PATTO DI NON CONCORRENZA, COMPENSO INIQUO E NULLITÁ: IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

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Con l’ordinanza n. 5540 dell’1 marzo 2021 la Suprema Corte di Cassazione ha trattato il tema relativo al patto di non concorrenza, soffermandosi in particolare sulla sua nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo spettante al prestatore di lavoro. Più nello specifico, il Tribunale Supremo ha stabilito che il patto di non concorrenza è una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta, dal momento che configura un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, in virtù del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilità al lavoratore e quest’ultimo si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto lavorativo, a non svolgere attività concorrenziale con quella del datore. Dal punto di vista degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, le clausole di non concorrenza, da una parte hanno lo scopo di tutelare l'imprenditore da qualsiasi "esportazione presso imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, dall’altra, quello di salvaguardare il prestatore subordinato, affinché queste clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni considerate più convenienti. Secondo gli Ermellini, il patto di non concorrenza, sebbene stipulato contestualmente al contratto di lavoro subordinato, rimane autonomo da questo sotto il profilo prettamente causale, pertanto il corrispettivo con esso stabilito, in quanto diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere solamente i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c. e, dunque, deve essere "determinato o determinabile". Inoltre, “operano su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall'art. 1346 c.c. per ogni contratto, e la nullità per violazione dell'art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo "non è pattuito" ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato”. Salva l’applicazione delle norme di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c., "l'espressa previsione di nullità va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore, alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato".

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


MANSIONI AGGIUNTIVE E GIUSTA RETRIBUZIONE DEL LAVORATORE: IL PUNTO DELLA CASSAZIONE

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Con la sentenza n. 3816 del 15 febbraio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in ambito lavoristico, affrontando il tema delle prestazioni accessorie del pubblico dipendente, nel caso in esame, un infermiere. Secondo il Tribunale Supremo “il lavoratore pubblico ha diritto ad un compenso per prestazioni aggiuntive purché i compiti, espletati in concreto, integrino una mansione ulteriore rispetto a quella che il datore di lavoro può esigere in forza dell'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, tale risultando quella che esuli dal profilo professionale salvo che, in presenza di un inquadramento che comporti una pluralità di compiti nell'ambito del normale orario, il datore di lavoro non abbia esercitato il proprio potere di determinare l'oggetto del contratto assegnando prevalenza all'uno o all'altro compito riconducibile alla qualifica di assunzione”. Dunque, il dipendente che, nel rispetto della professionalità e della qualificazione contrattuale conseguite, nel corso del rapporto di lavoro venga adibito dal datore allo svolgimento di ulteriori prestazioni rispetto a quelle originariamente assegnategli, non può pretendere, in mancanza di disposizioni legislative o contrattuali in tal senso, la corresponsione di un doppio salario, per la duplicità di mansioni conglobate in un'unica. Il parametro di riferimento per la stessa configurabilità in astratto di una mansione aggiuntiva deve essere il sistema di classificazione dettato dalla contrattazione collettiva, giacché la mansione potrà essere considerata ulteriore rispetto a quelle che il datore di lavoro può legittimamente esigere ex art. 52 d.lgs. n. 165/2001 esclusivamente a patto che la stessa esuli dal profilo professionale delineato in via generale dalle parti collettive. Inoltre, secondo i Giudici di legittimità, “perché il prestatore possa pretendere ex art. 36 Cost. il pagamento della prestazione ritenuta aggiuntiva non è sufficiente la mera allegazione dello svolgimento di compiti ulteriori e di un criterio di calcolo per determinare il compenso di tale attività, ma è necessario fornire elementi tali che consentano di verificare la congruità del complessivo trattamento economico ricevuto rispetto al parametro di cui all'art. 36 Cost.”.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L’OBLAZIONE NELLE CONTRAVVENZIONI

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L’istituto dell’oblazione trova la sua disciplina negli artt.162 , 162 bis c.p. ed nell'art. 141 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale. L’art. 162 c.p. regola la cosiddetta oblazione ordinaria; esso stabilisce che “Nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del dibattimento, ovvero prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del procedimento. Il pagamento estingue il reato”. Dunque, l’oblazione non è altro che una particolare causa di estinzione del reato consistente nel pagamento di una somma di denaro e riguardante le sole contravvenzioni. La disposizione suindicata è relativa all’oblazione cosiddetta ordinaria. Si tratta di un diritto dell'imputato a fronte del quale, in base a quanto si apprende dall'articolo 141, comma 4, disp. att. c.p.p., il Giudice, in caso di non accoglimento dell'istanza, pronuncia ordinanza restituendo gli atti al Pubblico Ministero, mentre, in caso contrario, fissa con ordinanza il quantum da versare dandone comunicazione all'interessato. Affinché il reato venga estinto occorre che l'oblazione sia effettivamente pagata. Ciò significa che, se il pagamento non è eseguito e, dunque, l'oblazione non è pagata, non ha luogo alcuna causa di estinzione del reato. L’istanza di oblazione ordinaria può essere effettuata prima dell'apertura del dibattimento oppure prima che si proceda per decreto di condanna. Nel primo caso, il difensore, munito di procura speciale, nelle eccezioni preliminari procede con il deposito della relativa istanza, oppure, laddove sia presente il contravventore, ne richiede l'accoglimento. La seconda ipotesi concerne invece tutti quei procedimenti per i quali il Pubblico Ministero ritiene di dover procedere con una pena pecuniaria anche in sostituzione di una pena detentiva. D’altronde, il secondo comma dell'articolo 141 disp. att. c.p.p., stabilisce che “Il Pubblico Ministero, anche prima di presentare richiesta di decreto penale, può avvisare l'interessato, ove ne ricorrano i presupposti, che ha facoltà di chiedere di essere ammesso all'oblazione e che il pagamento dell'oblazione estingue il reato”. Inoltre “l'istanza di oblazione non può essere subordinata o condizionata all'emissione di provvedimenti accessori, quale quello di restituzione dei beni, ma unicamente alla verifica delle condizioni per una pronuncia più favorevole ex art. 129 cod. proc. pen., sicché una diversa condizione deve ritenersi contra legem e perciò estranea alla domanda e, dunque, non apposta, secondo il principio quod abundat non vitiat” (Cass. n. 35706/2019). La legge 689/1981 ha introdotto l'articolo 162 bis del Codice Penale, rubricato "Oblazione nelle contravvenzioni punite con pene alternative". Trattasi dell'oblazione facoltativa o discrezionale, la quale trova applicazione nell’ipotesi in cui il regime sanzionatorio previsto dal legislatore sia quello dell'ammenda alternativa all'arresto. Tra l’oblazione ordinaria e quella discrezionale vi è una grande differenza: nella prima ipotesi, l'organo giudicante non entra nel merito dell'istanza, ma esercita soltanto un mero controllo formale; nel secondo caso, invece, il giudice compie una valutazione discrezionale.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


È RESPONSABILE DEL REATO DI LESIONI PERSONALI COLPOSE IL PADRONE DEL CANE CHE SCAPPANDO AGGREDISCE UN PASSANTE

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Con la sentenza n. 13464/2020, la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al reato di lesioni personali colpose, stabilendo che risponde di detto reato il detentore di un cane che, fuggendo dalla sfera di controllo del suo padrone, morde un passante. La vicenda traeva origine dalla decisione del Giudice di Pace, con la quale una donna veniva condannata per il reato di cui all’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose). L’imputata, nell’aprire il cancello elettrico di casa, non era riuscita ad impedire al suo cane di grossa taglia di scappare in strada e di mordere un passante. Per il giudice, la donna, non avendo adottato le cautele necessarie alla custodia di un cane di grossa taglia, aveva omesso di impedire che l’animale mordesse un passante, provocandogli una ferita alla gamba. Il caso approdava in Cassazione, davanti alla quale l’imputata lamentava il vizio di violazione di legge in ordine agli artt. 43 e 590 cod. pen., 125, comma 3, 192, commi 1 e 2, 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., nonché il vizio motivazionale. Secondo la donna, il giudice di merito si era limitato ad una mera ricostruzione del fatto senza procedere al doveroso approfondimento sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Asseriva che non erano stati correttamente applicati i principi di diritto in tema di omessa custodia di animali, che impongono l’accertamento della loro effettiva pericolosità. Infine, contestava il fatto che non era stato operato alcun giudizio sul tema della prevedibilità in concreto circa la condotta aggressiva dell’animale. Il Tribunale Supremo, ritenendo il ricorso privo di fondamento, lo rigettava. Più nello specifico, gli Ermellini confermavano consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, al fine di escludere la colpa rappresentata dalla mancata adozione delle debite cautele nella custodia di un animale, “non è sufficiente che esso si trovi in un luogo privato e recintato, ma è necessario che tale luogo abbia caratteristiche idonee ad evitare che l'animale possa sottrarsi alla custodia e al controllo, superare la recinzione, raggiungere la pubblica via ed arrecare danno a terzi” (Cass. Pen., n. 47141/2007; Cass. Pen., n. 14829/2006).

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


BUCHE STRADALI: L’ANAS DEVE RISARCIRE IL MOTOCICLISTA CHE CADE A TERRA

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Con l’ordinanza n. 2830 del 05 febbraio 2021 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di sinistri stradali, stabilendo che, qualora un motociclista subisca un incidente a causa di buche stradali non segnalate e non visibili, l’ente titolare del tratto stradale è tenuto a risarcirgli i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Nel caso in esame, un motociclista conveniva l’Anas innanzi al Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Sansepolcro, domandando la condanna al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per un sinistro subito in data 6 settembre 2003. L’uomo, mentre percorreva la SS E45 a bordo di una motocicletta, a causa di una buca stradale non segnalata, né visibile, perdeva il controllo del mezzo e cadeva a terra, riportando sia danni patrimoniali che danni non patrimoniali. L’Ente titolare del tratto stradale si costituiva per resistere alla domanda. Il Tribunale, ritenendo l’Anas responsabile dell’incidente, condannava l’Ente al pagamento dell’importo di 25.396,15 euro, oltre le spese legali. La Società impugnava la decisione del Giudice di prime cure, ma la Corte distrettuale di Firenze respingeva il gravame, condannando l’appellante alle spese del grado. A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale l’ANAS sollevava cinque motivi, mentre il motociclista resisteva con controricorso. Il Tribunale Supremo, dichiarando inammissibile il ricorso, condannava l’Anas al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente. In particolare, gli Ermellini affermavano che il Giudice d’Appello, oltre alle deposizioni testimoniali, aveva ben valutato le risultanze del verbale redatto dalle forze dell'ordine accorse al momento dell’incidente, dal quale risultava la “presenza dell'avvallamento sulla corsia di marca della moto, in prossimità del quale vi erano segni di scarrocciamento, costituito da una grossa buca terminante con un accumulo d'asfalto”. Per i Giudici di legittimità si trattava di un accertamento in fatto relativo alla condizione del fondo stradale, alla prevedibilità dell'insidia, nonché all'inadempimento dell'onere di vigilanza e manutenzione della strada da parte dell'ente Anas che, pertanto, non poteva essere oggetto di discussione. Dunque, era manifestamente infondata la dedotta violazione dell'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., la quale si ha esclusivamente quando l'anomalia motivazionale si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'