Ad opera di Daniel Arsham, presso il cortile del Palazzo Senato a Milano è stato installato un portale, installazione che prende il nome di Divided Layers.
L’insieme risulta assolutamente suggestivo e ha attirato molti esperti del settore e curiosi al palazzo in Via Senato 10. L’artista nella settimana del Design ha promosso il brand Kohler attraverso quella che potremmo chiamare arte esperienziale, un’opera immersive che consente di essere attraversata in una sorta di catartico processo artistico percettivo ed interiore.
L’occasione è anche il lancio da parte del brand del lavello progettato dallo stesso artista e che prende il nome di Rock.01. Si tratta di un lavello interamente stampato in 3D e frutto della collaborazione già dal 2021 dell’artista newyorkese e dell’azienda leader nel design e nell’innovazione. Una tecnologia quella della stampa 3d della porcellana vitrea all’avanguardia che asseconda le esigenze di design dell’artista, dedito a forme complesse. Il riferimento al nuovo prodotto viene esplicitato dall’installazione, Divided Layers prende il nome proprio dalla sovrapposizione di piani di argilla o layers per la stampa 3d. Come afferma l’artista:
"Il flusso dell'acqua viene sperimentato sia nello spazio negativo che in quello positivo, indipendentemente dalla 'funzione' di una forma, in Divided Layers, i visitatori sperimentano di essere all'interno del lavandino, è come se il fruitore diventasse un pezzo funzionale dell'oggetto di design."
Uno specchio d’acqua con al centro un passaggio introduce al tunnel costituito da sette pannelli posti in successione, i sette pannelli riportano l’ingombro del volume del prodotto al negativo, quindi una inversione della matericità. Nella parte interna prosegue lo specchio d’acqua che funge anche da moltiplicatore degli spazi.
Uno degli obiettivi dell’artista era proprio quello di concedere ai visitatori un nuovo punto di vista dello spazio ed allo stesso tempo trasmettere una sorta di smaterializzazione dello stesso.
L’inserimento poi all’interno del palazzo storico rende il tutto ancora più efficace, un contrasto di successo, che vede inoltre riproporre il ritmo delle colonne delle balconate nella successione dei sette pannelli.
Un sistema museale in via di sviluppo che amplia il suo spazio espositivo rinnovandosi quale imprescindibile polo attrattivo per i visitatori. Il progetto Casa-Museo, nato per esporre la Collezione Carlon, si apre al pubblico dopo un anno e mezzo trascorso dalla sua prima inaugurazione.
Il Palazzo barocco, posto sul lato nord-occidentale, funge da quinta scenografica e fulcro per lo sviluppo allungato degli edifici che affacciano sulla Piazza delle Erbe di Verona. La stessa facciata del Palazzo Maffei, quelle delle corti interne e la scala elicoidale di connessione verso il piano nobile sono state interessate da un restauro, così come sono stati effettuati interventi non invasivi di consolidamento delle parti strutturali ed un adeguamento impiantisco, una volta acquisito l’edificio da parte della famiglia Carlon.
L’allestimento museologico e museografico del Palazzo ha previsto una rimodulazione degli spazi interni al fine di rendere il percorso strutturato più fluido e senza barriere architettoniche. L’ordinamento è stato progettato dalla direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli, la progettazione complessiva è stata curata invece dallo studio Baldessari e Baldessari già intervenuto sugli Archivi del 900 di Rovereto.
L’innovazione del sistema illuminotecnico e del controllo climatico ben si sposa con l’antico, in una mescolanza ben riuscita fra l’eclettica collezione di Luigi Carlon e gli apparati decorativi del palazzo. Le opere esposte sono in totale 350 tra cui dipinti, sculture, disegni e oggetti d’arte applicata (mobili d’epoca, vetri antichi, ceramiche rinascimentali e maioliche sei-settecentesche, argenti, avori, manufatti lignei, pezzi d’arte orientale, rari volumi).
Al primo piano il percorso è in sequenza cronologica e il visitatore viene accolto da un’installazione in neon blu. Al secondo piano sono esposte opere legate dal Futurismo e alla Metafisica che riconducono agli interessi del collezionista. Ultima tappa la project room per l’arte contemporanea per le nuove generazione, al momento è esposto il “tecnofiore” dell’architetto e designer Daan Roosegaarde.
Il corpus esposto sarà mutevole, come racconta lo stesso Luigi Carlon:
“Varierà nel tempo: molte opere ad esempio non sono state esposte per problemi legati agli spazi. Palazzo Maffei ospiterà circa 350 opere, ma la collezione ne conta almeno altre 100. Ci sarà una rotazione. Poi abbiamo intenzione di fare mostre, anche monografiche. Abbiamo riservato delle stanze per il settore dell’education, inoltre abbiamo una biblioteca molto fornita, che ho costruito io nel tempo fino ad arrivare a 500 volumi. Stiamo affrontando in modo non passivo l’operazione. Vorrei che Palazzo Maffei diventasse qualcosa che vive per la città per i giovani.”
La palafitta sulla Sprea a Berlino, progettata per l’artista tedesco Anselm Reyle dalla moglie Tanja Linke è immersa all’interno di un parco singolare che prende il posto del cantiere navale della polizia idrica della RDT degli anni Settanta, ormai dismesso.
Passerelle in cemento armato, armature di sponde e rimesse per barche entrano in simbiosi con la vegetazione e il fiume. All’interno della casa e dell’Atelier tra le opere dell’artista stesso sono collezionati pezzi di design di altri artisti.
La casa è quindi il cuore del giardino, la visuale sulla Sprea si apre tramite un giardino abbandonato preesistente, l’affaccio sull’acqua invece è reso con il sollevamento dell’edificio, rendendolo di fatto una palafitta i cui pilastri sono stati realizzati con una cassaforma in legno grezzo. Il nucleo centrale, così come il cornicione del parapetto superiore, è in calcestruzzo leggero che si mimetizza con l’ambiente circostante attraverso l’impiego di una cassaforma industriale a pannelli di calcestruzzo a vista. Il blocco abitativo vero e proprio si contrappone al piccolo nucleo centrale privo di aperture con finestrature che si snodano lungo tutto il perimetro dell’edificio. All’interno la casa non prevede mura divisorie, ma pannelli in vetro, riprendendo lo stesso elemento dalla rimessa delle barche esistente, o nel caso della zona giorno l’arredo diventa elemento di separazione realizzati dallo stesso Reyle.
Non si tratta solo della volontà dell’architetto di operare in senso conservativo secondo la ben nota estetica della rovina quale traccia della memoria, si tratta di un progetto nato e sviluppatosi nel corso di dieci anni, anni che hanno visto una trasformazione dell’area più che materiale concettuale. Come racconta la progettista:
“Quando l’abbiamo trovata, l’area era in stato di abbandono molto avanzato, soprattutto l’edificio principale da cui è stato poi ricavato il Ruinengarten: era il capannone dove venivano riparate le barche, costrutio negli anni Settanta, e occupava proprio il centro del lotto. Noi non avevamo bisogno di molto spazio e non abbiamo contemplato l’opzione di ricostruirlo. Allo stesso tempo non volevamo cancellarlo, piuttosto trasformarlo”.
Non tutti gli edifici esistenti sono stati demoliti, la scelta è stata operata in maniera critica seguita da prove, realizzazione di modelli e simulazioni. Successivamente, dopo gli interventi a carattere strutturale, si è passati a quelli paesaggistici. La piantumazione di piante resistenti e che non richiedevano troppa manutenzione è stata una operazione pianificata ed elaborata nel tempo, come afferma la Lynke:
“Abbiamo piantato subito molti alberi, fiori, piante, ma ci siamo resi conto che avevamo piantato troppo, commettendo l’errore tipico di chi non ha troppa esperienza con i giardini. Solo in un secondo momento abbiamo scoperto la natura apparentemente “spontanea” dei progetti di Piet Oudolf e visto il suo intervento sulla High Line a New York. Abbiamo allora rifatto il giardino nel 2014, e abbiamo scelto di piantare alberi e piante che si possono trovare di solito in queste aree industriali abbandonate: era importante per noi non scegliere fiori per la loro bellezza, ma qualcosa che potesse realmente accordarsi al contesto di rovina”.
Il progetto nel suo complesso risulta essere perfettamente equilibrato, la pianificazione e l’essenza più selvaggia dell’area si amalgamano traendo ispirazione dal giardino spontaneo e pittorico e da quello romantico. Sostanzialmente l’edificio stesso si trasforma in giardino dando origine alla rovina:
“Per noi il riferimento è stato ai giardini inglesi, che costruiscono davvero le rovine come elementi artistico-architettonici nel paesaggio, le folies: in un sito industriale l’effetto è come se fosse un paesaggio residuale, ma in realtà è del tutto progettato”.
L’erba cresce attraverso le feritoie e fessure del cemento degradato e il tutto non sembrerebbe ad un occhio inesperto frutto di una progettazione, la bivalenza tra controllo e spontaneità si riversa dal giardino verso gli edifici, rendendo difficile una distinzione tra quello che c’era e quello che è stato realizzato.
ll “Mago della Luce” Giancarlo Fassina si è spento all’età di 84 anni. L’architetto e designer se n’è andato lo scorso venerdì 29 marzo, l’annuncio è stato dato dall’Adi, l’Associazione per il disegno industriale.
"Mago della luce", come era affettuosamente chiamato da molti suo colleghi designer, da oltre mezzo secolo, era specializzato nella progettazione di apparecchi per illuminazione. Ha collaborato con le più importanti aziende del settore: la luce era il suo mestiere, in ogni sua forma ed espressione.
Il suo nome è legato a una delle icone del design italiano, la lampada Tolomeo di Artemide, progettata con Michele De Lucchi e premiata con il Compasso d’Oro nel 1989. Simbolo di quel design italiano capace di essere reinterpretato nel corso del tempo con nuove tecnologie. Tolomeo nacque dal desiderio di reinterpretare la lampada da lavoro, che fino a quel momento era stata la Naska Loris degli Anni ’30. Michele De Lucchi progettò i meccanismi e le molle con un sistema ispirato ai trabucchi dei pescatori, che hanno una corda guida per manovrare la rete; aggiungendo un elemento che permetteva di spostare la lampada con una mano, magari per puntarla dove la matita dell’architetto sta disegnando. Altro dettaglio inconfondibile era il foro nella parte superiore del paralume, per dissipare calore, ma anche per una soffusa luce indiretta. Un successo immediato, un sistema poi declinato in vari colori e funzioni, non più solo lavoro, ma un’icona del made in Italy : dai 37 cm di altezza per la Micro ai 3 metri per quella da terra, il "sistema Tolomeo" include anche la versione a morsetto, quella da soffitto e anche quella outdoor.
Nato a Milano nel 1935, Fassina si diploma all'Istituto superiore di ingegneria di Friburgo e si laurea in architettura al Politecnico della stessa città. Inizia la carriera come responsabile della progettazione in un'azienda produttrice di motori endotermici e relative applicazioni industriali. Alla soglia dei 30 anni entra in Artemide, azienda milanese specializzata nella produzione di accessori per l'illuminazione (fondata da Ernesto Gismondi e Sergio Mazza nel 1959) con il compito di strutturare il settore tecnico-progettuale e il reparto di modellistica e prototipazione dei nuovi prodotti. E proprio durante questa fase lavorativa che Fassina partecipa attivamente alla definizione di tutti i prodotti Artemide. A stretto contatto con i migliori designer del tempo, segue la creazione di alcuni dei grandi successi del marchio, dal sistema Aggregato, progettato con Enzo Mari, a Dinarco, con Carlo Forcolini. A lui si devono anche importanti progetti di illuminazione di mostre: dalla diciassettesima Triennale di Milano, Il Progetto Domestico, alla quale lavorò con Mario Bellini nel 1986, alla mostra su Francesco Hayez a Palazzo Reale in anni più recenti, l’illuminazione del Teatro Fossati, sempre nel capoluogo lombardo, studiata con Marco Zanuso nel 1985. A partire dal 2001 collabora con altre aziende di primo piano (Luceplan, Nemo, Caimi Brevetti e altre ancora) per le quali progetta lampade e sistemi di illuminazione.