Un progetto di tre studentesse dell’istituto veneziano potrebbe diventare riparo per ragazze in un campo profughi di Diavata, a Salonicco.
Il padiglione della Glass House era stato progettato in occasione degli Open Day del 2018 e da allora installato nel chiostro dei Tolentini. Le tre studentesse hanno ripreso il padiglione e nella loro tesi di laurea dal titolo “Architetture umanitarie: riprogettare la Iuav Glass House per le ragazze del campo profughi di Diavata” lo hanno reinterpretato in chiave diversa.
Il progetto iniziale aveva come scopo quello di realizzare un riparo emergenziale, il viaggio a stretto contatto con i profughi del campo di Diavata ha poi spostato gli obiettivi progettuali verso qualcosa di più, che prede ora il nome di Spazio Venezia. Una Ong greca diretta da un italiano, la QRT Quick Response Team lavora sul posto per contribuire alle necessità primarie dei profughi ed anche al loro benessere attraverso la promozione di attività didattiche e ricreative. Da qui l’idea di trasformare la Glass House non in una struttura temporanea ma in una aula di fotografia, grazie anche al supporto del fotografo Mattiia Bidoli, ed in linea con i principi di sostenibilità e recycling.
La struttura infatti è realizzata con un materiale che deriva dal vetro, a cui si è poi aggiunto un tavolato ligneo, serramenti in policarbonato ed una copertura coibentata. Così ha commentato Salvatore Russo, relatore della tesi e professore di Tecnica delle costruzioni:
“È stata un’esperienza eccezionale dal punto di vista dell’utilità sociale. Non è scontato riuscire a concludere un progetto che abbia veramente al centro l’altruismo e la solidarietà. E ci siamo riusciti. Il riutilizzo della Glass House in un campo profughi - esperienza che speriamo di concludere e portare a buon fine in tempi brevi - è un raro esempio di virtuosismo pedagogico e accademico. Il merito va alle tre studentesse, ora architette, che ci hanno creduto sino in fondo.”
È stata recentemente stretta una collaborazione tra lo IUAV e la Ong NAOMI Workshop Thessaloniki che supprota la QRT al fine di portare avanti progetti sul tema e la realizzazione della Glass House. Per lo stesso motivo è stata aperta una raccolta fondi per la realizzazione del progetto, trasporto dei materiali, montaggio ed acquisto dei nuovi elementi.
La maison francese sceglie i paesaggi toscani per la sua nuova sede, il progetto lo firma MetroOffice. Per la precisione a Radda in Chianti dove l’immobile di circa 5.200 metri quadrati prende il posto di un edificio industriale abbandonato.
L’estetica è un binomio tra il moderno e il contemporaneo, dove anche luci ed ombre si scontrano. Il sistema di aperture strategicamente messo a punto e la sinergia tra i pieni e i vuoti valorizzano il paesaggio talvolta celandolo e talvolta mettendolo in primo piano. Ritornano alla mente la Maison de Verre di Pierre Chareau e Bernard Bijvoet per la capacità del complesso di risultare aperto ma al contempo chiuso in se stesso.
“Un disegno essenziale ed estremamente sensibile alle qualità̀ ambientali presenti nel territorio che trasforma la produzione in un vero e proprio luogo di bellezza.”
Queste le linee guida dei progettisti di MetroOffice Architetti, Fabio Barluzzi e Barbara Ponticelli, che interpretano la necessità non solo di fornire una sede produttiva ma di renderla anche piacevolmente vivibile dai suoi operai, in stretta connessione con i vigneti e le colline circostanti.
E come sostiene Barbara Ponticelli:
“L’obiettivo del progetto è stato privilegiare la vista verso l’esterno per gli artigiani in modo che potessero avere il contatto visivo con il passare delle ore e delle stagioni.”
La posizione in altura, sulla collina ha favorito certamente le possibilità di sfruttamento della luce e delle viste panoramiche di cui si può godere. I materiali impiegati sono il cemento, l’acciaio, il vetro e il policarbonato alveolare; il vetro e il vetrocemento grigio per le pareti lascia la possibilità di traguardare a volte verso l’esterno. La struttura è costituita da lastre di cemento armato, colonne in acciaio, travi lignee in copertura con tetto in carpenteria metallica.
Il progetto strutturale ha richiesto infatti l’intervento di competenze specifiche come quelle dell’ Ing. Roberto Ballardini:
“Le richieste architettoniche prevedevano la realizzazione di una facciata a sbalzo in vetrocemento di grande dimensione che attorniasse su tre lati l’edificio. Nello specifico la facciata presentava altezza massima di 7 metri, lunghezza complessiva 230 metri di cui tre fronti a sbalzo di 183 metri totali. La scelta strutturale doveva quindi tener conto delle azioni rilevanti dovute ai pesi posti sullo sbalzo, all’azione del vento e all’azione delle dilatazioni. Visti gli innumerevoli vincoli posti si è optato per una soluzione progettuale in acciaio in grado di assorbire sia gli sforzi che le dilatazioni trasmettendole direttamente alla struttura di copertura. La maglia strutturale ha messo in relazione tutte le parti dell’insieme costituendo legame e scheletro formale. Il progetto ha seguito una struttura gerarchica rigorosa: ossatura in profili tubolari, UPN a sostegno dei vetri, controventi in tondo, sistema di aggancio alle travi lignee, appoggi dei vetri sulle selle”.
Si articola su tre livelli e l’impianto planimetrico è ad "L" assecondando l’orografia naturale delle colline.
Il progetto rappresenta un modello di impianto industriale che rispetta il luogo ed il paesaggio che va ad occupare secondo criteri di qualità e sostenibilità.
La LOM Locanda Officina Monumentale è una cascina ottocentesca a Milano restaurata e convertita in motore propulsore di idee e baluardo di sostenibilità.
La casina risale al 1850 e si trova nella zona Cimitero Monumentale di Milano ed è una vera e propria hub dove la tecnologia incontra l’artigianato. La vocazione della cascina dunque non è stata sovrastata, in considerazione del fatto che essa era già parte del più ampio complesso detto “Cascina Lupetta” dedito alla manifattura fino al suo abbandono. Promotori sono stati Andrea Borri (committente ed allo stesso tempo esecutore), Michele Borri, Stefano Micelli, Alfredo Trotta, una sinergia di diverse competenze ed aspirazioni che trovano compimento in un luogo dinamico, di co-working, di innovazione e di confronto. Le imprese che non hanno una sede a Milano possono infatti sfruttare le nuove tecnologie messe a disposizione dalla LOM per le proprie produzioni.
Lo stesso Andrea Borri lo definisce una sorta di progetto-manifesto nell’ottica in cui l’intero intervento rappresenta un modello di rigenerazione urbana e di riqualificazione del patrimonio architettonico in un’ottica green, utile al territorio, una visione innovativa il cui successo è certamente una garanzia.
L’impianto planimetrico di forma rettangolare vede 8 ambienti uguali suddivisi dai servizi posti al centro. La tecnica costruttiva originaria in mattoni e legno ha fatto sì che le operazioni di restauro architettonico fossero piuttosto semplici. Anche il giardino esterno è stato oggetto di un progetto paesaggistico da parte di Vittorio Peretto che lo ha trasformato in un Dry Garden, ovvero un giardino che va innaffiato con poca frequenza. La ghiaia, al posto dell’erba, permette la permeabilità del terreno, e non necessita d’acqua, così come le piantumazioni scelte sono per lo più tropicali.
Anche all’interno le logiche progettuali hanno portato al mantenimento e al recupero della struttura originaria, l’impiantistica ha trovato luogo invece in un sottofondo realizzato al di sotto dei pavimenti rimossi e rimontati. Gli intonaci ed i decori sono stati restaurati, così come il sottotetto seppure con un intervento di ribassamento della soletta di divisione tra il primo ed il secondo piano.
La cascina occupa circa 1200 metri quadrati e al suo interno vi sono 700 metri quadrati dedicati alle imprese ed artigiani 4.0 che si occupano di produrre in loco, sempre nel rispetto della sostenibilità, il resto della cascina invece è adibito a bar, ristorazione, spazi comuni e di accoglienza al pubblico.
L’occasione dell’apertura è stata la Design Week milanese, la LOM ha infatti ospitato tre aziende: BertO, Dibieffe e D-house con lo scopo di promuovere le progettualità che li vedono presenti nell’hub almeno per due anni.
Un capannone industriale del ‘900 sede di un panificio avrà nuova vita grazie al progetto di OMA. Una riconversione che doterà la città di Detroit, nell’East Village, di un hub artistico ad uso misto.
L’OMA(Office for Metropolitan Architecture) che vanta partners del calibro di Rem Koolhaas, Elia Zenghelis, Zoe Zenghelis e Madelon Vriesendorp, e con sette sedi in tutto il mondo, dal 1975 si occupa della progettazione di grandi edifici pubblici come la Biblioteca centrale di Seattle, la Fondazione Prada, la Biblioteca nazionale del Qatar ecc.
Il Lantern, questo il nome dell’edificio riconvertito, fungerà da appendice per la Library Street Collective, una galleria d’arte contemporanea; è composto da tre strutture di un unico lotto collegate tra di loro, ma realizzate in tempi diversi. Il Lantern ospiterà anche due associazioni senza scopo di lucro, la Signal-Return, che si occupa di tramandare la stampa tipografica tradizionale e la PASC(Progressive Arts Studio Collective), che si occupa invece di sostenere adulti con disabilità attraverso l’arte, lo spazio a loro dedicato sarà di circa 800 metri quadrati. Ci saranno poi studi d’artista economicamente abbordabili su un’estensione di 492 mq, una galleria d’arte, 372 mq dedicati a spazi commerciali creativi.
Fulcro del progetto diviene parte di un edificio di cui resta solo una parete di fondo, lo stato di degrado è tale che è andata perduta la copertura, motivo per cui esso diviene luogo ideale per l’ingresso e per le attività di maggior portata.
Una delle particolarità è la facciata a sud caratterizzata da 1500 bucature che permettono di osservare dall’esterno le attività svolte, nelle ore notturne creano invece giochi di luce sulla facciata stessa.
È l’ultimo progetto dello studio Wutopia Lab ed ha interessato aie e fienili in rovina dello Dongtanyuan, sede del gruppo alimentare Bright Food cinese.
L’intervento di ristrutturazione è stato piuttosto complesso ed esteso comprendendo circa 1500 mq ed il solo capannone principale è lungo 220 m. Il nome Golden Barnyard: Cockaigne of Everyman raccogli gli intenti dei progettisti di definire un luogo di eterno svago.
L’ispirazione progettuale ha come filo conduttore uno sgargiante color giallo che rimanda al colore del grano ed al raccolto come nel dipinto "Un paese di Juaja" di Brueghel. Ad interrompere la distesa di cemento color oro vi sono linee di un rosso scuro che definiscono percorsi ed ancora una volta lasciano pensare alle distese di campi. Laddove il terreno si increspa crea un effetto simile a quello dei cumuli di grano e sospendono la distesa pianeggiante. Uno dei progettisti, Ting Yu, ha infatti dichiarato:
“Ciò che associamo all'aia è uno stile di vita da fattoria e certe fantasie elementari del tempo. In ogni caso, il concetto di aia è semplice e concreto, così ho deciso di usare il colore dorato per simboleggiare il raccolto che non finisce mai. Volevo che il Cockaigne fosse un luogo di eterno svago, di cibo superbo e di edifici abitabili”.
L’innovazione progettuale che sfiora la land art non dimentica di prendere in considerazione l’architettura locale, in particolare quella delle antiche costruzioni dell’isola di Chongming, per il magazzino esistente invece è stata pensata una facciata in cemento. Il fienile ha mantenuto la sua struttura interna a due piani assecondando però le necessità della Bright Food di esporre prodotti agricoli, nasce così la Bright Milk House, che si caratterizza per i pannelli di policarbonato bianco che la ricoprono.
L’architetto Ting Yu aggiunge che: “Diversi elementi dell'edificio, come diversi ricordi, sono sparsi in questo campo di cereali, e ogni volta che si entra in uno di essi, sembra di innescare una storia di altri tempi che aspetta soltanto di essere scoperta”.