Decesso del venditore dopo stipula del preliminare e partecipazione degli eredi all’atto definitivo

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Con l’ordinanza n. 25396/2023, la Corte di Cassazione ha affermato che in caso di decesso del promittente venditore dopo la stipula del contratto preliminare occorre l’intervento di tutti gli eredi per l’atto definitivo, pena la nullità dello stesso.

IL CASO

Tizio conveniva in giudizio innanzi al Tribunale i suoi fratelli, Caia e Sempronio, per ottenere la declaratoria di nullità della scrittura privata di compravendita con cui il fratello Sempronio aveva venduto alla sorella Caia un immobile, in esecuzione del contratto preliminare stipulato da Mevia, madre dei predetti, quando la stessa era in vita, in favore di Caia. Dopo la morte di Mevia, promittente venditrice, Sempronio aveva dato esecuzione al suddetto preliminare, stipulando il contratto definitivo senza la partecipazione necessaria di esso istante, coerede comproprietario. Altresì, Tizio deduceva che la firma della madre sul contratto preliminare doveva essere considerata apocrifa e che l'atto di compravendita ledeva i propri diritti ereditari; pertanto, domandava all’adito Tribunale dichiararsi la nullità del contratto preliminare e dell’atto pubblico di compravendita. Con sentenza non definitiva, il Tribunale dichiarava la nullità dell'atto di compravendita a causa della mancata partecipazione alla stipula del comproprietario-coerede Tizio, condannando i convenuti al pagamento delle spese di lite e disponeva l’ulteriore corso del giudizio per la domanda di divisione proposta dall’attore. Avverso tale sentenza proponeva appello Caia; Tizio, costituendosi in giudizio, chiedeva il rigetto del gravame. Con sentenza non definitiva, la Corte distrettuale, in accoglimento del primo motivo di appello, escludeva la nullità dell'atto di compravendita affermando la validità del rogito pur se stipulato da uno solo dei soggetti coobbligati, vincolati dalla promessa di vendita manifestata in vita dalla de cuius. Disponeva il prosieguo del giudizio per la procedura conseguente alla istanza di verificazione della sottoscrizione di tale promessa di vendita. Con successiva sentenza, i giudici di merito ritenevano autentica la sottoscrizione di Mevia apposta in calce al contratto preliminare e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettavano la domanda originaria di nullità proposta da Tizio.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte che gli dava ragione. I giudici di piazza Cavour stabilivano che “La promessa di vendita di un bene oggetto di comunione (e considerato dalle parti come un ‘unicum’ inscindibile) ha, come suo contenuto, una obbligazione indivisibile, così che l'adempimento e l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre (art. 2932 cod. civ.) devono essere richiesti nei confronti di tutti i promittenti venditori, configurandosi, nella specie, un'ipotesi di litisconsorzio necessario, attesa l'impossibilità che gli effetti del contratto non concluso si producano nei riguardi di alcuni soltanto dei soggetti del preliminare”. Se è vero che l’obbligazione di trasferire la proprietà di un immobile oggetto di comunione, considerato come unicum inscindibile, con la pattuizione di un solo prezzo, dà luogo all’indivisibilità dell’obbligazione, è altrettanto vero che da detta affermazione non possono derivare le conseguenze che ne ha tratto il giudice di secondo grado, vale a dire l’irrilevanza della mancanza di partecipazione di un coerede all’atto, stante la natura obbligatoria del preliminare e l’estensione al suo adempimento, tramite l’esecuzione dell’obbligo a contrarre, della disciplina delle obbligazioni solidali. La prestazione di trasferire la proprietà di un bene in comproprietà non ha natura solidale, bensì collettiva, “non potendo operare il principio stabilito dall’articolo 1292 c.c., secondo cui ciascuno degli obbligati in solido può adempiere per l’intero e l’adempimento dell’uno libera gli altri, atteso che i promittenti sono in grado di manifestare il consenso relativo alla propria quota e non quello concernente le quote spettanti agli altri”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È illegittimo sospendere il lavoratore non vaccinato

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Il Tribunale di L’Aquila, con la sentenza n. 136/2023, ha stabilito che è illegittima la sospensione inflitta al dipendente che abbia rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid, non essendoci alcuna evidenza scientifica che il vaccino faccia evitare il contagio.

IL CASO

Caio agiva in giudizio per impugnare la sospensione che gli era stata inflitta per mancato rispetto dell’obbligo di vaccinazione anti Sars-CoV-2, essendo il lavoratore un soggetto ultracinquantenne.

LA PRONUNCIA DEL TRIBUNALE DI L’AQUILA

Il Tribunale di L’Aquila dava ragione a Caio. Il giudice abruzzese precisava che “Non vi è alcuna evidenza scientifica che abbia dimostrato che il vaccinato, con i prodotti attualmente in commercio, non si contagi e non contagi a sua volta. Di più, la realtà dei fatti ha dimostrato il contrario. La comune esperienza di tutti (personale, familiare, della cerchia di conoscenti) conferma il dato evidente che, allo stato, chi non si è vaccinato può infettarsi e infettare come può infettarsi e infettare chi ha ricevuto una dose, due dosi etc.. Evidenza scientifica e comune esperienza fanno assurgere tale dato nel contesto attuale - contagiosità dei vaccinati come dei non vaccinati - a fatto notorio ai sensi dell’art. 115, c.p.c. (il che esclude in radice la necessità o l’opportunità di svolgere una ctu in sede processuale)”. Dunque, per il Tribunale di L’Aquila, la sospensione del ricorrente, giustificata dal fatto che non si fosse vaccinato, era completamente priva di fondamento. Inoltre, osservava che un eventuale atto amministrativo che imponga una siffatta discriminazione, sarebbe contra legem e andrebbe disapplicato. In virtù di ciò, il giudice abruzzese accoglieva il ricorso di Caio riconoscendo l’illegittimità della sospensione che gli era stata irrogata per non aver adempiuto all’obbligo vaccinale contro il Coronavirus.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Finanziamento estinto anticipatamente: è nulla la clausola che nega il rimborso dei costi

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Con l’ordinanza n. 25977 del 6 settembre 2023, la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in tema di mutuo bancario, si è ancora una volta espressa a favore del consumatore stabilendo che a quest’ultimo non può essere negato il rimborso dei costi nel caso in cui estingua anticipatamente il finanziamento.

SOMMARIO

1) Il caso 2) La Cassazione si schiera a favore del consumatore

Il caso

Tizio stipulava un contratto di finanziamento con una banca riuscendo ad estinguerlo anticipatamente; poiché gli veniva negata la restituzione dei costi non maturati, agiva in giudizio contro l’istituto di credito. Il Giudice di Pace rigettava la domanda del consumatore e il Tribunale confermava la decisione del primo giudice. In particolare, il Tribunale specificava che l’art. 125 del D.Lgs. 385/93, nel testo vigente al momento della stipulazione del contratto, non poteva essere applicato, in quanto la norma rinviava al CICR le modalità con le quali il consumatore, estinto anticipatamente il mutuo, avesse diritto alla riduzione del costo complessivo del credito. Per il Tribunale, in assenza di una norma attuativa che specificasse le modalità di esercizio del diritto, non era possibile procedere ad alcuna riduzione. L’art. 125 sexies del Testo Unico Bancario, inserito con il D.Lgs. 141/2010, che prevede il diritto del consumatore ad una riduzione del costo totale del credito in caso di estinzione anticipata del finanziamento, non era applicabile, in quanto tale norma era entrata in vigore dopo la conclusione del contratto e dopo il recesso del consumatore. Non era applicabile anche l’art. 33, lettera g) del Codice del Consumo (secondo il quale è presuntivamente vessatoria la clausola che consenta al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto), dal momento che era stato il consumatore a recedere dal contratto e non la banca.

La Cassazione si schiera a favore del consumatore

Tizio, vedendosi negati i suoi diritti, si rivolgeva alla Suprema Corte, la quale gli dava ragione. Secondo la Suprema Corte, una clausola che esclude il diritto del consumatore al rimborso del costo totale del credito in caso di estinzione anticipata del finanziamento è nulla, in quanto determina uno squilibrio nel sinallagma contrattuale in danno del consumatore, permettendo all’ente finanziatore di trattenere somme parametrate all’intera durata del contratto nonostante la prestazione sia stata limitata ad un arco temporale inferiore. La Cassazione sottolineava l’importanza dell’applicazione dei seguenti principi di diritto: • “L’art.125 del TUB, nella formulazione antecedente alle modifiche inserite con il D.Lgs. n. 141 del 2010 prevede che, in caso di estinzione anticipata del finanziamento, il consumatore ha diritto ad un’equa riduzione del costo complessivo del credito, secondo le modalità stabilite dal CICR. In caso di assenza della norma integrativa o di norma integrativa che rinvii all’autonomia contrattuale, il consumatore ha diritto al rimborso di tutti i costi del credito, compresi gli interessi e le altre spese che il consumatore deve pagare per il finanziamento”. • “È nulla la clausola contrattuale che escluda il rimborso dei costi sostenuti, in caso di estinzione anticipata del contratto di finanziamento perchè determina a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ai sensi dell’art. 33 del D.Lgs. 206/2005”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Caduta dell’alunno: la scuola è responsabile?

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La Cassazione, con l’ordinanza n. 15190/2023, ha stabilito che l’istituto scolastico non risponde della frattura della tibia riportata dallo scolaro per una caduta avvenuta a scuola.

IL CASO

La minore Sempronia, rappresentata dalla madre, quale esercente la responsabilità genitoriale, citava a giudizio il Ministero dell’Istruzione e la Scuola Secondaria per la condanna al risarcimento dei danni patiti a seguito dell’incidente avvenuto all’interno dell’istituto scolastico; difatti, Sempronia, tornando dal bagno verso l’aula, cadeva dalle scale fratturandosi la tibia. Il giudice di primo grado rigettava la domanda attorea e i giudici di merito confermavano la decisione del Tribunale; in particolare, la Corte territoriale sottolineava la natura contrattuale della responsabilità della scuola e che detta responsabilità trova fondamento nella violazione dell’obbligo di vigilanza sulla sicurezza e sull’incolumità dell’allievo.

LA CENSURA

Nel frattempo, Sempronia diveniva maggiorenne e si rivolgeva alla Suprema Corte, censurando la sentenza per avere operato una indebita inversione dell’onere della prova, sul presupposto che, avendo lei dimostrato il fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (consistente nella circostanza di essere scivolata sulle scale della scuola di ritorno dal bagno, in orario scolastico, procurandosi la frattura della tibia), l’istituto avrebbe dovuto dimostrare che aveva esattamente adempiuto all’obbligo di sorveglianza e che l’incidente era stato, dunque, provocato da una causa ad essa non imputabile.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Sempronia. Gli Ermellini precisavano che la Corte d’appello, qualificata la responsabilità dell’amministrazione scolastica come responsabilità contrattuale, aveva correttamente individuato la regola di riparto dell’onere della prova, avendo ritenuto che gravasse sull’attrice l’onere di provare la fonte del suo credito e il danno, nonché quello di allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione di vigilanza gravante sulla convenuta, mentre spettasse a quest’ultima la prova, da offrirsi anche in via presuntiva, dell’esatto adempimento di detta obbligazione o della causa imprevedibile e inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione che ne forma oggetto. Movendo da detta corretta ripartizione dell’onere probatorio, i giudici di merito avevano poi ritenuto che quello, gravante sull’amministrazione convenuta, di dimostrare il regolare adempimento dell’obbligo di sorveglianza degli alunni, potesse ritenersi assolto, nel caso concreto, in seguito all’emersione della circostanza che tanto le condizioni oggettive dello stato dei luoghi (non essendo stata evocata l’usura dei gradini o la loro scivolosità, né essendo stata dedotta la contemporanea presenza di più alunni) quanto le condizioni subiettive dell’alunna (dotata di sufficiente grado di sviluppo psico-motorio e di piena autonomia e capacità di deambulazione) ne rendevano inesigibile una sorveglianza continua nel tratto che separava l’aula dai bagni. Pertanto, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Falsa attestazione di presenza in ufficio del pubblico dipendente e truffa aggravata

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Con la sentenza n. 40461 del 7 settembre 2023, la Corte di Cassazione ha sottolineato che commette il reato di truffa aggravata il dipendente pubblico che attesta falsamente la sua presenza in ufficio anche indipendentemente dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la decisione del Tribunale che aveva condannato l'imputato Tizio alle sanzioni ritenute di giustizia, in riferimento ai contestati reati di truffa ai danni dello Stato e false attestazioni indirizzate all'autorità giudiziaria circa le condizioni di adempimento della obbligazione di lavoro svolta in determinati orari. Le sanzioni irrogate in ordine a ciascuno dei reati, non avvinti dalla continuazione, erano state misurate all'esito del riconoscimento delle due circostanze attenuanti riconosciute in regime di prevalenza. Inoltre, in primo grado erano già stati riconosciuti i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario rilasciato a richiesta dei privati. Il giudizio di primo grado aveva accertato la penale responsabilità dell'imputato per avere, con artifizi e raggiri consistiti nel far rilevare elettronicamente orari di entrata e di uscita dal luogo di lavoro differenti da quelli registrati dagli apparecchi di video sorveglianza installati dalla polizia giudiziaria nei locali di ingresso dello stabile, lasciato il posto di lavoro nei giorni e nelle ore analiticamente indicate in imputazione, pur risultando la sua presenza regolarmente registrata dal cartellino marcatempo assegnato, così procurandosi, in danno dell'amministrazione, l'ingiusto profitto della retribuzione (o trattamento giuridico equipollente) indebitamente percepita in relazione a prestazioni orarie non svolte. Concorreva il delitto di cui all'art. 374 bis c.p., dal momento che l'imputato, in allegato alla memoria prodotta al Pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, aveva depositato documenti con contenuto non rispondente al vero, attraverso i quali intendeva dimostrare la legittimità dei riscontrati allontanamenti dal posto di lavoro. Detti documenti erano stati inizialmente prodotti nella competente sede amministrativa al fine di giustificare le medesime assenze.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione della legge penale sostanziale e i vizi esiziali di motivazione relativamente alla ritenuta sussistenza e piena offensività del reato di truffa contestato. Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto del difetto di profitto e di corrispondente danno nelle condotte contestate, tanto in ragione dei crediti orari maturati, quanto per le compensazioni interne già operate, quanto altresì in ragione della funzione vicaria (del dirigente) in concreto rivestita dall'imputato, che non sarebbe, quindi, stato tenuto ad alcuna segnalazione degli orari di entrata ed uscita dal luogo di lavoro.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Suprema Corte dava torto a Tizio. I giudici di legittimità affermavano che “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull'organizzazione dell'ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l'ente al suo dipendente”. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'