Accertamento della violazione degli arresti domiciliari di non lieve entità in base alle circostanze del caso concreto
Aggravamento degli arresti domiciliari
Nel caso in esame, il Tribunale del riesame di Milano aveva confermato l’ordinanza della Corte di appello con cui veniva disposto l’aggravamento della misura degli arresti domiciliari nei confronti del destinatario della stessa, con conseguente ripristino della custodia in carcere, posto che il condannato si era reso responsabile della condotta di evasione rispetto agli arresti domiciliari.
In particolare, l’odierno ricorrente era stato sorpreso nella pubblica via, dopo che si era incontrato con altra persona che deteneva sostanze stupefacenti. Dopo essere stato sorpreso dalle forze dell’ordine, il ricorrente si era poi dato alla fuga e, dopo un breve inseguimento, veniva fermato dalle stesse.
Avverso la decisione di aggravamento della misura disposta dal Tribunale, il ricorrente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
Valorizzazione delle circostanze della violazione
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8630/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Tra i motivi di ricorso, il ricorrente ha lamentato mancanza di motivazione e violazione di legge della decisione adotta dalla Corte d’appello (confermata poi dal Tribunale del riesame) nella parte in cui, nel disporre l’aggravamento della misura a carico del ricorrente, il Giudice aveva erroneamente ritenuto che allo stesso fosse stato contestato il reato di cui all’art.73 D.P.R. 309/90, mentre, ha evidenziato il ricorrente, tale fattispecie delittuosa, come emerge dalla narrativa dei fatti, poteva al più ipotizzarsi a carico del soggetto con cui il ricorrente si era incontrato.
La Corte ha dichiarato tale motivo manifestamente infondato, evidenziando che “il Tribunale del riesame ha correttamente dato atto che al ricorrente non è stato contestato il reato di cui all’art. 73, D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ma solo quello di cui all’art. 385 cod. pen., ritenendo che ciò non infici la decisione di disporre l’aggravamento della misura cautelare”.
Sul punto la Corte ha messo in evidenza che l’ordinanza aveva valorizzato un altro aspetto, ovvero il fatto che il ricorrente, non solo aveva violato la misura degli arresti domiciliari, ma era stato anche “sorpreso nell’attendere un soggetto, con il quale si incontrava fugacemente, risultato dedito allo spaccio di stupefacenti, ritenendo tale circostanza ulteriormente dimostrativa dell’insensibilità del ricorrente al rispetto delle prescrizioni insite nella misura cautelare cui era sottoposto”.
In relazione a tale situazione, la Corte, poste le circostanze complessivamente accertate, ha rilevato come il Tribunale avesse correttamente escluso che la violazione potesse considerarsi lieve.
Rispetto alle stesse, non è stata ritenuta attendibile la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui il ricorrente, al momento in cui era stato fermato dalle forze dell’ordine, stava facendo ritorno presso la propria abitazione dopo essersi recato dagli assistenti sociali dai quali era stato autorizzato ad andare.
Tale tesi, spiega la Corte, non è stata accolta dal Tribunale dal momento che l’incontro in questione era avvenuto durante un orario incompatibile con quello in cui veniva constata la presenza del ricorrente al di fuori della propria abitazione. A tale elemento, la Corte ha rilevato come debba sommarsi anche il fatto che il ricorrente si era incontrato con un soggetto dedito allo spaccio di stupefacenti, configurando così una circostanza che contribuisce ad escludere, ai fini dell’aggravamento della misura, la lievità del fatto.
Sulla scorta di quanto sopra la Corte ha dunque rigettato il ricorso e ha affermato, per quanto qui rileva, che in tema di misure cautelari personali, la trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, ove non ritenute di lieve entità, determina la revoca obbligatoria di tale misura ex art. 276, comma 1-ter, cod. proc. pen., seguita dal ripristino della custodia in carcere, non dovendo il giudice previamente valutare l’idoneità degli arresti domiciliari con modalità elettroniche di controllo.
Affettività e intimità in carcere
La Consulta si pronuncia sulla legittimità del controllo a vista sui colloqui con il partner, implicante per il detenuto “un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”
La questione di legittimità costituzionale
La vicenda prende avvio dalla questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia», in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha evidenziato come “il controllo a vista sui colloqui con il partner implichi per il detenuto un vero e proprio divieto di esercitare l’affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità”.
Con particolare riguardo alla salvaguardia dei rapporti del detenuto con il convivente di fatto, il rimettente ha fatto riferimento all’art. 1, comma 38, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che ha parificato i diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario. Inoltre, riferisce il rimettente, ai sensi del “comma 20 dell’art. 1 della stessa legge n. 76 del 2016, i diritti del coniuge in tema di colloqui penitenziari sono estesi anche alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Tutela dell’affettività del detenuto: necessario rimuovere il controllo a vista durante i colloqui
Il Giudice delle leggi ha ritenuto fondate le questioni proposte per le seguenti ragioni.
La Corte Costituzionale ha iniziato il proprio esame ricordando che “L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza”. Rispetto a dette relazioni affettive “Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”.
In ragione di tale presupposto, prosegue la Corte, la “questione dell’affettività intramuraria concerne (…) l’individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona”.
Passando all’esame del quadro normativo di riferimento, l’art. 18, terzo comma, ordin. penit., sottoposto al vaglio di legittimità costituzionale, dispone che i “colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Ne consegue pertanto la correttezza, a giudizio della Corte, dell’assolutezza interpretativa della norma nei termini evidenziati dal Giudice rimettente.
Per quanto invece attiene ai profili d’illegittimità espressi dal rimettente, la Corte ha in particolare rilevato la prescrizione del controllo a vista, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si traduce in una compressione sproporzionata e irragionevole della dignità della persona, violando così l’art. 3 Cost. Tale limitazione potrebbe al più essere giustificata qualora, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, potrebbero essere compromesse la sicurezza o il mantenimento dell’ordine e della disciplina.
La Corte ha concluso il proprio approfondito esame, sopra riportato brevemente, affermando che “in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 ordin. penit., nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui sopra, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”.