Con la sentenza n. 25843/2020 del 13 novembre 2020 la Suprema Corte di Cassazione si è ancora una volta pronunciata in tema di infortunistica stradale, affermando che hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale i familiari di un soggetto danneggiato dalla condotta illecita altrui.
Nella vicenda in esame, Tizio, Caio e Sempronia, ricorrevano per la cassazione della sentenza pronunciata dai Giudici d'Appello di Roma, con cui, in parziale accoglimento del gravame principale della Assicurazione spa e in rigetto del loro appello incidentale in ordine all’entità dei danni, era stato riconosciuto un concorso del fatto colposo del danneggiato pari al 25% e di conseguenza limitata la condanna pronunciata dal Tribunale di Cassino per il risarcimento dei danni subiti da Tizio, il quale, mentre era alla guida di un motociclo di proprietà del padre Caio, aveva subito un sinistro stradale causato dalla vettura condotta da Mevio e di proprietà di Calpurnio, assicurata dall'appellante principale. A seguito dell’incidente, il ragazzo, era rimasto in coma per vari giorni, aveva fatto una lunga degenza in ospedale e, all'esito di una lunga attività riabilitativa, aveva riportato comunque postumi rilevanti.
La Corte d'Appello capitolina escludeva la prova del danno riflesso per carenza di dimostrazione dello sconvolgimento delle abitudini di vita o di patologie sofferte in conseguenza delle lesioni subite da Tizio, neppure potendo farsi ricorso alle presunzioni per l'entità delle lesioni, e condannava gli appellati e gli appellanti incidentali alle spese del giudizio di secondo grado.
I ricorrenti, tra i vari motivi sollevati, in particolar modo:
• eccepivano il mancato riconoscimento dei danni subiti dai genitori, nonché l'erroneità della conclusione della carenza di dimostrazione di sconvolgimenti delle abitudini di vita per tutto il prolungato periodo di ricovero del giovane presso gli ospedali romani e quello della successiva riabilitazione;
• esponevano l'avvenuta dimostrazione, da parte di Caio, padre del danneggiato, dell’esigenza di impiegare le ferie e di accettare turni più intensi e gravosi per poter assistere il figlio;
• negavano la necessità di una prova di una patologia, per il relativo danno non patrimoniale, potendo essere sufficiente l'effettiva alterazione delle proprie condizioni di vita.
Il Tribunale Supremo, ritenendo la doglianza fondata, precisava che “il familiare di una persona lesa dall'altrui condotta illecita può subire un danno non patrimoniale che deve essere integralmente risarcito nel suo duplice aspetto della sofferenza soggettiva e del conseguito mutamento peggiorativo delle abitudini di vita, purché tali pregiudizi rivestano i caratteri della serietà del danno e della gravità della lesione, potendo di essi darsi prova anche per allegazione di fatti corrispondenti a nozioni di comune esperienza (come l'ordinarietà della sofferenza dei genitori nei non pochi giorni di coma del figlio e nei periodi in cui se ne presentava incerto il recupero, nonché quella dell'assistenza ad un figlio minorenne già convivente, a lungo ricoverato lontano dalla residenza familiare e poi soggetto a non semplice riabilitazione)".
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Il sanitario che non riconosce i sintomi dell’infarto risponde della morte del paziente soltanto se viene dimostrata l’incidenza causale della sua negligenza sull’evento lesivo con un alto grado di credibilità razionale. Ciò è quanto ha affermato la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 35058 del 10 dicembre 2020, la quale si è trovata ancora una volta ad affrontare il tema della responsabilità medica.
La vicenda traeva origine dalla decisione della Corte di Appello di Bologna, con la quale veniva confermata la pronuncia di condanna emessa dal Gup del Tribunale di Modena all'esito di giudizio abbreviato nei confronti di un medico generico, al quale si contestava l'omicidio colposo ai danni di un paziente affetto da patologie cardiache, del quale conosceva la storia clinica, per colpa specifica consistita nell'omessa prescrizione di accertamenti e controlli strumentali e diagnostici a fronte di un dolore interno all'altezza della spalla destra lamentato durante due visite, all'esito delle quali si limitava a prescrivere l'uso di antinfiammatori e antidolorifici. Nella stessa giornata della seconda visita medica, il paziente moriva per infarto del miocardio acuto in coronopatia arterosclerotica di grado severo e di ipertrofia miocardica, complicazioni sopravvenute in conseguenza della mancata e tempestiva diagnosi della patologia cardiaca.
Per i Giudici d’Appello, l’evento era ascrivibile all’imputato, in quanto, in presenza di un dolore toracico, la diagnosi si rivela spesso difficoltosa, per cui una corretta diagnosi va formulata non soltanto sulla base della localizzazione, irradiazione e qualità del dolore, ma anche tenendo in considerazione il “comportamento” del dolore stesso (insorgenza, regressione, durata, frequenza, sintomi associati); la sintomatologia del tipo di quella accusata determinava quanto meno una situazione di particolare attenzione e diligenza in relazione alla storia pregressa, alle sue patologie, al dolore presentato, che non si attenuava con gli antidolorifici e che richiedeva la prescrizione al paziente dell'Ecg d'urgenza, con invio al pronto soccorso per convalidare o meno una diagnosi differenziale ed alternativa di dolore anginoso.
A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale, tra i vari motivi sollevati, il ricorrente lamentava la mancata dimostrazione del nesso causale.
Il Tribunale Supremo accoglieva la doglianza dell’imputato, sostenendo che la motivazione dei Giudici di merito fosse lacunosa, dal momento che gli stessi si erano limitati a definire gravemente colposo il comportamento del sanitario, senza appurare con certezza la sussistenza del nesso di causalità fra il comportamento colposo per omissione addebitato al medico e l'evento morte del paziente. Insomma, non si era accertato che, tenendo la condotta omessa, l’evento sarebbe stato evitato. Il giudice ha infatti il compito di indagare allo scopo di accertare che, se il sanitario avesse compiuto l’azione doverosa, quest’ultima avrebbe scongiurato l’evento o, quantomeno, lo avrebbe ritardato. Occorre esaminare il nesso causale alla luce di un giudizio controfattuale. Il nesso di causalità sussiste quando la condotta doverosa avrebbe inciso in maniera positiva sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Sabato 30 gennaio si è tenuta, come ogni anno, l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso l’Aula Magna della Corte di Cassazione e le 26 Corti d’Appello. Quella di quest’anno è stata un’inaugurazione particolare visto il momento difficile che l’Italia, assieme a gran parte del mondo, sta vivendo a causa della pandemia.
Nel Palazzo di Giustizia di Milano la cerimonia si è svolta senza pubblico, nel rispetto delle norme anti Covid, soltanto quindici le toghe presenti, tra magistrati e giudici. Niente sfilata e niente banda musicale. Il presidente reggente della Corte, Giuseppe Ondei, ha constatato che “gli uffici giudiziari hanno saputo reagire con immediatezza, grazie all'eccezionale senso del dovere e al grande sforzo dimostrato dal personale di magistratura e amministrativo”. Poi ha sottolineato che “il fenomeno pandemico ha fatto emergere problematiche giuridiche sia nel settore civile sia nel settore penale: problematiche con le quali per molto tempo la giurisprudenza dovrà confrontarsi", come il "delicatissimo rapporto tra le libertà fondamentali e inviolabili del cittadino, il potere di ogni cittadino di circolare e soggiornare liberamente; il diritto di riunione; il potere di agire in giudizio; il diritto di svolgere l'attività economica privata e il diritto al lavoro”.
Nel corso della cerimonia tenutasi presso la Corte d’Appello di Roma, il presidente Giuseppe Meliadò si è espresso con le seguenti parole: “Questa cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario si svolge in un contesto che nessuno di noi ha prima conosciuto e che si presumeva potesse travolgerla. E tuttavia questa cerimonia è rimasta ferma, non solo perché prevista dalla legge (ma molte leggi in questi ultimi mesi sono state, in realtà, sospese), ma per il suo valore simbolico, come manifestazione del carattere pubblico e democratico dell'amministrazione della giustizia, secondo le direttive della Costituzione repubblicana. L'annus horribilis della pandemia ha messo in crisi sicurezze consolidate, sconvolto le relazioni umane e sociali, reso precarie le garanzie fondamentali. La pandemia ha operato, per tutte le istituzioni, come una sorta di cartina di tornasole, ne ha messo in luce arretratezze e modernità, capacità di adattamento e assenza di flessibilità, attitudine alla programmazione e appiattimento burocratico, virtù dirigenziali e insipienze nella cultura organizzativa”.
A Palermo, il presidente della Corte d'Appello, Matteo Frasca, ha aperto la sua relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ringraziando il personale sanitario impegnato sul fronte della lotta al Covid-19: “Un ringraziamento particolare intendo rivolgere al presidente dell'Ordine dei Medici di Palermo e al quale voglio rinnovare i sentimenti della più intensa gratitudine per il contributo determinante che, anche in questo distretto, i medici, unitamente agli operatori sanitari, stanno apportando in questo periodo storico, sopportando con abnegazione un enorme carico di lavoro e uno stress emotivo difficilmente sostenibili, pagando prezzi altissimi anche in termini di vite umane”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 25021/2020 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su come e quando eccepire la nullità della testimonianza resa dal soggetto incapace. L’art. 246 c.p.c., infatti, ci insegna che “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”. La nullità in questione non è rilevabile d’ufficio ed è onere della parte contro la quale la prova è diretta eccepirla. La mancata eccezione della nullità comporta la sanatoria. La quaestio nasce dal giudizio relativo alla domanda di accertamento dell’acquisto di un terreno per usucapione. All’esito dell’assunzione delle prove testimoniali, il Tribunale accoglieva la domanda dell’attore ritenendo sussistente il possesso pacifico e continuativo del terreno oggetto di causa per il tempo necessario ad usucapirlo. La sentenza di primo grado veniva riformata dalla Corte di Appello in sede di gravame proposto dal convenuto che, dunque, rigettava l’originaria domanda attorea. La questione, approdava, così in Corte di Cassazione, che, dichiarando inammissibile il ricorso:
• in primo luogo, precisava che l’eccezione della nullità della testimonianza resa da persona incapace (poiché portatrice di un interesse che avrebbe potuto legittimare il suo intervento in giudizio) deve essere formulata a seguito all'espletamento della prova, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., comma 2, ad eccezione che il difensore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio;
• in secondo luogo, stabiliva che la mancata tempestiva eccezione comporta la sanatoria della nullità, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, proposta a norma dell'art. 246 c.p.c., possa considerarsi comprensiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione;
• in terzo luogo, osservava che, nel caso in cui il Giudice rigetti l'eccezione di nullità della testimonianza resa dall'incapace, incombe sulla parte interessata l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione. Contrariamente, l’eccezione si considera rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo;
• in quarto luogo, la Suprema Corte precisava che, qualora l'eccezione di nullità della deposizione del testimone incapace, ritualmente proposta, non sia stata esaminata dal giudice davanti al quale la prova è stata espletata, la stessa deve essere formulata con apposito motivo di gravame avanti il giudice di appello, ovvero, se sollevata dalla parte vittoriosa in primo grado, da questa riproposta successivamente nel giudizio di gravame a norma dell'art. 346 c.p.c.
Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, “qualora la parte, come nel caso in esame, in sede di ricorso per cassazione deduca la violazione dell'articolo 246 c.p.c., l'omessa motivazione del giudice d'appello sull'incapacità di alcuni testimoni, senza tuttavia indicare, anche agli effetti dell'articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di aver sollevato tempestiva eccezione di nullità delle testimonianze comunque rese, e di aver riproposto la stessa eccezione nel prosieguo del giudizio, ed in particolare in appello a norma dell'articolo 346 c.p.c., deve ritenersi comunque sanata l'eventuale nullità derivante dall'incapacità dei testi per l'irritualità della relativa eccezione”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 13411/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sul concetto di insubordinazione, posta in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro e, dunque, al di fuori dei locali aziendali. La quaestio ha origine dal licenziamento disciplinare che una società aveva inflitto ad un proprio dipendente, il quale, da un lato, aveva adottato una condotta di insubordinazione e, dall’altro, la violazione delle regole di correttezza per aver minacciato una collega. Il lavoratore si era opposto al licenziamento lamentando, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in relazione al fatto che non sussisteva un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata. Inoltre, questi sosteneva che non sussisteva neppure un’infrazione disciplinare, dal momento che il diverbio era avvenuto a giornata lavorativa ormai conclusa. Le motivazioni del prestatore, però, non hanno trovato accoglimento in sede di secondo grado di giudizio. I giudici di merito, infatti, avevano sottolineato che il rapporto gerarchico si ha nel caso in cui vi sia una “sovraordinazione”, non solo nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma pure in un contesto più particolare, che, nel caso di specie, era quello proprio del settore amministrativo di cui la collega era responsabile. Oltretutto, la questione che il diverbio fosse avvenuto fuori dell’orario di lavoro non escludeva la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, a maggior ragione se esso aveva avuto ad oggetto obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi aziendali. Anche la Suprema Corte di Cassazione è giunta alla stessa conclusione. Secondo i Giudici di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, in quanto detto termine “implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale”. Nel caso in esame, gli Ermellini hanno osservato che la fattispecie integrava la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.). Pertanto, il licenziamento è comminato al lavoratore che commette gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro. La minaccia verbale era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso e corrispondeva a quella di voler chiedere “conto” della condotta della responsabilità amministrativa fuori dall’azienda. Dunque, la serietà della minaccia, per come intesa dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore. A questi elementi occorre poi aggiungere, come evidenziato nella sentenza, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, attraverso un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità. In virtù dei suddetti presupposti, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'