Il lavoratore che agisce in giudizio per sentire dichiarata l'illegittimità di un licenziamento, ha l'onere di provare l'esistenza del licenziamento stesso. A tal fine “non può ritenersi sufficiente la prova della cessazione di fatto delle prestazioni lavorative”. Ciò è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 9108 dell’1 aprile 2021.
Dunque, il lavoratore il quale deduca che il rapporto di lavoro sia cessato a causa del licenziamento intimatogli dal datore di lavoro e impugni il licenziamento, deve provare il licenziamento stesso, quale fatto costitutivo dei diritti fatti valere, laddove la controdeduzione del datore di lavoro relativa alle rassegnate dimissioni, assume il valore di un'eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art. 2697 comma 2 c.c.
Il giudice di merito, sulla base delle evidenze istruttorie, deve indagare il comportamento delle parti da cui risulti l'intento consapevole di voler porre fine al rapporto. Questa indagine “deve essere particolarmente accurata, tenendo conto della circostanza che l'estromissione dal rapporto non può ricondursi tout court alla constatazione della cessazione di fatto dell'attuazione del rapporto, giacché si introdurrebbe in tal modo, in assenza di una specifica previsione di legge, una sorta di esonero del lavoratore dall'onere della prova riguardo alla effettiva esistenza di un licenziamento”.
Come è noto, il licenziamento, dal punto di vista strutturale, è atto unilaterale con il quale il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso.
Chi impugna un licenziamento adducendo che lo stesso è avvenuto senza il rispetto della forma prescritta, ha l'onere di provare, oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione di tale volontà datoriale, seppur realizzata mediante comportamenti concludenti.
Questa identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del datore di lavoro, anche per il fatto che questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del canone dettato dall'art. 2697, comma 1, c.c., secondo il quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
In definitiva, secondo il Tribunale Supremo, “il lavoratore che impugni il licenziamento allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, deve prendere in considerazione tutte le possibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in esubero o che sia divenuto inidoneo alle mansioni assegnategli. È questo il cosiddetto obbligo di repechage (ripescaggio) che vige in capo al datore.
Dunque, il repechage è strettamente legato al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, che, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/1966, consiste nel licenziamento dovuto a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Difatti, nell’esercizio della sua attività d’impresa, il datore di lavoro, spinto da necessità economiche o di riorganizzazione (ad esempio, sopravvenuta inidoneità alla mansione, esternalizzazione di una certa attività, ecc.) può decidere di sopprimere una posizione lavorativa.
Qualora il lavoratore contesti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare di aver tentato il repechage, cioè dovrà dimostrare:
• che, al momento del licenziamento, i posti di lavoro residui erano occupati stabilmente e che, dopo il licenziamento, per un lungo periodo di tempo, non ha effettuato alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del dipendente licenziato;
• che il dipendente non possedeva la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda;
• che, al momento del licenziamento, non erano disponibili posizioni analoghe a quella soppressa e che il lavoratore non ha dato il suo consenso alla prospettata possibilità di reimpiego in mansioni inferiori, rientranti nel suo bagaglio professionale.
Nell’ipotesi di licenziamento di dirigenti la verifica del repechage non è invece necessaria.
La mancata prova dell'impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore (cd. repêchage), gravante sul datore di lavoro, determina l'illegittimità del licenziamento, ma esula dal fatto posto a fondamento del licenziamento. Ne consegue l'applicazione del regime risarcitorio di cui all'art. 18, comma 7, St. lav., come novellato dalla L. n. 92/2012 (Trib. Milano, 28 novembre 2012).
Quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di un personale omogeneo e fungibile, non soccorre più il normale criterio costituito dalla "posizione lavorativa" da sopprimere in quanto non più necessaria e, tantomeno, soccorre il criterio della impossibilità di "repêchage", in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono quindi potenzialmente licenziabili: si tratta di un caso, in definitiva, in cui il nesso di causalità si configura non tra il motivo e la soppressione di un determinato posto di lavoro, ma tra il motivo e la soppressione dell'uno o dell'altro, indifferentemente, tra più posti di lavoro (App. Venezia, 31 ottobre 2012).
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (e soggettivo), il datore di lavoro deve dare al lavoratore il preavviso o, in mancanza, deve corrispondere la relativa indennità sostitutiva, equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
Durante il periodo di preavviso continuano ad applicarsi le norme di legge e di contratto concernenti il rapporto di lavoro, proseguono gli effetti del contratto e persistono i doveri che incombono sul lavoratore nell'esecuzione del rapporto di lavoro.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 2472 del 3 febbraio 2021 la Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha affrontato ancora una volta il tema della dequalificazione o demansionamento del lavoratore, affermando che queste condotte assunte dal datore di lavoro, laddove siano lesive dei diritti del lavoratore, possono arrecare a quest’ultimo un danno cosiddetto "emergente", il cui risarcimento non è soggetto a tassazione.
Secondo consolidato orientamento di legittimità, le violazioni in questione devono essere accertate in concreto prendendo in considerazione la persistenza del comportamento lesivo, la durata e la reiterazione delle situazioni di disagio sia professionale che personale ed anche l’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, a prescindere dalla sussistenza o meno della volontà del datore di lavoro di declassare il lavoratore o di svilirne le sue mansioni.
Conseguentemente, “tale tipologia del pregiudizio, come riconosciuto, determina la sua appartenenza alla fattispecie del danno emergente, e non di lucro cessante ravvisabile nelle ipotesi di perdita derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti, per cui non è considerata reddito soggetto a tassazione”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 5540 dell’1 marzo 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha trattato il tema relativo al patto di non concorrenza, soffermandosi in particolare sulla sua nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo spettante al prestatore di lavoro.
Più nello specifico, il Tribunale Supremo ha stabilito che il patto di non concorrenza è una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta, dal momento che configura un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e quest’ultimo si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto lavorativo, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore.
Dal punto di vista degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, le clausole di non concorrenza, da una parte hanno lo scopo di tutelare l'imprenditore da qualsiasi "esportazione presso imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, dall’altra, quello di salvaguardare il prestatore subordinato, affinché queste clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni considerate più convenienti.
Secondo gli Ermellini, il patto di non concorrenza, sebbene stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo sotto il profilo prettamente causale, pertanto il corrispettivo con esso stabilito, in quanto diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere solamente i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c. e, dunque, deve essere "determinato o determinabile".
Inoltre, “operano su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall'art. 1346 c.c. per ogni contratto, e la nullità per violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo "non è pattuito" ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato”.
Salva l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c., "l'espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato".
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 3816 del 15 febbraio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in ambito lavoristico, affrontando il tema delle prestazioni accessorie del pubblico dipendente, nel caso in esame, un infermiere.
Secondo il Tribunale Supremo “il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, tale risultando quella che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione”.
Dunque, il dipendente che, nel rispetto della professionalità e della qualificazione contrattuale conseguite, nel corso del rapporto di lavoro venga adibito dal datore allo svolgimento di ulteriori prestazioni rispetto a quelle originariamente assegnategli, non può pretendere, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, la corresponsione di un doppio salario, per la duplicità di mansioni conglobate in un'unica.
Il parametro di riferimento per la stessa configurabilità in astratto di una mansione aggiuntiva deve essere il sistema di classificazione dettato dalla contrattazione collettiva, giacché la mansione potrà essere considerata ulteriore rispetto a quelle che il datore di lavoro può legittimamente esigere ex art. 52 d.lgs. n. 165/2001 esclusivamente a patto che la stessa esuli dal profilo professionale delineato in via generale dalle parti collettive.
Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, “perché il prestatore possa pretendere ex art. 36 Cost. il pagamento della prestazione ritenuta aggiuntiva non è sufficiente la mera allegazione dello svolgimento di compiti ulteriori e di un criterio di calcolo per determinare il compenso di tale attività, ma è necessario fornire elementi tali che consentano di verificare la congruità del complessivo trattamento economico ricevuto rispetto al parametro di cui all'art. 36 Cost.”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'