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Concessione di ferie o aspettativa: nessun obbligo automatico

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Sebbene il CCNL contempli il diritto del lavoratore a godere di ferie o aspettativa in presenza di determinate situazioni, la richiesta deve essere necessariamente approvata dal datore, dal momento che non è previsto un obbligo di concessione automatica delle stesse. Ciò è quanto ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza n. 13482/2023. Tizia impugnava il licenziamento per giustificato motivo soggettivo che le era stato inflitto per assenza ingiustificata dal lavoro prolungatasi per oltre venti giorni. Tizia asseriva la sussistenza in capo alla società datrice di un obbligo di concedere le ferie o l'aspettativa non retribuita per motivi di salute. La stessa, infatti, soffriva di sindrome depressiva maggiore con chiusura relazionale. I giudici di secondo grado rigettavano il ricorso. Poiché la vicenda approdava in Cassazione, quest’ultima confermava la statuizione della Corte territoriale. Così si esprimevano gli Ermellini: “L'interpretazione della Corte territoriale dell'articolo 31 del CCNL, applicabile al caso di specie, nella parte in cui sono stati ritenuti necessari, ai fini della concessione delle ferie o dell'aspettativa, sia la domanda per iscritto del lavoratore che il provvedimento di concessione del datore di lavoro, è conforme al dato letterale della disposizione contrattuale collettiva ed è compatibile, sotto il profilo logico sistematico, con il principio di libertà di iniziativa economica sancito dalla Cost., articolo 41 che, attribuendo all'imprenditore il potere direttivo e gerarchico in ordine alla organizzazione dell'impresa, comunque gli conferisce un potere di controllo sulla valutazione delle relative istanze (perché magari le ferie non sono state maturate o per carenza dei presupposti in ordine alla concessione dell'aspettativa) sicché non è consentito ravvisare un obbligo automatico nella concessione delle stesse”. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Rifiuto di eseguire un ordine del datore: quando è legittimo?

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10227/2023, ha chiarito che il rifiuto di eseguire un ordine datoriale è legittimo esclusivamente qualora la condotta del dipendente, piuttosto che rappresentare un pretesto per sottrarsi agli obblighi che scaturiscono dal contratto di lavoro, sia improntata a correttezza e buona fede. Più nello specifico, i giudici di legittimità hanno stabilito che “Nei contratti a prestazioni corrispettive, tra i quali rientra il contratto di lavoro, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l'inadempimento dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico sociale del contratto, il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede ex articoli 1175 e 1375 c.c., e ai sensi dello stesso cpv. dell'articolo 1460 c.c., affinché l'eccezione di inadempimento sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all'intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali”. Altresì, gli Ermellini hanno richiamato consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “Il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l'inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell'articolo 1460 c.c., comma 2, secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete”. Nella vicenda esaminata, i giudici di merito, nell'eseguire la valutazione comparativa del comportamento delle parti, alla luce dei reciproci obblighi e dei criteri di correttezza e buona fede, avevano messo in risalto il dato per cui l'ordine datoriale di anticipazione dell'orario di lavoro, dalle 5.00 alle 4.25, poggiava su una fonte contrattuale apparentemente valida ed efficace; inoltre, la richiesta di turno allargato, oltre a non avere profili di illiceità penalmente rilevanti, era stata rivolta a ciascun lavoratore al massimo in due occasioni, dunque senza pregiudizio per le loro esigenze vitali. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo ha rigettato il ricorso proposto dai lavoratori.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Può essere licenziato il lavoratore che svolge altra attività durante la malattia?

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Con l’ordinanza n. 12994 del 12 maggio 2023, la Suprema Corte ha affermato che è passibile di licenziamento il dipendente che svolge altra attività lavorativa durante il periodo di malattia. Più nello specifico, i giudici di legittimità hanno sottolineato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente durante lo stato di malattia, configura violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ed anche dei doveri generali di correttezza e buona fede, non solo nel caso in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, ma anche nell’ipotesi in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Nella vicenda in esame, i giudici di secondo grado avevano rilevato in maniera corretta che il lavoratore, nel corso dello stato di malattia, aveva tenuto comportamenti incompatibili con il predetto stato, i quali avevano integrato una condotta incauta per inosservanza delle prescrizioni mediche di “riposo e cure”. In altre parole, il dipendente, ostacolando o comunque ritardando la guarigione, aveva violato i doveri di correttezza, diligenza e buona fede, condotta questa che integra una giusta causa di licenziamento. Pertanto, il Tribunale Supremo dichiarava inammissibile il ricorso del lavoratore e condannava quest’ultimo alla rifusione, in favore della società controricorrente, delle spese del giudizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il dipendente che minaccia il datore è passibile di licenziamento

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Con una recente pronuncia (ordinanza n. 6584 del 6 marzo 2023), la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che il dipendente che rivolge minacce al suo datore di lavoro è passibile di licenziamento, non avendo rilevanza il fatto che l'accaduto sia conseguito a un particolare stato psicologico ed emotivo del lavoratore. Tizio, guardia giurata, dopo essere stato sentito da Caio, Amministratore delegato della società presso cui lavorava, in sede di presentazione delle giustificazioni in ordine ad una contestazione disciplinare, aveva raggiunto il piazzale della società e, in preda alla rabbia, aveva tirato fuori una pistola pronunciando parole minacciose contro il suo titolare. Nel riformare la sentenza del giudice di prime cure, i giudici del gravame respingevano l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato a Tizio e condannavano quest'ultimo a restituire alla propria società datrice la somma di 12.480,00 euro, percepita in esecuzione della pronuncia di primo grado. Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte di Cassazione, la quale gli dava torto. I giudici di piazza Cavour evidenziavano che la Corte territoriale non aveva affrontato il problema relativo alla corretta identificazione dell’oggetto dell’addebito (cioè se lo stesso fosse connesso o meno a profili concernenti stati emotivi e psicologici oppure riguardanti la sola condotta minacciosa del dipendente relativa a quel singolo episodio), dal momento che dalla sentenza impugnata emergeva che il fatto oggetto di addebito fosse costituito dall'episodio accaduto sul piazzale dell’azienda. Pertanto, per potersi sottrarre alla sanzione di inammissibilità per violazione del divieto di novum, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare l'allegazione e la deduzione della questione dinanzi al giudice di secondo grado. Secondo gli Ermellini, “La censura che denunzia errata applicazione della nozione di insubordinazione in relazione alla connessa necessità del verificarsi di un pregiudizio per la società datrice di lavoro, non si confronta con le effettive ragioni della decisione nella quale la valutazione di gravità della condotta non concerne solo il profilo di ribellione all’autorità datoriale titolare del potere disciplinare, ma risulta specificamente collegata alle particolari modalità con le quali si è estrinsecata la condotta addebitata, da ritenersi particolarmente pericolose e minacciose in quanto accompagnate dall’estrazione dalla fondina di un’arma caricata”. In virtù di ciò, i giudici di legittimità rigettavano il ricorso e condannavano il ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Quando il dipendente può rifiutarsi di eseguire mansioni inferiori?

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La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30543 del 18 ottobre 2022, ha specificato in quali circostanze il lavoratore adibito a mansioni inferiori può rifiutarsi di svolgerle. Nella vicenda in esame, il giudice di prime cure, confermando il provvedimento emesso nella fase sommaria, accoglieva per insussistenza del fatto la domanda proposta da Tizia nei confronti della società Alfa per la declaratoria di illegittimità del licenziamento e dichiarava l'inammissibilità della contestuale domanda di annullamento delle sanzioni disciplinari irrogate alla lavoratrice per estraneità delle stesse al procedimento speciale ex lege Fornero. A Tizia, assunta come cuoca, come tale tenuta all'approntamento dei pasti relativi all'utenza, nonché a tutte le attività preesistenti e successive indispensabili a consentire la preparazione e l'assunzione dei cibi, era stato addebitato di essersi rifiutata di portare le colazioni in classe, con comportamento reiterato e recidivo. I giudici di merito confermavano la sentenza di primo grado in punto di licenziamento e ritenevano ammissibile e fondata la domanda di annullamento delle sanzioni disciplinari, rilevando che l'art. 192 c. 1 del CCNL, richiamato nella lettera di licenziamento, sanziona “il rifiuto di eseguire i compiti ricadenti nell'ambito delle mansioni afferenti alla qualifica di inquadramento”, mentre Tizia si era rifiutata di svolgere mansioni inferiori e differenti da quelle proprie della sua qualifica. Poiché il caso giungeva in Cassazione, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, evidenziava che l'illegittimo comportamento del datore di lavoro può giustificare il rifiuto di svolgere mansioni non corrispondenti, perché inferiori, a quelle della qualifica, a condizione che tale reazione sia connotata da proporzionalità e conformità a buona fede, in base a una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti; secondo gli Ermellini, nella vicenda esaminata, tale verifica non era stata compiuta dai giudici d’Appello. Pertanto, per il Tribunale Supremo, il dipendente adibito a mansioni inferiori può legittimamente rifiutare lo svolgimento della prestazione nel caso in cui il contratto collettivo applicato sanzioni unicamente il rifiuto di eseguire compiti rientranti nella qualifica di appartenenza.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'