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COSA RISCHIA IL DATORE CHE SFRUTTA LO STATO DI BISOGNO DEL LAVORATORE?

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È legittimo l’arresto in flagranza del datore di lavoro che approfitta dello stato di bisogno dei suoi dipendenti, qualora venga provata tale condizione di difficoltà degli stessi. Ciò è quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 28735 del 23 luglio 2021. Nella vicenda in esame, il Tribunale non convalidava l'arresto in flagranza di reato di dell’imprenditore Tizio in ordine al reato di cui all'art. 603 comma 1 n. 3) comma 3 n. 1) e 3) cod. pen. per avere impiegato alcuni lavoratori approfittando del loro stato di bisogno, attraverso reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dalle previsioni contrattuali e comunque sproporzionate, nonché con violazione di norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, con l'aggravante di averli esposti a pericolo per la loro incolumità. Il giudice riteneva non emergere l’inadeguatezza palese del profilo retributivo ed escludeva che le inosservanze normative di carattere amministrativo, pure ascrivibili al datore di lavoro, potessero ridondare in illecito penale tenuto anche conto che, dal punto di vista amministrativo e formale, l'attività commerciale non risultava neppure avviata. Contro il provvedimento di mancata convalida proponeva ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica assumendo violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla corretta interpretazione ed applicazione della disciplina normativa in esame, evidenziando come la condizione del bisogno di alcuni dipendenti era dimostrata dalla clandestinità, che il trattamento economico risultava palesemente sbilanciato rispetto all'orario di lavoro e che l’irregolarità amministrativa in cui versava l’azienda di Tizio non poteva costituire ragione di esonero dagli obblighi di sicurezza e di prevenzione comunque gravanti sul datore di lavoro, quali la predisposizione di un documento di valutazione dei rischi e la nomina di un responsabile della sicurezza sul lavoro. Depositava memoria difensiva la difesa dell'indagato, il quale rilevava la correttezza del ragionamento del giudice della convalida, valorizzando gli elementi riguardanti la natura e le caratteristiche dei rapporti di lavoro, idonei a contrastare la prospettazione accusatoria. Gli Ermellini stabilivano che l’arresto del datore di lavoro che sfrutti lo stato di bisogno dei lavoratori risulta legittimo qualora ricorrano gravi indizi di colpevolezza. Secondo i giudici di legittimità sono elementi che sottendono lo stato di bisogno dei lavoratori: • la clandestinità; • il riconoscimento di un trattamento economico palesemente sbilanciato rispetto all'orario di lavoro; • l’omissione dei necessari obblighi antinfortunistici. Pertanto, il Tribunale Supremo accoglieva il ricorso del Procuratore Generale e convalidava l’arresto in flagranza di Tizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L'OMICIDIO STRADALE ALLA LUCE DELLA LEGGE N. 41 del 2016 E LE PENE PREVISTE

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Con la legge n. 41 del 2016 l’omicidio stradale è diventato un reato autonomo rispetto all’omicidio colposo, con pene più severe e diverse circostanze aggravanti in caso di guida in stato di ebbrezza per abuso di alcool e droghe. L’omicidio stradale viene trattato diversamente rispetto alle altre tipologie di omicidio e ciò in ragione del gran numero di incidenti mortali che si verificano nel nostro Paese. Alla legge n. 41/2016 si è giunti dopo anni di accese proteste da parte dei familiari delle vittime della strada e tale legge aggiunge al Codice Penale l’articolo 589 bis, che disciplina, appunto, l’omicidio stradale.

La novità principale consiste nella previsione di una pena molto alta, vale a dire da 8 a 12 anni, per chi causa un omicidio al volante “per colpa”, trovandosi in stato di grave ebbrezza (più di 1,5 g di alcol per litro di sangue) o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

La stessa pena si applica anche a chi ha un tasso alcolemico compreso tra 0,8 g/L e 1,5 g/L, nel caso in cui il conducente sia un neo-patentato o eserciti professionalmente l’attività di trasporto di persone o di cose su mezzi pesanti.

Inoltre, è prevista una pena che va da 5 a 10 anni se il tasso alcolico del guidatore è compreso tra 0,8 g/L e 1,5 g/L e l’omicidio è derivato da condotte pericolose, quali eccesso di velocità, guida contromano, passaggio col rosso agli incroci, inversione di marcia su intersezioni, curve e dossi.

La pena è, invece, della reclusione da 2 a 7 anni se l’ebbrezza è lieve, ossia compresa tra 0,5 g/L e 0,8 g/L, oppure perché è inferiore all’1,5 g/L, ma non ricorrono le altre condizioni esposte sopra.

Infine, la pena aumenta fino a un massimo di 18 anni di carcere nel caso di morte di più persone ed è diminuita della metà quando l'omicidio stradale, sebbene causato da condotte imprudenti, non sia conseguenza soltanto dell’azione del colpevole.

La normativa sull’omicidio stradale è oggetto di aspre critiche da parte degli esperti a causa della sua eccessiva rigidità, che pare voglia ostacolare il dovere del giudice di verificare in concreto se ci sia stata colpa, quanto grave quest’ultima sia stata e se tra la colpa e l’evento vi sia un nesso di causa/effetto.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, al principio costituzionale di colpevolezza e anche al testo dell’art. 589 bis che parla in maniera esplicita di “colpa”, per punire il guidatore occorre infatti che sussista un nesso di causa/effetto fra la condotta sanzionata (la guida in stato di ebbrezza) e la morte della vittima.

La sentenza n. 24898 del 2007 della Cassazione penale dice che questo nesso non può darsi per scontato solo per il fatto che il conducente era ubriaco o drogato, se viene dimostrato che l’incidente si sarebbe verificato lo stesso per altri motivi che non si possono imputare soltanto al guidatore.

In concreto non è semplice stabilire il nesso di causalità fra lo stato di alterazione e la morte della vittima. Si pensi, ad esempio, al caso di un conducente che ha assunto droga 48 ore prima dell’incidente: in quell’istante non è più in stato di alterazione e quindi non dovrebbe rispondere di omicidio stradale. Nonostante ciò, con i test che rivelano la presenza di sostanze stupefacenti nel sangue, rischierebbe lo stesso di essere accusato, poiché probabilmente risulterebbe positivo.

Nelle ipotesi di omicidio stradale è previsto l’arresto in flagranza di reato, sebbene solo in determinati casi. In particolare, l’arresto in flagranza è obbligatorio soltanto nell’ipotesi di guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, in tutti gli altri casi, invece, è facoltativo e rimesso alla volontà delle Forze dell’ordine.

La legge n. 41 del 2016 ha introdotto pure l’articolo 590-bis del Codice penale, che disciplina il reato di lesioni stradali: rischia la reclusione da tre mesi a un anno chi provoca alla vittima lesioni gravi (prognosi di almeno 40 giorni) e da uno a tre anni per le lesioni gravissime (che provocano una malattia insanabile). Anche nel caso di lesioni stradali, le pene sono aumentate per chi circola sotto effetto di droghe o alcol o commette alcune violazioni alla disciplina della circolazione stradale particolarmente gravi.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Tutela del minore e mandato d’arresto europeo

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Tutela del minore e mandato d’arresto europeo In tema di mandato d’arresto europeo non può essere rifiutata la consegna allo Stato richiedente, solo perché la persona alla quale lo stesso si riferisce sia madre di prole con lei convivente, di età inferiore ai tre anni

L’autorizzazione alla consegna della madre Nel caso in esame, la Corte d’appello di Messina aveva disposto la consegna di una donna alle competenti autorità giudiziarie della Svezia, in considerazione del M.A.E. emesso dalla Corte distrettuale di Stoccolma nell’ambito di un procedimento penale pendente che vedeva coinvolta la donna per reati tributari commessi in qualità di legale rappresentante di due società con sede in Svezia. La Corte territoriale italiana aveva disposto la consegna della donna non avendo ritenuto fondate le ragioni avanzate dalla difesa in relazione, tra l’altro, alla sua condizione di madre di una bambina di età inferiore ai tre anni. Avverso tale decisione veniva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, evidenziando, tra i diversi motivi d’impugnazione, la ritenuta violazione dell’“art. 1 comma 3 della Decisione quadro 2002/584/GAI, correlato all’art. 48 Carta di Nizza, ed all’art. 2 Cost. in relazione all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ed all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), per effetto della mancata considerazione della condizione di madre di una bambina di due anni”. A tal proposito, la difesa aveva evidenziato che è “onere dell’autorità giudiziaria dello Stato richiesto verificare se l’esecuzione del mandato di arresto europeo possa essere lesivo delle garanzie costituzionali e dei diritti fondamentali garantiti dalle convenzioni sovranazionali”. In ragione di tale onere, spiega la difesa, la Corte aveva errato nel non aver compiuto alcun vaglio circa il danno che sarebbe derivato a carico della figlia della ricorrente dall’esecuzione del mandato, visto il suo radicamento in Italia, nonché le relazioni create con le insegnanti e con i compagni di classe.

Cassazione: l’onore probatorio spetta alla parte La Suprema Corte, con sentenza n. 51798/2023, ha ritenuto il ricorso non fondato. Per quanto in particolare attiene al motivo di ricorso oggetto del presente esame, la Corte ha ritenuto non fondata la ritenuta violazione normativa incentrata sulla qualità della ricorrente quale madre di bambina di due anni, essendo intervenuta l’abrogazione dell’art. 18, lett. p), della legge n. 69/2005. Sul punto, osserva la Corte, l’art. 2 della legge n. 69/2005 non consente l’introduzione di motivi di rifiuto alla consegna diversi ed ulteriori da quelli previsti dalla legge quadro di derivazione europea, così come anche affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 216/2021 che ha messo in rilievo che, l’esigenza di garantire l’uniformità e l’effettività della normativa a livello europeo, non consente alle autorità giudiziarie degli Stati richiesti di rifiutare la consegna al di fuori dei casi espressamente previsti dalla normativa sul M.A.E. In questo senso, prosegue la Suprema Corte “il d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10 ha operato una generalizzata soppressione di tutte le disposizioni interne difformi dalla disciplina europea al fine di adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI relativa al mandato di arresto europeo”. Inoltre, la soppressione del sopracitato art. 18, lett. p), secondo quanto riferisce il Giudice di legittimità “si giustifica sulla base della presunzione che negli Stati UE la tutela delle madri di figli di tenera età è assicurata nei sistemi processuali-penali in modo coerente ai principi di diritto affermati anche dalla convenzione europea”. Quanto detto è anche confermato sul piano normativo, dalla direttiva (UE) 2016/800 che tutela, a livello europeo, il superiore interesse del minore indagato o imputato e che impone agli Stati membri il rispetto delle garanzie procedurali nei loro confronti, conformemente a quanto previsto dalla CDFUE; ne consegue che, se tali garanzie sono previste ed assicurate da tutti gli Stati che hanno firmato la CDFUE, nei confronti dei minori indagati ed imputati, allora le stesse sono tanto più applicate in favore dei figli minorenni della persona di cui è stata richiesta la consegna. Tale presunzione “costituisce il fondamento dell’emissione del mandato di arresto europeo, ed è onere della parte allegare elementi concreti di valutazione che possano suffragarne la violazione da parte dell’ordinamento dello Stato emittente, che non può essere perciò dedotta in modo soltanto ipotetico e astratto”. La Corte conclude quindi il proprio esame sul punto ribadendo che è “onere della parte allegare circostanza concrete che dimostrino che nello Stato richiedente vi siano sistemiche carenze strutturali che non consentono di tutelare i diritti del minore, e solo se tali carenze risultino dimostrate si giustifica il rifiuto della consegna”, questo in quanto “il rifiuto di eseguire la consegna è concepito come una eccezione che deve essere interpretata restrittivamente”