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COSA SUCCEDE AI CREDITI SOCIETARI IN CASO DI CANCELLAZIONE DELLA SOCIETA’ DAL REGISTRO DELLE IMPRESE?

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Con la sentenza n. 9464 del 22 maggio 2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata ancora una volta in merito alla sorte dei crediti della società a seguito della cancellazione della stessa dal registro delle imprese. Nel caso in esame, la società veniva cancellata dal registro delle imprese in pendenza di un giudizio che la stessa aveva intrapreso. La questione approdava in Cassazione, la quale stabiliva il principio secondo cui l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non comporta al tempo stesso l'estinzione della pretesa azionata, salvo che il creditore abbia manifestato, anche mediante un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito, comunicandola al debitore, e a patto che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare. Più precisamente, secondo gli Ermellini “sarebbe, dunque, errato presumere sempre iuris et de iure, in presenza di una cancellazione richiesta dal liquidatore della società ed operata in corso di causa, una rinuncia della stessa al diritto azionato", dal momento che la stessa potrebbe essere il frutto di una scelta “di convenienza” della società allo scopo di evitare ulteriori costi, senza che ciò possa costituire, di per sé solo, anche rinuncia al credito. In virtù di detto principio, veniva quindi confermata la sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto spettanti agli ex soci di una società di capitali, cancellatasi dal Registro delle Imprese ed estintasi nel corso del giudizio, le somme indebitamente percepite da una Banca per effetto di clausole del contratto di apertura del conto corrente nulle, concernenti gli interessi anatocistici trimestrali, la capitalizzazione annuale, la commissione di massimo scoperto, ed ulteriori spese, per la cui restituzione la società aveva convenuto la Banca in giudizio. L’art. 2495 cod. civ., disciplinando la sorte dei soli debiti della società estinta rimasti insoddisfatti, stabilisce che per essi opera la successione in capo ai soci, anche se nei limiti di quanto ognuno di essi ha riscosso in sede di bilancio finale di liquidazione, e che di essi è responsabile anche il liquidatore, nella misura in cui il mancato pagamento dei debiti prima della cancellazione è dipeso da colpa del liquidatore stesso. Dunque, all’estinzione della società, che deriva dalla cancellazione, consegue il trasferimento dei rapporti passivi in capo ai soci, quali “successori” nella titolarità delle obbligazioni già facenti capo alla società, verso i quali i creditori insoddisfatti possono agire per far valere i loro crediti. Il legislatore ha invece mostrato disinteresse per la sorte dei rapporti attivi, i quali non vengono presi in considerazione dalla disposizione in questione, il che ha spinto la giurisprudenza a colmare questo vuoto di disciplina con numerose pronunce concernenti l’estinzione per cancellazione della società, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto il profilo processuale. Alla luce dei principi della Corte di Cassazione, è andato consolidandosi l’orientamento in base al quale la cancellazione della società dal registro delle imprese viene interpretata quale espressione di rinuncia tacita, non soltanto alle mere pretese, ma pure ai crediti litigiosi o illiquidi, con conseguente non operatività del trasferimento per successione in capo ai soci ed estinzione dei crediti stessi.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


La cessione d'azienda occulta

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Sempre più spesso ci capita di ricevere clienti portatori di ingenti crediti nei confronti di attività imprenditoriali le quali, al momento del tentativo di riscossione, risultano improvvisamente dileguate nel nulla oltrechè, ovviamente, in stato di liquidazione, se non già definitivamente cancellate dalle Camere di Commercio di competenza. Nella maggior parte dei casi, vuoi per la particolare scaltrezza dell’imprenditore fedifrago, vuoi per il fatto che l’impresa (purtroppo, e succede spesso) ha effettivamente chiuso i battenti per non essere più in grado di adempiere alle proprie obbligazioni, il credito va considerato come elargito in beneficienza ovvero, nella migliore delle ipotesi, “messo a perdita” ai sensi della vigente normativa fiscale. Non sempre, però, tutto è perduto. Può capitare infatti, ed anzi, capita frequentemente, che l’imprenditore-debitore ritenga di poter sfruttare la limitazione di responsabilità giuridica della propria organizzazione societaria, abbandonandola, affogata di debiti, al proprio destino, per poi risorgere, come fenice dalla cenere, sotto altro nome (sempre societario) ma svolgendo, impunemente, praticamente e senza soluzione di continuità, la stessa attività della prima, senza neanche subire il disposto dell’art.2560, II° co., c.c., così fastidiosamente incidente sul trasferimento dei debiti da azienda cedente ad azienda ceduta. La cospicua frequenza, come detto, di dette operazioni, e la conseguente ripetitività di azioni giudiziarie volte all’accertamento della sottostante operazione disonesta, hanno portato alla creazione della figura giurisprudenziale della “cessione d’azienda occulta”, secondo la quale, qui in estrema sintesi, laddove si riscontri, secondo i criteri che vedremo, una sostanziale identità, ovvero, un fattuale trasferimento d’azienda tra una società ed un'altra, la seconda potrà essere ritenuta giudizialmente responsabile dei debiti della prima. Analizzando infatti i numerosi casi concreti verificatisi, ci si accorge della sussistenza in tutti della stessa, ricorrente ed inequivocabile circostanza che il “secondo” (medesimo) imprenditore, vuoi per questioni affettive, vuoi, verosimilmente, per necessità di gestione dell’attività commerciale, non riesce mai a staccarsi completamente dalla prima azienda, se non facendo una blanda operazione di camouflage e dunque, esaminando le visure camerali delle due società riscontreremo: le stesse partecipazioni societarie, se seppure per quote diverse, e con aggiunta di nuovi soggetti; un identico oggetto sociale; una molto simile denominazione sociale; sede principale, o secondarie, immutate / scambiate .. etc.. Esaustivamente dirimente, sul punto, una sentenza del Tribunale di Treviso del 30 novembre 2018 n. 2395, tuttora immutata ed incontrastata, la quale, con ampia ed esauriente motivazione, ha rigettato l’opposizione ad un decreto ingiuntivo concesso in favore di un creditore di fatto subentrato nell’esercizio dell’azienda gestita da una -dissimulata- cedente, qui sostenendo la tesi della cessione occulta d’azienda e stabilendo che detta cessione occulta può essere provata dal creditore tramite presunzioni semplici, seppure gravi, precise e concordanti, chiaramente identificando e classificando le più rilevanti, quali, ad esempio:

  • l’identità della ditta;
  • l’identità della sede;
  • l’esercizio di attività sostanzialmente similare;
  • l’utilizzo di medesimi/simili recapiti e di domìni internet, tutti facilmente riconducibili alla “cedente”.

Insomma, così come nei più classici dei romanzi gialli, l’assassino torna sempre sulla scena del delitto, così l’imprenditore/debitore-cedente/ceduto torna, anzi non va mai via, dalla propria comfort-zone d’impresa. Ed è proprio lì che, se si vuole tentare di recuperare un credito ritenuto perso, bisogna andare a cercare.