La Suprema Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 36989/2021, ha specificato quali sono le voci di spesa rientranti nell’ambito dell'assegno di mantenimento a carico del genitore non affidatario.
Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello, in parziale riforma del decreto pronunciato dal Tribunale, modificava il regime di visita di un genitore, Caio, quanto alla figlia, Tizia, e poneva a carico del primo un assegno di mantenimento della minore di 600,00 euro mensili, incrementando quello stabilito dal giudice di prime cure nella diversa misura di 400,00 euro.
A questo punto, Caio si rivolgeva alla Suprema Corte, dinanzi alla quale deduceva, in particolare, la violazione e la falsa applicazione di legge con riferimento all'art. 337 ter c.c. per avere il giudice di merito aumentato l'assegno di mantenimento della figlia, omettendo di motivare sulla capacità lavorative della madre e sui tempi di permanenza di Tizia presso i genitori.
Il Tribunale Supremo, nel rigettare il ricorso, stabiliva che “In materia di affidamento dei figli minori, il giudice deve attenersi al criterio fondamentale rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore”.
Per i giudici di legittimità, l'obbligo di mantenimento del minore da parte del genitore non collocatario deve far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all'assistenza morale e materiale, all’opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, secondo uno standard di soddisfacimento correlato a quello economico e sociale della famiglia, cosicché si possa valutare il tenore di vita corrispondente a quello goduto in precedenza.
Secondo gli Ermellini, nel caso in esame, la Corte territoriale aveva correttamente motivato sulla debenza dell'assegno di mantenimento, dal momento che aveva tenuto conto non soltanto delle condizioni economiche del padre (gestore di case di riposo e di accoglienza e proprietario di diversi immobili), onerato dell'assegno, ma anche di quelle, deteriori, della madre (licenziata dal lavoro di parrucchiera), nonché delle esigenze della minore di cui si valorizzavano gli aumentati bisogni, sicché il giudizio si collocava pienamente nel solco interpretativo dell'art. 337- ter, quarto comma, c.c.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20866/2021, ha affrontato il tema relativo al riconoscimento dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge separato che non lavora.
Il Tribunale di Roma, nell'ambito di un procedimento di separazione dei coniugi Caio e Sempronia, oltre a non accogliere le reciproche domande di addebito, affidava la figlia minore Tizia ad entrambi i genitori, con residenza prevalente presso la madre e poneva a carico di Caio l'obbligo di corrispondere un assegno mensile di mantenimento di 800,00 euro per la moglie e di 900,00 euro per la figlioletta Tizia.
I giudici di merito riformavano parzialmente la decisione di primo grado, e, tenuto conto della giovane età di Sempronia (35 anni), del suo titolo professionale (ortottista) e del lavoro che la stessa aveva svolto prima della nascita di Tizia, ritenevano che lo stato di disoccupazione della donna non fosse incolpevole, in quanto la stessa non aveva dato prova di essersi attivata in qualche modo per la ricerca di un lavoro, e, conseguentemente, riducevano l'assegno di mantenimento già posto a carico di Caio in 400,00 euro mensili.A questo punto, il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale Sempronia, tra i vari motivi, lamentava:
• che la Corte distrettuale aveva ridotto l'assegno di mantenimento in una misura inidonea a garantire la conservazione non soltanto del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche di un minimo vitale, valorizzando a tale scopo l'attitudine al lavoro della moglie in termini meramente ipotetici e senza riscontrare l'effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita;
• che, al contrario, occorreva acquisire la prova del fatto che la ricorrente aveva rifiutato, senza giustificato motivo, proposte di lavoro concrete, prova che doveva essere fornita dal coniuge onerato della corresponsione dell’assegno piuttosto che dalla parte richiedente.
Il Tribunale Supremo dichiarava infondata la censura; in particolare, stabiliva che “in tema di separazione fra coniugi l'attitudine al proficuo lavoro dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento da parte del giudice, che deve al riguardo tener conto non solo dei redditi in denaro, ma anche di ogni utilità o capacità suscettibile di valutazione economica; con l’avvertenza, però, che l’attitudine al lavoro assume rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale, e non già di mere valutazioni astratte e ipotetiche”.
Per gli Ermellini, la parte che richiede il riconoscimento dell'assegno è tenuta a dimostrare l'esistenza di una condizione personale, patrimoniale e reddituale che giustifichi la richiesta del beneficio e il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, nonché di essersi concretamente attivata e proposta sul mercato del lavoro per reperire un'occupazione lavorativa retribuita consona alle proprie attitudini.
Dalle suddette valutazioni deriva il principio di diritto che segue: “Il riconoscimento dell'assegno di mantenimento per mancanza di adeguati redditi propri previsto dall'art. 156 cod. civ., essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi a ciò che l'istante sia in grado, secondo il canone dell'«ordinaria diligenza», di procurarsi da solo”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 13450/2021, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema relativo al diritto del coniuge, non convivente in costanza di matrimonio, a percepire comunque l’assegno di mantenimento una volta intervenuta la separazione.
La vicenda traeva origine dalla sentenza di separazione pronunciata dal giudice di prime cure con cui il Tribunale riconosceva a favore della moglie un assegno mensile per il contributo al mantenimento della stessa. Detta sentenza veniva confermata anche dalla Corte d’Appello.
A questo punto, il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale il marito lamentava il fatto che il giudice di merito non aveva tenuto in considerazione che i coniugi, durante i quattordici anni di matrimonio, oltre a provvedere ciascuno autonomamente al proprio sostentamento, vivevano in due città diverse.
Gli Ermellini, in virtù del principio secondo cui la mancata convivenza dei coniugi non fa venir meno i diritti e i doveri patrimoniali che scaturiscono dal matrimonio, ritenevano il suddetto motivo inammissibile.
Difatti, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le modalità di svolgimento della vita coniugale, sebbene quest’ultima si sia realizzata con la residenza in due luoghi diversi, non incidono sul vincolo matrimoniale, ciò comportando dunque la permanenza dei doveri di assistenza familiare in sede di separazione.
Inoltre, nella vicenda in esame, l'assegno di separazione era stato specificatamente calcolato allo scopo di soddisfare i bisogni primari a seguito di mutamenti lavorativi incorsi dopo la separazione.
Infine, il Tribunale Supremo affermava la legittimità del diritto all'assegno di mantenimento anche in caso di non convivenza dei coniugi nel corso del matrimonio nelle ipotesi in cui tale decisione derivi da scelte di vita condivise dai coniugi.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 1448/2020, la Corte di Cassazione ha trattato ancora una volta il tema dell’obbligo al mantenimento dei figli da parte dei genitori.
Nella vicenda in esame, la Corte territoriale confermava la sentenza con la quale il giudice di prime cure aveva pronunciato la separazione personale di Tizio e Caia, ponendo a carico di Tizio un assegno di mantenimento in favore di Caia e delle figlie.
A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte per impugnare l’addebito della separazione e l’obbligo al mantenimento della moglie e delle figlie, disposto a suo carico. In particolare, l’uomo asseriva che la maggiore delle figlie era ormai economicamente autosufficiente, dal momento che percepiva 800 euro mensili a titolo di borsa di studio.
Il Tribunale Supremo, rigettando il ricorso, stabiliva che “l’obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma perdura finché il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica”.
In particolare, gli Ermellini sottolineavano che “il raggiungimento di detta indipendenza non è dimostrato dal mero conseguimento di una borsa di studio correlata ad un dottorato di ricerca, sia per la sua temporaneità, sia per la modestia dell’introito in rapporto alle incrementate, presumibili necessità, anche scientifiche, del beneficiario”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Finiti gli studi, i figli hanno il dovere di trovare un’occupazione e rendersi autonomi. Senza coltivare velleità incompatibili con il mutato mercato del lavoro, in quanto l’assegno di mantenimento ha una funzione educativa e non è un’assicurazione. Ciò è quanto recentemente espresso dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 17183 del 14 agosto 2020. Si tratta di un provvedimento, apparentemente volto solamente a porre dei limiti temporali al diritto dei figli maggiorenni ad essere mantenuti dei genitori, ma che prende, in realtà, una posizione del tutto innovativa su diversi aspetti direttamente e indirettamente collegati al mantenimento dei figli di qualsiasi età, ai diritti-doveri dei genitori e all’affidamento condiviso.
L’ordinanza 17183/2020 costituisce una tappa fondamentale nell’interpretazione delle norme sull’affidamento. La quaestio nasce dal ricorso di una madre che contestava una decisione della Corte di Appello, con la quale veniva revocato l’assegno di mantenimento, versato per anni dall’ex marito, al figlio trentenne. Il ragazzo in questione è un insegnante di musica precario, il quale percepisce circa 20mila euro all'anno come supplente. Gli ermellini hanno revocato anche l'assegnazione della casa coniugale.
La ratio è chiara: l’assegno di mantenimento non ha una funzione di assistenzialismo, bensì deve servire per responsabilizzare i ragazzi. Pertanto i figli, terminati gli studi, non possono inseguire per sempre le proprie aspirazioni contando sul sostegno dei genitori. Dunque, nonostante i contratti precari, gli stipendi bassi e i mutui quasi impossibili da ottenere, i figli devono cercare di rendersi indipendenti da questi ultimi.
La Cassazione ha sottolineato che una rivoluzione culturale è necessaria anche nel rapporto genitori-figli. Ciò significa che si deve passare da un’ottica di assistenzialismo, dalla quale trarrebbero vantaggio quelli che vengono denominati in modo dispregiativo “bamboccioni”, a quella di una diffusa autoresponsabilità. In questo caso, secondo i giudici, spettava al trentenne "ridurre le proprie ambizioni adolescenziali" e fare i conti con la realtà. Al di sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la propria formazione, nonché abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi. La Corte, prendendo le distanze dalla prassi, sostiene che le ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere propri genitori un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. E dà risposta anche al diffuso alibi dei maggiorenni: non avere trovato una occupazione adeguata alle ambizioni legittimamente coltivate, visti i propri titoli di studio, prendendo le distanze anche da precedenti di legittimità (ad. es. Cass 1830/2011, che subordina la rinuncia al contributo alla "percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita"). Per la Suprema Corte, la maggiore età si associa alla capacità di adattarsi a svolgere un lavoro che renda autosufficienti. E anche per gli studenti che si laureano in ritardo il tribunale ha richiamato esplicitamente il divieto di "abuso di diritto": occorre laurearsi in tempo, evitando in tal modo di allungare i tempi.
Questo principio era già stato precedentemente chiarito da un’altra pronuncia della Corte di Cassazione, ossia la sentenza numero 3659 del 13 febbraio 2020: un genitore che abbia versato all'ex coniuge l’assegno di mantenimento per i figli, dopo che questi hanno raggiunto la piena autonomia, ha diritto alla restituzione di quel denaro. I genitori insomma posso chiedere un risarcimento, e la legge sarebbe dalla loro parte.
La Corte ha sottolineato che l’erogazione dell’assegno di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne, ma economicamente non autosufficiente, è subordinata alla valutazione da parte del giudice di una serie di circostanze, come, ad esempio, la durata effettiva del percorso di studi intrapreso, la compatibilità dello stesso con le possibilità economiche dei genitori, le occupazioni del soggetto interessato e il tempo mediamente necessario a trovare un lavoro retribuito al termine degli studi. Al fine della valutazione, assume particolare importanza anche l’età del figlio. In particolare, i giudici hanno stabilito che il rigore adottato nella valutazione dovrà essere proporzionale all’età dei beneficiari, in modo da evitare che l’obbligo di versamento venga protratto per troppi anni, scongiurando così fenomeni che la giurisprudenza ha definito di “parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani” (Cass. 6 aprile 1993, n. 4108).
Il recente provvedimento della Cassazione rappresenta una pietra miliare nella storia recente del diritto di famiglia, collocandosi fra le tre più importanti decisioni che disciplinano l’affidamento condiviso, insieme alla sentenza n. 16593 del 2009 - che affermava l’irrilevanza della conflittualità tra i genitori ai fini dell’applicazione dell’istituto - e alla n. 23411 del 2008, che riconosceva la priorità della forma diretta del mantenimento e la residualità dell’assegno.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'