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L'USURA BANCARIA E LE DIFFERENZE CON L'ANATOCISMO

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Il reato di usura trova la sua disciplina agli articoli 644 e 644 bis del codice penale. Si tratta di una prassi illegale attraverso cui un privato o un ente pubblico, com’è appunto un istituto di credito, concede crediti ad interessi superiori alle soglie stabilite per legge (tasso di soglia). Il tasso soglia, ovvero il limite massimo entro cui un contratto bancario può ritenersi conforme alla normativa anti-usura, viene individuato attraverso rilevazione trimestrale con decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano dei cambi. A partire dalla formulazione della norma penale, sono state elaborate diverse formule per la verifica dell’usura. Tuttavia, si fa riferimento alle istruzioni elaborate dalla Banca d’Italia, che la giurisprudenza chiama “norme tecniche autorizzate” (Trib. Milano sentenza del 03.06.2014 e 21.10.2014). Esse rispondono ad un’elementare esigenza logica e metodologica di avere a disposizione dati omogenei, facilmente raffrontabili. Nonostante siano fondamentali nella determinazione dell’usura contrattuale, le istruzioni di Banca d’Italia non hanno valore di legge e, dunque, non possono essere considerate prevalenti rispetto a quanto disposto dalla norma penale. Addirittura, alcune pronunce giurisprudenziali hanno statuito la possibilità di disapplicare le istruzioni di Banca d’Italia. Del resto, in più occasioni, la Corte di Cassazione ha ribadito la centralità sistematica in materia di usura della disciplina prevista dal Codice Penale (Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 5160 del 06.03.2018). L'applicazione di interessi usurari da parte della banca da luogo alla conversione del mutuo stipulato in mutuo gratuito, in accordo con l'art. 1815 c.c. che prevede la restituzione del solo capitale: se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. E', dunque, possibile, in caso di usura, avere sia un rimborso degli interessi già pagati che l'azzeramento di quelli ancora da pagare nel caso che il mutuo non sia concluso. Nel 2011, il Decreto "Sviluppo" (D.L. 70/2011) detto anche "Decreto Salva Banche", innalzava la soglia del tasso di usura cambiando il metodo di calcolo. Il metodo precedente consisteva nel considerare "usura penale" un tasso effettivo (TAEG) maggiore di almeno una volta e mezzo il tasso soglia d'usura. Dal 12 Maggio 2011, data in cui è andato in vigore il decreto convertito in legge, la regola è cambiata, considerando il tasso effettivo maggiorato del 25% su cui si aggiungono 4 punti percentuali. La sentenza della Cassazione Penale n. 46669 del 19/12/2011 mette a fuoco alcuni principi di particolare importanza: 1) La non retroattività della norma contenuta nel "decreto sviluppo", per cui nel calcolo dell'usura bisogna considerare il primo metodo fino a Maggio del 2011 e il secondo metodo per il periodo successivo. 2) L'inclusione di tutte le spese, incluse le commissioni di massimo scoperto (CMS), per formare il tasso effettivo, "indipendentemente dalle istruzioni o direttive della Banca d'Italia" che in alcune circolari aveva affermato che era lecito fare il contrario, non considerando questa voce di spesa per determinare se c'è o non c'è usura. 3) I vertici delle banche, avendo l'onere di vigilare sulla corretta applicazione delle norme sul credito, sono responsabili dell'applicazione di tassi usurari. 4) Ribadisce il diritto al risarcimento del danno per il cliente della banca. L’usura bancaria viene spesso confusa con l’anatocismo. Con il termine anatocismo si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi. Dunque, non è altro che il calcolo degli interessi sugli interessi. Nella prassi bancaria, questi interessi vengono definiti “composti”. Un esempio di anatocismo è quello di capitalizzare, cioè sommare al capitale di debito residuo gli interessi ad ogni scadenza di pagamento, anche se sono regolarmente pagati. Il calcolo degli interessi anatocistici è visto come un reato dall’art. 1283 Codice Civile. È evidente che mediante il calcolo di interessi composti il creditore massimizza il proprio guadagno senza sborsare ulteriore capitale. Nel caso in cui gli interessi divengono esorbitanti, la restituzione può diventare impossibile. Infatti, si giunge al paradosso per cui il capitale originariamente prestato viene interamente restituito, ma a causa dell’anatocismo l’esposizione debitoria permane e aumenta esponenzialmente trimestre dopo trimestre, come nel caso del conto corrente con affidamento. Anatocismo e usura differiscono per il modo in cui sono imposti al soggetto passivo. Nel primo caso sono il frutto di un calcolo matematico, dove l’illegittimità può essere determinata dalla cadenza del ricalcolo, ad esempio prima della scadenza semestrale degli interessi originari. Nel secondo caso l’interesse maggiorato è applicato fin da subito, si sfrutta la necessità e il bisogno del soggetto, per richiedere somme superiori al credito originario.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


CONDOMINIO: LA RIPARTIZIONE DELLE SPESE RELATIVE ALLA MANUTENZIONE DEI BALCONI AGGETTANTI

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Fra le tante disposizioni e interpretazioni relative alla materia condominiale, vi è anche quella concernente le spese di manutenzione dei balconi di un edificio. Nel tempo, la giurisprudenza ha riconosciuto una molteplicità di funzioni al balcone, non identificandolo più solamente come un prolungamento dell’appartamento, ma pure come elemento architettonico di rilievo per la facciata condominiale. Tale approccio, ha comportato una ridistribuzione degli oneri e delle spese in caso di manutenzione. In questa sede ci occuperemo precisamente della ripartizione delle spese in caso di manutenzione dei cosiddetti balconi aggettanti, vale a i balconi che sporgono rispetto alla facciata dello stabile. Secondo la Corte di Cassazione (ordinanza del 25 ottobre n. 27083), i balconi aggettanti, costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole. Al fine della imputazione al Condominio del costo del recupero non occorre che l’edificio mostri particolari pregevolezze artistiche o architettoniche, essendo sufficiente che il rivestimento esterno al balcone contribuisca alla gradevolezza estetica dell’intero manufatto. Nel caso in cui venga assoggettato a lavori, al fine di procedere alla determinazione delle responsabilità e delle spese, il balcone è stato scomposto nei suoi vari elementi: 1) la pavimentazione e la soletta del balcone potranno essere oggetto di intervento soltanto previa autorizzazione da parte del singolo proprietario; le relative spese, di conseguenza, spetteranno al singolo condomino; 2) ogni altra parte del balcone (ad esempio, frontalini, parapetti, ringhiere, ecc.) va analizzata sotto diversi profili: (a) se trattasi del rifacimento integrale o anche parziale della struttura del singolo elemento, la relativa spesa ricade sul singolo condomino; (b) se si procede al rifacimento del solo rivestimento (ad esempio, il rivestimento dei parapetti o delle ringhiere) e tale rivestimento risulta privo di finalità decorative, la relativa spesa ricade sul singolo condomino; (c) se si procede al rifacimento del solo rivestimento di un elemento che esercita una prevalente funzione estetica, in tal caso, trattandosi di bene comune, il relativo costo ricade su tutti in funzione dei millesimi generali; 3) la valutazione sulla prevalenza o meno della funzione estetica del bene è rimessa al giudice di merito e non può essere sindacata in sede di legittimità. La sentenza della Corte di Cassazione, sezione II Civile, n. 15913 del 17 Luglio 2007, ha chiarito che l’art. 1125 del Codice Civile non possa trovare applicazione nel caso dei balconi “aggettanti”, i quali sporgendo dalla facciata dell’edificio, costituiscono solo un prolungamento dell’appartamento dal quale protendono; e, non svolgendo alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura dell’edificio (come, viceversa, accade per le terrazze a livello incassate nel corpo dell’edificio), non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani; ma rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono. Quanto, infine, al noleggio e montaggio dei ponteggi necessari per eseguire le opere di ristrutturazione dei balconi, sulla questione la giurisprudenza non individua un criterio preciso, dovendosi presumere che essendo i ponteggi funzionali all’esecuzione di tutti i lavori, il loro costo di noleggio e montaggio grava su tutti i condomini. Tuttavia, nel caso in cui le spese per i vari lavori vengono ripartite secondo criteri diversi, la spesa relativa al ponteggio dovrebbe essere divisa per il totale del costo delle opere edilizie, ottenendo così un coefficiente che, moltiplicato per l’importo di ciascun gruppo di spese corrispondente ad un diverso criterio di ripartizione (per esempio, gruppo spese per ristrutturazione esterna delle parti comuni), indicherà l’importo da aggiungere a ciascun gruppo di spese relative al solo ponteggio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


IL DANNO BIOLOGICO

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Il danno biologico è un danno di natura non patrimoniale che sussiste nella circostanza in cui un soggetto sia leso nella propria integrità fisica o psichica. È tale non soltanto quando sia di carattere permanente, ma pure nel caso in cui abbia la peculiarità di essere reversibile. Il danno biologico trova la sua principale fonte normativa nell’articolo 32 della Costituzione, che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. La natura lesiva nei confronti di un diritto costituzionalmente garantito (quello alla salute e all'integrità fisica), rende il danno biologico risarcibile ai sensi dell'art. 2059 del codice civile in seguito alla sentenza della Corte di Cassazione 12 dicembre 2003, e non invece dall'art. 2043 che riguarda esclusivamente i danni patrimoniali. Tale tipologia di danno è stata elaborata nel tempo dalla giurisprudenza. Inizialmente, prevedendo l'ordinamento positivo un risarcimento del danno cosiddetto patrimoniale, il solo danno risarcibile ammesso era il cosiddetto danno emergente (inteso esclusivamente dal punto di vista economico) ed il lucro cessante (inteso come perdita di possibilità di guadagno). Soltanto in seguito si è cominciato a valutare il danno come riverberato sull'integrità fisica del soggetto, prescindendo, dunque, da ogni valutazione sulla capacità lavorativa del soggetto. Il danno biologico riguarda la persona in senso stretto e, proprio per questa ragione, non prende in considerazione neppure l’eventuale perdita di produttività lavorativa del soggetto in questione (ad esempio i giorni di lavoro persi, nel corso della convalescenza). Questo danno deve essere necessariamente liquidato in via equitativa, dal momento che non può rivestire una consistenza economica o reddituale. Del resto, non si può certo ritenere che la liquidazione sia completamente soddisfacente. La salute è come tale il bene primario, e la giurisprudenza è consapevole del fatto che non possa essere compensata con una misura patrimoniale. Nonostante questo, è ovvio che si debba comunque procedere al ristoro del danno non patrimoniale, da convertirsi in termini pecuniari attraverso una valutazione equitativa che sia quanto più possibile uniforme da caso a caso, al fine di evitare delle ingiustizie. Il calcolo del danno biologico avviene sulla base di due diversi parametri: 1) L’invalidità temporanea, vale a dire tutti quei giorni che vanno dall’incidente al completo ristabilimento del danneggiato oppure il momento in cui si deduca che qualunque cura o terapia non migliorerebbe la situazione. Tutto questo deve essere comprovato da un medico; 2) L’invalidità permanente, che si ha quando le conseguenze del sinistro non sono eliminabili con cure o terapie. Per il danno biologico nascente da sinistro stradale e inferiore ai 9 punti percentuale di invalidità permanente esistono le apposite tabelle dettate dal legislatore. Ciò vale anche per gli infortuni sul lavoro. In tutti gli altri casi, bisogna fare riferimento ad altri tipi di tabelle. A tal proposito va ricordata un’importante pronuncia della Corte di Cassazione, secondo cui “La liquidazione del danno biologico può essere effettuata dal giudice, con ricorso al metodo equitativo, anche attraverso l'applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, quali le cosiddette "tabelle" (elaborate da alcuni uffici giudiziari), ancorché non rientrino nelle nozioni di fatto di comune esperienza, né risultano recepite in norme di diritto, come tali appartenenti alla scienza ufficiale del giudice." (sent. n. 11039 del 12/05/2006). Attualmente il sistema tabellare più utilizzato nelle Corti d'Appello italiane è quello del Tribunale di Milano. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22969 del 2020 è intervenuta su un procedimento di malpratica medica chiarendo che, in presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli uffici giudiziari, può subire un aumento esclusivamente in presenza di conseguenze dannose totalmente anomale e peculiari. Dunque, le conseguenze della menomazione che non sono generali e inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state sofferte solamente dal singolo danneggiato, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico. Nel caso in cui la menomazione accertata incida in modo rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, l’ammontare del danno può essere aumentato dal giudice sino al 30% con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. L’aumento personalizzato del danno biologico viene circoscritto agli aspetti dinamico-relazionali della vita del soggetto in relazione alle prove prodotte, indipendentemente dalla considerazione e dalla risarcibilità del danno morale, evitando in tal modo una duplicazione risarcitoria. Dunque, se le tabelle del danno biologico indicano un indice standard di liquidazione, l’eventuale aumento percentuale sarà funzione della specificità del caso concreto in base al pregiudizio arrecato alla vita di relazione del soggetto.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER ECCESSIVA ONEROSITA' SOPRAVVENUTA: ALCUNI SPUNTI

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Per eccessiva onerosità sopravvenuta si intende quella situazione che, secondo l'ordinamento, fa sorgere il diritto a chiedere la risoluzione del contratto. Si verifica quando, a causa di eventi straordinari ed imprevedibili, si produce una grave alterazione dell'equilibrio fra il valore della prestazione e quello della controprestazione, equilibrio che al momento della conclusione del contratto sussisteva.

Per meglio capire l'ipotesi dell'art. 1467 c. c. è possibile ricorrere ad un semplice esempio. Poniamo che una parte si sia obbligata a fornire all'altra periodicamente un certo numero di componenti per computer ad un prezzo stabilito; un disastroso terremoto nella zona di produzione, ad esempio Taiwan, fa salire vertiginosamente i prezzi di questi componenti. È ovvio che se l'altra parte non accetta di pagare il nuovo prezzo, al fornitore non resterà altra strada che chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità.

Non rileva come causa di risoluzione l' alea normale, vale a dire quel rischio al quale implicitamente ciascuna parte si sottopone. Il secondo comma dell'art. 1467 dispone, infatti, che la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nel normale rischio contrattuale.

L'eccessiva onerosità non ha effetto nemmeno sui contratti che siano aleatori “per loro natura o per volontà delle parti” (art. 1469 c. c.).

Quando invece il contratto comporti l'assunzione di obbligazioni di una sola delle parti, questa non può richiedere la risoluzione del contratto, ma “una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità” (art. 1468 c. c.).

Un problema particolare viene a crearsi nell’ipotesi in cui lo squilibrio delle prestazioni dipenda da colpa di una delle parti. Secondo la dottrina più accreditata, in questo caso l’ipotesi non sarà più disciplinata dall’art. 1467 c. c., bensì dall’art. 1453 c. c., con la conseguenza che la scelta tra risoluzione e prosecuzione del contratto non potrà essere chiesta dalla parte che ha interesse a riequilibrare il sinallagma contrattuale, ma eventualmente soltanto da quella non in colpa.

In caso di squilibrio nel sinallagma contrattuale la giurisprudenza ha stabilito che " nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche, il giudice di merito è tenuto a formulare un giudizio di comparazione in merito al comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai loro rispettivi interessi, ed all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle deviazione maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte, e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale (tenuto conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della incidenza di queste sulla funzione economico sociale del contratto)" (Cass. 16637/2013).

Lo squilibrio delle prestazioni deve dipendere da un evento straordinario (ossia un evento che statisticamente è poco frequente, con carattere di eccezionalità) e imprevedibile (cioè deve essere tale che i contraenti non lo avessero messo in conto, in base alle loro conoscenze ed esperienze).

Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazione (e, quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere dell’imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza. L’accertamento del giudice di merito circa la sussistenza dei caratteri evidenziati è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi (T.A.R. Bari, sez. II, 13/05/2010, n.1865).

Quanto all’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione nei contratti a titolo gratuito, essa “consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, mentre nei contratti onerosi (nel caso, permuta) consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni, sicché l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, in presenza di squilibrio tra le prestazioni dovuto ad eventi straordinari ed imprevedibili, non rientranti nell’ambito della normale alea contrattuale, ai sensi dell’art. 1467 c.c. determina la risoluzione del contratto” (Cass. Civ., sez. III, 25/05/2007, n.12235).

Nell’affermare tale principio, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità dell’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, quale conseguenza del venir meno della presupposizione, ritenendo non ricorrere nel caso neppure un’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione legittimante la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 c.c., atteso il difetto dei necessari requisiti della straordinarietà e dell’imprevedibilità dell’evento.

Infine, la richiesta di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto con prestazioni corrispettive “costituisce, anche quando proviene dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, una vera e propria domanda, e non una eccezione, essendo diretta al conseguimento di una pronuncia che va oltre il semplice rigetto della domanda principale, né, tantomeno, una mera difesa” (Cass. Civ., sez. II, 07/11/2017, n. 26363).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


COMMENTO SULLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE N.15340/2024

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Alcune riflessioni su quanto affermato dalle Sezioni Unite

L'ordinanza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 15340 del 29/05/2024, su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Salerno, a nostro avviso, contiene punti di criticità. In detta ordinanza sono stati trattati due temi relativi ai contratti di mutuo a tasso fisso: - quello della determinatezza/determinabilità dell'oggetto; - quello della "trasparenza". Di straforo è stato toccato il tema dell'anatocismo.

I

Circa il tema della determinatezza/determinabilità dell'oggetto così viene inquadrata la questione: "L'indagine sulla determinatezza dell'oggetto del contratto attiene alla costruzione strutturale dell'operazione negoziale, cioè è volta a verificare che essa abbia confini ben definiti con riguardo all'an e al quantum degli interessi (non legali) che devono essere pattuiti sulla base di criteri oggettivi e insuscettibili di dare luogo a margini di incertezza, non sulla base di elementi indefiniti o rimessi alla discrezionalità di uno dei contraenti". Tale premessa è sostanzialmente corretta ma non può essere trascurato un dato: in un mutuo con rimborso rateale non contano solo l'an e il quantum ma è rilevante anche il quomodo. Peraltro, il quomodo incide sullo stesso quantum degli interessi, posto che la pluralità dei regimi finanziari di calcolo del piano di rimborso stanno a significare diversità quantitativa degli interessi a seconda che si scelga l'uno o l'altro. Secondo le Sezioni Unite l'esigenza di determinatezza/determinabilità dell'oggetto è soddisfatta con la "chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, della periodicità del rimborso e del tasso di interesse predeterminato". Qui, però, dobbiamo farci preliminarmente una domanda: cosa si intende per "oggetto del contratto"? L'oggetto, in un mutuo con rimborso rateale, non può non comprendere, fisiologicamente, necessariamente anche il criterio matematico di calcolo delle rate di rimborso del prestito. Per "oggetto del contratto" si deve intendere, quindi, il complessivo "regolamento degli interessi", ossia non solo l'indicazione del tasso (insieme all'importo del finanziamento, alla durata del prestito e alla periodicità del rimborso) ma anche il criterio prescelto attraverso il quale il tasso stesso viene applicato nel piano rateale. Il discorso entra ancor più in una zona di criticità allorquando viene richiamata la normativa del T.U.B. Scrive la Cassazione: "La doglianza concernente la mancata esplicitazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema 'composto' di capitalizzazione degli interessi non evidenzia un problema di determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto, previsto dall'art.117, comma 4, T.u.b. ('I contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati'), che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un 'prezzo' o costo aggiuntivo del prestito e all'applicazione del tasso sostitutivo". Il punto è che quell'elemento "tipizzante" del contratto (anzi, a maggior ragione se è "tipizzante"), intendendosi per esso il criterio prescelto di calcolo del piano di rimborso, entra a pieno titolo e con i crismi della necessarietà nella determinazione del regolamento degli interessi in quanto senza la sua esplicitazione resta del tutto indeterminato e indeterminabile l'oggetto circa le modalità con le quali viene fissato, all'interno del piano, il rapporto tempo per tempo (rata per rata) tra interessi e capitale. Per arrivare a tale conclusione non ci sarebbe neppure bisogno dell'art.117, comma 4, del T.U.B. ma è certo che il Testo Unico, nel prevedere quell' "elemento tipizzante", non fa altro che definire con più chiarezza, ove ce ne fosse bisogno, il contenuto indefettibile del contratto, quindi il suo oggetto minimo, fisiologico. Non c'entra nulla, poi, affermare, come leggiamo, che "l'indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto non va compiuta con riferimento alla convenienza del contratto e delle sue clausole ...". Infatti, nessuno dice questo. Il problema è del tutto oggettivo (non soggettivo) ed oggi sembra che passi per "determinato" un contratto che tale, oggettivamente, non può mai essere in assenza di quell'elemento.

II

Il secondo tema affrontato è quello della "trasparenza". Anche su questa nozione occorre essere più chiari e, se possibile, più profondi. Per "trasparenza" non può essere intesa semplicemente la forma di pubblicità di un prodotto. La "trasparenza" nei contratti bancari esige che l'intera dinamica precontrattuale e contrattuale ne sia concretamente permeata, in modo tale che il cliente sia nella condizione di prestare liberamente e consapevolmente il suo consenso su un oggetto chiaro e determinato. Scrive la Suprema Corte nel capitolo 16: "Come puntualmente osservato dalla Procura Generale, la differenza tra i due piani di ammortamento non dipende dal fatto che il tasso di interesse effettivo nel caso di ammortamento 'alla francese' sia complessivamente maggiore di quello nominale, quanto piuttosto dall'essere tale effetto riconducibile alla scelta concordata del tempo e del modo del rimborso del capitale". Ma il punto è proprio questo: cosa significa "concordare" una scelta? In tal senso la preventiva "informazione" costituisce una precondizione necessaria ma non sufficiente per definire un negozio concordato. Insomma, il consenso deve essere effettivo e risultare in modo "trasparente" dal contratto su tutti i punti qualificanti, compreso quello di cui stiamo discutendo. Sempre nel capitolo 16 le Sezioni Unite scrivono: "... l'art.117 T.u.b. non richiedeva e non richiede tuttora (a fortiori a pena di nullità) l'esplicitazione del regime di ammortamento nel contratto e analogamente, a livello sistematico, non la richiede la normativa più recente". Il commento sull'art.117, 4° comma, del T.u.b. si ferma qui e pare, francamente, troppo poco. Se è vero, infatti, che tale norma non cita espressamente il "regime di ammortamento", è pur vero che essa menziona una categoria astratta e più ampia che lo contiene" : "... il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati". Il criterio della capitalizzazione composta o della capitalizzazione semplice costituiscono "condizioni" attraverso le quali si declina il tasso di interesse e, in definitiva, si calcolano gli interessi da pagare. Vengono, poi, citate normative recenti per affermare che nessuna di esse prevederebbe l'obbligo di indicare il regime dell'ammortamento. Fra queste l'art.125 bis, comma 6, del T.u.b. che richiama l'art.121, comma 1, lettera e). Andrebbe considerata, però, anche la norma di cui all'art.125 bis, comma 5, del Tub, che così perentoriamente recita: "Nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse previsioni contrattuali". Ebbene, seguendo tale principio guida non possono essere richieste al consumatore le maggiori somme derivanti dall'utilizzo del criterio di capitalizzazione composta se non vi sia, a monte, una "espressa previsione contrattuale".

Concetto fondamentale espresso nella sentenza in commento è che le esigenze di trasparenza sarebbero soddisfatte dalla "chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, del tasso di interesse nominale (TAN) ed effettivo (TAEG), della periodicità (numero e composizione) delle rate di rimborso con la loro ripartizione per quote di capitale e interessi". Ciò che conta, in sostanza, è che sia soddisfatta "la possibilità per il mutuatario di conoscere agevolmente l'importo totale del rimborso mediante una semplice sommatoria" Questo e questo solo interessa al mutuatario, il quale non può avere alcuna pretesa giuridicamente tutelata di conoscere in che modo si formano i dati di quella "sommatoria" e, quindi, di decidere se prestare il suo consenso sui criteri adottandi. Qui la criticità appare importante e il ragionamento, che passa attraverso quello che sembra un salto (perché mai il mutuatario si dovrebbe “accontentare” dei meri dati quantitativi?), rischia di entrare in collisione proprio con il valore guida della trasparenza. Aggiunge la Suprema Corte: "... il contratto 'trasparente' è quello che lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto (cfr. Cass. n.28884/2023), consentendo al consumatore di avere piena contezza delle condizioni della futura esecuzione del contratto sottoscritto, al momento della sua conclusione, e di essere in possesso di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, cit., p.63 e 67); tale è quello di cui si discute, avendo l'istituto di credito assolto agli obblighi informativi a suo carico tramite il piano di ammortamento allegato al contratto, in base al quale al cliente è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato". Insomma, potrebbe sembrare che la trasparenza implichi solo che il mutuatario possa “comprare” un prodotto preconfezionato, non anche che possa esigere la sua partecipazione attivanel processo formativo del contratto così che ogni suo elemento costitutivo sia espressione di una negoziazione, di una scelta, quale quella se gli interessi nel piano di ammortamento debbano essere calcolati sul capitale residuo o sul capitale in scadenza. Qui, invero, rischia di entrare in crisi la struttura stessa del contratto, che è l'"accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale". Si potrebbe, allora, toccare la nullità ai sensi degli artt.1418, 2° comma-1325 n.1 c.c., ossia l'assenza di "accordo fra le parti", elemento principe, basilare del contratto. Tornando al "piano di ammortamento, esso consente al mutuatario di ricavare i dati quantitativi degli interessi da pagare ma non di comprendere il criterio di calcolo adottato. Sembrerebbe che ciò che conti, ai fini della trasparenza, sia che venga fornita al cliente una informativa precontrattuale contenente il "riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi, anziché mediante ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più ". Si può osservare che se l'esplicitazione della formula matematica (della capitalizzazione composta o semplice) non è comprensibile ai più, ancor meno, evidentemente, tale comprensibilità può aversi leggendo puramente e semplicemente il piano di ammortamento. Non si comprende, invece, quali problemi ci sarebbero a produrre una "formula lessicale" chiara e comprensibile, tipo: "si conviene che il calcolo delle rate nel piano di ammortamento avverrà con il criterio detto 'della capitalizzazione composta', ossia calcolando gli interessi di ogni singola rata sull'intero capitale residuo nel periodo corrispondente alla rata stessa". Il cliente sarebbe consapevole di tale "condizione" (art.117, 4° comma, T.U.B.) e potrebbe, quindi, decidere se prestare o meno il consenso.

III

La sentenza delle Sezioni Unite ha toccato anche il tema dell'anatocismo. Facendo ogni dovuta riserva al singolo caso, ha comunque affermato che il piano di ammortamento alla francese "standardizzato" non comporta anatocismo perché nella formazione delle rate non c'è mai applicazione di interessi su interessi. Il discorso, però, si ferma a ciò che appare e non ci si pone il problema che l'anatocismo possa annidarsi come costo occulto, il che avviene proprio quando il mutuatario non abbia prestato il consenso sul sistema della capitalizzazione composta. In questo caso la frazione del capitale che, applicando il criterio della capitalizzazione semplice (interessi sul capitale esigibile, cioè in scadenza), sarebbe stata detratta dal capitale residuo, resta lì a generare interessi. Quella frazione, cioè, sta dove non dovrebbe stare, ossia sul conto del capitale residuo e se ciò è vero, essa costituisce interesse sul quale si calcolano altri interessi.

IV

C'è un altro punto da esaminare. A proposito del tema della "trasparenza", le Sezioni Unite ritengono idoneo a soddisfarla il piano di ammortamento presentato dalla banca al cliente, in quanto questi riceve(rebbe) tutte le informazioni di cui ha bisogno. In tal modo, si spiega, "è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato" In quell'avverbio - "eventualmente" - c'è tanto da capire. Sarebbe interessante, infatti, sapere in quanti casi, in quale percentuale, prendendo la mole dei mutui stipulati in Italia negli ultimi trent’anni, sia stata applicata la capitalizzazione semplice e non quella composta. Qui il discorso della "trasparenza" si lega inevitabilmente a quello della concorrenza.

V

Le Sezioni Unite hanno dichiaratamente tenuto fuori dalla sentenza i casi nei quali manchi l'allegazione del piano di ammortamento. Quid iuris in tale caso? La risposta non dovrebbe essere troppo complicata, partendo dal dato che secondo la Suprema Corte il piano di ammortamento offre il "riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi" . Il piano di ammortamento soddisfa, secondo la Suprema Corte, l'esigenza della trasparenza tanto che è ritenuto inutile il "ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più". Ora, se viene a mancare il piano di ammortamento, tutto quel discorso non può più autosostenersi e, a quel punto, non dovrebbero esservi dubbi sulla indeterminatezza dell'oggetto del contratto e sulla violazione delle regole sulla trasparenza di cui all'art.117 T.U.B.

VI

Infine, è rimasto fuori dall'ambito del pronunciamento delle Sezioni Unite il tema dei mutui a tasso variabile. Qui la Suprema Corte ha richiamato la sentenza della C.G.U.E. del 13-7-2023, C-265/22, che ha così statuito: "Una clausola che preveda, nell'ambito di un contratto di mutuo ipotecario, una remunerazione di tale mutuo mediante interessi calcolati sulla base di un tasso variabile con riferimento a un indice ufficiale, il requisito di trasparenza deve essere inteso nel senso che impone, in particolare, che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie. Il giudice nazionale deve verificare non solo il contenuto delle informazioni fornite dal mutuante nell'ambito della negoziazione del contratto di mutuo in discussione, ma altresì il fatto che i principali elementi relativi al calcolo dell'indice di riferimento siano facilmente accessibili, grazie alla loro pubblicazione". Peraltro, in tale sentenza la Corte di Giustizia ha espresso anche un principio che tende ad abbattere ogni comportamento di abusività, di mancanza di trasparenza, di pratica occulta, il tutto secondo una portata ampia, come tale non solo, a nostro avviso, relativa ai mutui a tasso variabile ma anche a quelli a tasso fisso: "Una clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile e, nel caso dei contratti di mutuo, gli istituti finanziari debbono fornire ai mutuatari informazioni sufficienti a consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. Il giudice nazionale, nel valutare le circostanze ricorrenti al momento della conclusione del contratto, e deve verificare che sia stato comunicato al consumatore interessato il complesso degli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno e che gli consentono di valutare quest'ultima, segnatamente, per quanto riguarda il costo totale del mutuo. Svolgono un ruolo determinante in siffatta valutazione, da un lato, la questione di accertare se le clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile tale da consentire a un consumatore medio, ossia un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, di valutare un costo del genere e, d'altro lato, la menzione o la mancata menzione nel contratto di credito delle informazioni considerate come essenziali alla luce della natura dei beni o dei servizi che costituiscono l'oggetto del suddetto contratto".