Per comunione de residuo si intende quella comunione residuale e differita che viene a formarsi fra i coniugi nel momento in cui si scioglie il regime patrimoniale legale, purché i beni che vi rientrano non siano stati consumati prima di detto momento.
Costituiscono oggetto della comunione de residuo:
• beni mobili o diritti di credito verso terzi;
• stipendi e redditi professionali;
• utili netti ricavati dall'esercizio di un'impresa;
• canoni di locazione di beni personali;
• quote di società di persone;
• quote di società a responsabilità limitata ove l'acquisto sia connesso ad una effettiva partecipazione alla vita sociale;
• risparmi liquidi su conti correnti bancari e libretti di risparmio;
• dividendi derivati da partecipazioni sociali.
Contrariamente, non rientrano nella comunione de residuo i beni che vengono considerati “strettamente personali” (lettere c) e d) art. 179 c.c.), vale a dire:
• i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
• i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, eccetto quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la comunione de residuo ha natura obbligatoria: nel momento in cui si scioglie la comunione legale, il coniuge acquista un diritto di credito concernente la metà dei beni assoggettati alla comunione differita.
L’art. 191 c.c. elenca le cause dello scioglimento della comunione legale fra i coniugi, e, dunque, anche degli effetti della comunione de residuo. Esse sono:
• dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi;
• annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;
• separazione personale;
• separazione giudiziale dei beni;
• mutamento convenzionale del regime patrimoniale;
• fallimento di uno dei coniugi.
Per quanto concerne il momento di apertura della comunione differita, occorre precisare che in caso di separazione giudiziale, la comunione de residuo ha inizio dall’emissione dell’ordinanza con la quale il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.
In caso di separazione consensuale, la comunione differita si apre il giorno dell’omologa del processo verbale di separazione, tuttavia i suoi effetti retroagiscono quando viene sottoscritto il verbale.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 13450/2021, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema relativo al diritto del coniuge, non convivente in costanza di matrimonio, a percepire comunque l’assegno di mantenimento una volta intervenuta la separazione.
La vicenda traeva origine dalla sentenza di separazione pronunciata dal giudice di prime cure con cui il Tribunale riconosceva a favore della moglie un assegno mensile per il contributo al mantenimento della stessa. Detta sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’Appello.
A questo punto, il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale il marito lamentava il fatto che il giudice di merito non aveva tenuto in considerazione che i coniugi, durante i quattordici anni di matrimonio, oltre a provvedere ciascuno autonomamente al proprio sostentamento, vivevano in due città diverse.
Gli Ermellini, in virtù del principio secondo cui la mancata convivenza dei coniugi non fa venir meno i diritti e i doveri patrimoniali che scaturiscono dal matrimonio, ritenevano il suddetto motivo inammissibile.
Difatti, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le modalità di svolgimento della vita coniugale, sebbene quest’ultima si sia realizzata con la residenza in due luoghi diversi, non incidono sul vincolo matrimoniale, ciò comportando dunque la permanenza dei doveri di assistenza familiare in sede di separazione.
Inoltre, nella vicenda in esame, l'assegno di separazione era stato specificatamente calcolato allo scopo di soddisfare i bisogni primari a seguito di mutamenti lavorativi incorsi dopo la separazione.
Infine, il Tribunale Supremo affermava la legittimità del diritto all'assegno di mantenimento anche in caso di non convivenza dei coniugi nel corso del matrimonio nelle ipotesi in cui tale decisione derivi da scelte di vita condivise dai coniugi.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
L'addebito è previsto dal legislatore nell'art. 151 c.c. rubricato come "Separazione giudiziale", secondo cui "La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio". La separazione deriva dell'intollerabilità della convivenza, che può essere determinata da tanti motivi, alcuni indipendenti dai coniugi, quali malattie psichiche, altri, sebbene imputabili agli stessi coniugi, non dipendenti da loro scelte consapevoli o errate, (si pensi all'incompatibilità caratteriale) o, altri ancora, da violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, (ad esempio, l’obbligo di fedeltà). Occorre precisare che non basta che si verifichi uno di questi presupposti per ottenere automaticamente l'addebitamento. La decisione spetta, infatti, al giudice, il quale, in primis, deve verificare la sussistenza o meno della violazione di uno dei doveri imposti dalla legge in ambito matrimoniale e, in un secondo momento, valutare se la crisi coniugale è stata causata esclusivamente da questo comportamento contrario ai doveri del matrimonio di uno dei due coniugi. In altre parole, deve esserci un nesso di causalità tra la violazione dei doveri coniugali e il determinarsi dell'intollerabilità a proseguire la convivenza tra i coniugi. Sul punto la Cassazione ha stabilito che “nel giudizio di separazione personale dei coniugi, la richiesta di declaratoria d’addebitabilità della separazione stessa, avanzata ai sensi dell’art. 151 comma II c.c. dalla parte attrice con l’atto introduttivo o dalla parte convenuta in via riconvenzionale, ha natura di domanda autonoma, pure se logicamente subordinata alla pronuncia di separazione, in quanto non sollecita mere modalità o varianti dell’accertamento già devoluto al giudice con la domanda di separazione, ma amplia il tema dell’indagine su fatti ulteriori ed indipendenti da quelli giustificativi del regime di separazione, ed inoltre tende ad una statuizione aggiuntiva, priva di riflessi sulla pronuncia di separazione e dotata di propri effetti di natura patrimoniale, e che, pertanto, in carenza di ragioni o norme derogative dell’art. 277 comma II cpc, il giudice del merito può limitare la decisione alla domanda di separazione, se ciò risponda ad un apprezzabile interesse della parte e se non sussista per la domanda stessa la necessità di un ulteriore istruzione" (Cass. Civ., Sez. Un., 03/12/2001, sent. n. 15248). La domanda di addebito può essere proposta in via diretta con la domanda di separazione o in via riconvenzionale dal coniuge convenuto e, in quanto domanda processuale, è sottoposta a tutte le decadenze e preclusioni previste dal codice di procedura, inoltre, deve essere motivata ed, infine, è soggetta ad appello ove non impugnata, passa in giudicato. L'addebito può anche essere la base di un autonoma domanda di risarcimento dei danni, resta solo da chiedersi se il risarcimento dei danni può essere chiesto durante il procedimento di separazione o deve essere oggetto di un autonomo giudizio. La separazione è addebitabile al coniuge che abbia posto in essere un comportamento lesivo dei doveri matrimoniali, qualora venga provata la sussistenza di un nesso di causalità tra tale comportamento e la rottura del rapporto matrimoniale, caratterizzato da una vita serena ed agiata, fino al verificarsi di tale episodio (Cass. Civ., 29 gennaio 2014, sent. n. 1893). La dichiarazione di addebito comporta, quindi, l'imputabilità al coniuge, trasgressore ai doveri matrimoniali, di aver posto in essere volontariamente e consapevolmente un comportamento contrario a tali doveri, determinando la crisi del rapporto coniugale. Principio generale, applicabile a tutte le cause di addebito della separazione, è quello secondo cui il comportamento che ha dato vita all'intollerabilità della convivenza (o alla fine del matrimonio) e su cui si basa la dichiarazione di addebito, deve essere la causa principale della separazione e non deve essere intervenuto dopo che la convivenza era già divenuta impossibile. A conferma di ciò, è intervenuta la Suprema Corte, secondo cui la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, essendo invece necessario accertare se tale violazione non sia intervenuta quando già si era maturata e in conseguenza di una situazione d'intollerabilità della convivenza (Cass. Civ., 23 maggio 2008, sent. n. 13431). Per fare un esempio, se due coniugi vivono separati di fatto da anni e dopo la loro separazione di fatto cominciano a frequentare altre persone, in tal caso è ovvio che “l’infedeltà” segue la crisi matrimoniale e non è causa della stessa, al contrario, è diametralmente diversa la situazione in cui l’infedeltà di uno dei due coniugi scatena (cioè è causa) della crisi matrimoniale. Le conseguenze dell’addebito sono di natura patrimoniale. Subire l’addebito comporta la condanna alle spese legali del giudizio, la perdita del diritto all’assegno di mantenimento e la perdita dei diritti successori verso il coniuge al quale non sia addebitata la separazione. La pronuncia di addebito produrrà, dunque, effetti diversi e di diverso peso e gravità a seconda delle condizioni economiche del coniuge destinatario di essa. Così, se l’addebito venga pronunciato a carico della moglie priva di occupazione o titolare di un reddito modesto, la quale dunque avrebbe diritto ad un assegno di mantenimento da parte del marito, le conseguenze saranno per lei pesanti: ella, infatti, perderà il diritto all’assegno. Al contrario, la perdita del diritto al mantenimento sarà irrilevante se l’addebito sia rivolto ad un marito facoltoso, il quale mai e poi mai avrebbe diritto ad un mantenimento.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'