposto a registrazione. Il conduttore può recedere dal contratto in qualunque momento, a patto che comunichi formalmente la sua intenzione almeno sei mesi prima della data di esecuzione del recesso; in mancanza di una tale previsione contrattuale potrà comunque recedere, fermo restando l'obbligo di tempestivo preavviso al locatore soltanto nel caso in cui ricorrano gravi motivi inerenti alla sua persona e all'immobile locato o motivi fondati su eventi successivi alla stipula del contratto, individuati dalla giurisprudenza in “avvenimenti estranei alla volontà del locatario, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione; inoltre, con riferimento all'andamento dell'attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, non solo un andamento della congiuntura economica sfavorevole all'attività di impresa, ma anche uno favorevole, purché sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto) che lo obblighi ad ampliare la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo” (Cass. Civ., sent. n. 10624 del 26 giugno 2012). Il locatore può disdire il contratto soltanto in presenza di specifici casi: 1) qualora voglia adibire l’immobile a propria abitazione, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado in linea retta (figli, genitori e nipoti); 2) qualora intenda adibire l’immobile all’esercizio di un’attività commerciale, artigianale, industriale o di interesse turistico, purché tali attività vengano esercitate dal locatore in proprio o dal suo coniuge e/o dai suoi parenti entro il secondo grado in linea retta (genitori, figli o nipoti); 3) nel caso in cui il locatore sia una pubblica amministrazione e voglia adibire l’immobile all’esercizio di attività volte al conseguimento della propria finalità istituzionale; 4) qualora voglia ristrutturare l’immobile allo scopo di rendere la superficie dei locali conforme al piano comunale di cui agli artt. 11 e 12 della L. 426/197 e se questa ristrutturazione risulti incompatibile con la presenza del conduttore nell’immobile. Nel momento in cui il locatore intende disdire il contratto di locazione in uno di questi casi appena esposti, questi è sottoposto a sanzioni se, entro sei mesi dal rilascio dell’immobile, non abbia realmente attuato la motivazione della disdetta, cioè non abbia adibito l’immobile ad abitazione oppure ad una propria attività commerciale. Come avviene per la locazione ad uso abitativo, le spese della locazione non abitativa si suddividono in ordinarie e in straordinarie. Mentre le prime sono a carico del conduttore, le spese straordinarie gravano invece sul locatore. Inoltre, il conduttore può sublocare l'immobile, oppure anche cedere il contratto a terzi, indipendentemente dal consenso del locatore, purché lo faccia presente a quest’ultimo mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Qualora ricorrano gravi motivi, il proprietario può però opporsi alla sublocazione. La locazione ad uso non abitativo può prevedere l’adeguamento ISTAT del canone di locazione, ma ciò deve essere espressamente previsto nel contratto. Alle locazioni commerciali non si applica l'opzione della cedolare secca, come invece avviene nel caso delle locazioni ad uso abitativo. Infine, anche le locazioni commerciali vanno registrate e le relative spese di registrazione sono divise a metà fra le parti.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


CONDOMINIO E OBBLIGO DI RENDICONTO

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Con la riforma del condominio (Legge n. 220/2012), il legislatore ha introdotto nel codice civile una disposizione sul cosiddetto Rendiconto condominiale: con il nuovo articolo 1130-bis c.c., infatti, sono stati resi ufficiali importanti criteri guida che riguardano il contenuto e le norme tecniche che disciplinano tale fondamentale strumento. L’amministratore di condominio, al pari di ogni mandatario di interessi altrui, ha l’obbligo di rendere al mandante il conto dell’attività da lui esercitata. Deve cioè fornire una corretta e analitica informazione relativamente alle spese assunte nell’interesse comune, nonché alla gestione del denaro dei diversi proprietari. In particolare, “’obbligo di rendiconto è legittimamente adempiuto quando chi vi sia tenuto fornisca la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto delle somme incassate e dell’entità causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali alla individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato a criteri di buona amministrazione (Cassazione Civile, 14 novembre 2012, n. 19991). La riforma, oltre ad incidere sulla professionalità e sulle conoscenze giuridiche dell’amministratore, ha anche modificato gli obblighi di quest’ultimo verso i proprietari, soprattutto per quanto concerne le modalità di gestione, non tanto e non solo dei beni condominiali ex art. 1117 c.c., ma, in modo particolare, delle somme gestite in entrata e in uscita e delle modalità di descrivere l’uso di detti introiti. Il rendiconto viene comunemente chiamato consuntivo o anche bilancio consuntivo. Si tratta di un documento contabile che deve essere impostato in modo tale da distinguere spese ordinarie e spese straordinarie. Il rendiconto è composto dai seguenti elementi: il registro di contabilità; il riepilogo finanziario; una nota di accompagnamento sintetica, esplicativa della gestione annuale. Il rendiconto va presentato almeno una volta all’anno all’assemblea ordinaria e deve essere da quest’ultima approvato. A questo proposito, la convocazione dell’assemblea dev’essere fatta entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio annuale. L’eventuale omissione può comportare la revoca giudiziale dell'amministratore, trattandosi di grave irregolarità; nel caso in cui dovesse pendere un provvedimento giudiziale di revoca, le delibere di approvazione tardiva dei rendiconti, eventualmente adottate nelle more del procedimento in questione, non varranno a sanare l'inadempimento dell'amministratore, il quale ha tra le sue funzioni fondamentali, quella di rendere il conto della propria gestione. L'amministratore di condominio ha il dovere di fare transitare tutte le entrate e le uscite dal conto corrente del condominio allo scopo di permettere l'immediata verifica della situazione attraverso un semplice controllo fra registro di contabilità e conto corrente condominiale. Nell’ambito del condominio, infatti, vige un obbligo di tracciabilità delle operazioni contabili in entrata e in uscita, o meglio, più che un obbligo di tracciabilità, si tratta di un obbligo a carico dell'amministratore, imposto ex lege, di avere una contabilità tale da permettere un riscontro o una verifica immediata delle operazioni contabili in entrata e in uscita, che si fonda su una semplice operazione di confronto fra il registro di contabilità e l'estratto conto corrente condominiale. Mediante il rendiconto condominiale vengono giustificate le spese addebitate ai condomini, ragione per la quale il conto consuntivo della gestione condominiale non deve essere strutturato in base al principio della competenza, bensì a quello di cassa; l'inserimento della spesa va pertanto annotato in base alla data dell'effettivo pagamento, così come l'inserimento dell'entrata va annotato in base alla data dell'effettiva corresponsione. La mancata applicazione del criterio di cassa non rende intelligibile il bilancio e riscontrabili le voci di entrata e di spesa e le quote spettanti a ciascun condomino. Il criterio di cassa, in base al quale vengono indicate le spese e le entrate effettive consente infatti di conoscere esattamente la reale consistenza del fondo comune. Laddove il rendiconto sia redatto, invece, tenendo conto sia del criterio di cassa e che di competenza, cioè indicando indistintamente, unitamente alle spese ed alle entrate effettive, anche quelle preventivate senza distinguerle fra loro, può sussistere confusione (Cassazione Civile, sez. II, 30 ottobre 2018 n. 27639). A proposito dell’obbligo di rendiconto, è importante annoverare un’altra pronuncia della Suprema Corte, secondo cui l’obbligo di rendiconto che, quale mandatario con rappresentanza dei condomini, l’amministratore è tenuto a osservare con riferimento alle somme detenute per conto del condominio, può dirsi adempiuto quando egli abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto della somma incassata e dell’entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi funzionali all’individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell’incarico, onde stabilire se il suo operato si sia adeguato, o meno, a criteri di buona amministrazione. Nella specie, la S.C., in una fattispecie anteriore all’entrata in vigore della Legge n. 220 del 2012, ha confermato la decisione di merito che, sulla base delle prove raccolte nel processo, aveva ritenuto raggiunta la dimostrazione del versamento di una somma di pertinenza del condominio su un conto corrente di gestione intestato all’amministratore e del suo successivo impiego per coprire passività condominiali. (Cassazione Civile, sez. VI, 17/01/2019, n. 1186). L’obbligo dell’amministratore di provvedere alla redazione del rendiconto annuale sulla gestione, non vincola lo stesso a depositare la documentazione giustificativa, dal momento che i condomini intervenuti possono prendere visione o estrarre copia a proprie spese. L’obbligo di presentazione del rendiconto è indipendente dalla nomina di un nuovo amministratore o dalla riconferma di quello precedente, in quanto trattasi di elementi che non incidono affatto sulla rendicontazione. È doveroso, però, evidenziare che, a tutela del proprietario, la nomina, oppure la riconferma, dell'amministratore di condominio è fortemente collegata alla presentazione dei rendiconti, dunque, è opportuno che i proprietari non riconfermino l'amministratore in ritardo con la presentazione dei rendiconti.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L'OMICIDIO STRADALE ALLA LUCE DELLA LEGGE N. 41 del 2016 E LE PENE PREVISTE

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Con la legge n. 41 del 2016 l’omicidio stradale è diventato un reato autonomo rispetto all’omicidio colposo, con pene più severe e diverse circostanze aggravanti in caso di guida in stato di ebbrezza per abuso di alcool e droghe. L’omicidio stradale viene trattato diversamente rispetto alle altre tipologie di omicidio e ciò in ragione del gran numero di incidenti mortali che si verificano nel nostro Paese. Alla legge n. 41/2016 si è giunti dopo anni di accese proteste da parte dei familiari delle vittime della strada e tale legge aggiunge al Codice Penale l’articolo 589 bis, che disciplina, appunto, l’omicidio stradale.

La novità principale consiste nella previsione di una pena molto alta, vale a dire da 8 a 12 anni, per chi causa un omicidio al volante “per colpa”, trovandosi in stato di grave ebbrezza (più di 1,5 g di alcol per litro di sangue) o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

La stessa pena si applica anche a chi ha un tasso alcolemico compreso tra 0,8 g/L e 1,5 g/L, nel caso in cui il conducente sia un neo-patentato o eserciti professionalmente l’attività di trasporto di persone o di cose su mezzi pesanti.

Inoltre, è prevista una pena che va da 5 a 10 anni se il tasso alcolico del guidatore è compreso tra 0,8 g/L e 1,5 g/L e l’omicidio è derivato da condotte pericolose, quali eccesso di velocità, guida contromano, passaggio col rosso agli incroci, inversione di marcia su intersezioni, curve e dossi.

La pena è, invece, della reclusione da 2 a 7 anni se l’ebbrezza è lieve, ossia compresa tra 0,5 g/L e 0,8 g/L, oppure perché è inferiore all’1,5 g/L, ma non ricorrono le altre condizioni esposte sopra.

Infine, la pena aumenta fino a un massimo di 18 anni di carcere nel caso di morte di più persone ed è diminuita della metà quando l'omicidio stradale, sebbene causato da condotte imprudenti, non sia conseguenza soltanto dell’azione del colpevole.

La normativa sull’omicidio stradale è oggetto di aspre critiche da parte degli esperti a causa della sua eccessiva rigidità, che pare voglia ostacolare il dovere del giudice di verificare in concreto se ci sia stata colpa, quanto grave quest’ultima sia stata e se tra la colpa e l’evento vi sia un nesso di causa/effetto.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, al principio costituzionale di colpevolezza e anche al testo dell’art. 589 bis che parla in maniera esplicita di “colpa”, per punire il guidatore occorre infatti che sussista un nesso di causa/effetto fra la condotta sanzionata (la guida in stato di ebbrezza) e la morte della vittima.

La sentenza n. 24898 del 2007 della Cassazione penale dice che questo nesso non può darsi per scontato solo per il fatto che il conducente era ubriaco o drogato, se viene dimostrato che l’incidente si sarebbe verificato lo stesso per altri motivi che non si possono imputare soltanto al guidatore.

In concreto non è semplice stabilire il nesso di causalità fra lo stato di alterazione e la morte della vittima. Si pensi, ad esempio, al caso di un conducente che ha assunto droga 48 ore prima dell’incidente: in quell’istante non è più in stato di alterazione e quindi non dovrebbe rispondere di omicidio stradale. Nonostante ciò, con i test che rivelano la presenza di sostanze stupefacenti nel sangue, rischierebbe lo stesso di essere accusato, poiché probabilmente risulterebbe positivo.

Nelle ipotesi di omicidio stradale è previsto l’arresto in flagranza di reato, sebbene solo in determinati casi. In particolare, l’arresto in flagranza è obbligatorio soltanto nell’ipotesi di guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, in tutti gli altri casi, invece, è facoltativo e rimesso alla volontà delle Forze dell’ordine.

La legge n. 41 del 2016 ha introdotto pure l’articolo 590-bis del Codice penale, che disciplina il reato di lesioni stradali: rischia la reclusione da tre mesi a un anno chi provoca alla vittima lesioni gravi (prognosi di almeno 40 giorni) e da uno a tre anni per le lesioni gravissime (che provocano una malattia insanabile). Anche nel caso di lesioni stradali, le pene sono aumentate per chi circola sotto effetto di droghe o alcol o commette alcune violazioni alla disciplina della circolazione stradale particolarmente gravi.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'