La Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 32399 del 3 novembre 2022, ha chiarito entro quando va sanato il difetto della procura alle liti sollevato in modo tempestivo dalla controparte nell’ambito di un giudizio civile.
Più nel dettaglio, gli Ermellini hanno richiamato consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In tema di rappresentanza processuale, qualora una parte sollevi tempestivamente l'eccezione di difetto di rappresentanza, sostanziale o processuale, ovvero un vizio della procura “ad litem”, è onere della controparte interessata produrre immediatamente, con la prima difesa utile, la documentazione necessaria a sanare il difetto o il vizio, senza che operi il meccanismo di assegnazione del termine ai sensi dell' art. 182 c.p.c., prescritto solo in caso di rilievo officioso”.
Di conseguenza, “in assenza di una immediata reazione all’eccezione, la nullità della procura diventa insanabile”.
Dunque, la concessione del termine perentorio di cui all’art. 182 c.p.c. per sanare il difetto di procura alle liti è applicabile soltanto qualora lo stesso venga sollevato dal giudice d’ufficio.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33814 del 16 novembre 2022, ha stabilito che, in coerenza con la disciplina dettata dall'Unione Europea, si ha una cessione di ramo d'azienda qualora il complesso di beni ceduto mantenga una propria identità, tale da consentirgli di proseguire l’attività svolta prima del trasferimento.
Nella vicenda in esame, il Tribunale rigettava la domanda di Tizio di essere ammesso allo stato passivo della società Alfa, divenuta sua datrice all’esito di una cessione del ramo d’azienda presso cui lo stesso era adibito. In particolare, il Tribunale negava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra Tizio e la predetta società.
A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale la comunicazione inviata al lavoratore a firma congiunta della società cedente e di quella cessionaria, relativa al trasferimento del ramo di azienda cui egli era addetto, documento decisivo ai fini della sua dimostrazione, negata dal Tribunale.
Gli Ermellini davano ragione a Tizio affermando che “La cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi. … Detta nozione è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23); posto che criterio decisivo per stabilire se si configuri un trasferimento ai sensi della Direttiva n. 2001/23/CE, è l’individuazione della circostanza che l'entità economica, indipendentemente dal mutamento del titolare, conservi la propria identità, il che risulta in particolare dal fatto che la sua gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa”.
Per il Tribunale Supremo, la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che condizionano l'operatività del trasferimento incombe su chi intenda avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c.; soprattutto, spetta alla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti che concretano il trasferimento stesso.
In virtù di ciò, la Suprema Corte accoglieva il ricorso proposto da Tizio.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale . (Cass. Civ. Sez. lav., 11/11/2022, n. 33424)
Concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro; inoltre, è stato altresì precisato che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 cc, non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finirebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo. (Trib. Monza sez. lav., 23/03/2022, n. 108)
La naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile in quanto il legislatore non ha stabilito – in caso contrario – la sanzione della nullità espressa come diretta a tutelare un interesse pubblico generale; ne consegue che la mancata previsione di un corrispettivo non rende nullo il patto né consente la sostituzione della lacuna con la disciplina legale. (Corte App. Venezia sez. lav., 22/02/2022, n. 26)
In tema di accertamento della violazione del patto di non concorrenza, ciò che rileva non è la forma in cui l’attività lavorativa sia prestata, se mediante lavoro subordinato o autonomo o ancora attraverso l’esercizio di una vera e propria impresa, ma l’attività in sé considerata, in un settore che possa definirsi come tale in concorrenza con il precedente datore di lavoro. (Trib. Forlì sez. lav., 05/10/2021, n. 216)
La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell’attività lavorativa deve essere contenuta – in base a quanto previsto dall’art. 2125 c.c., interpretato alla luce degli artt. 4 e 35 Cost. – entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo. Ne consegue che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita. (Cass. Civ. sez. lav., 01/09/2021, n. 23723)
In tema di patto di non concorrenza, la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo – quale vizio del requisito generale prescritto dall’art. 1346 c.c. – e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo «non è pattuito», ovvero sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, operano su piani distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. (Cass. Civ. sez. lav., 01/03/2021, n. 5540)
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro.
Nella vicenda in esame, i giudici di secondo grado rigettavano l’appello di Tizia e Caia avverso la sentenza di primo grado, che aveva rigettato le domande nei confronti della società datrice Alfa, relative alle differenze retributive, loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno.
Secondo la Corte distrettuale, la quale riteneva prescritto il diritto ai compensi, la prescrizione di cinque anni decorrerebbe da quando il rapporto è ancora in corso.
A questo punto, Tizia e Caia si rivolgevano alla Suprema Corte, che dava ragione alle due lavoratrici.
I giudici di piazza Cavour affermavano precisamente che “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Per il Tribunale Supremo, la prescrizione dei diritti che derivano dal rapporto di lavoro decorre da quando il rapporto è in corso soltanto nel caso in cui la reintegrazione risulta essere l'unico rimedio alla risoluzione illegittima dell'accordo di lavoro, come avviene per i dipendenti pubblici e per quelli privati, i quali godevano delle tutele di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori prima dell’entrata in vigore della Riforma Fornero.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Per comunione de residuo si intende quella comunione residuale e differita che viene a formarsi fra i coniugi nel momento in cui si scioglie il regime patrimoniale legale, purché i beni che vi rientrano non siano stati consumati prima di detto momento.
Costituiscono oggetto della comunione de residuo:
• beni mobili o diritti di credito verso terzi;
• stipendi e redditi professionali;
• utili netti ricavati dall'esercizio di un'impresa;
• canoni di locazione di beni personali;
• quote di società di persone;
• quote di società a responsabilità limitata ove l'acquisto sia connesso ad una effettiva partecipazione alla vita sociale;
• risparmi liquidi su conti correnti bancari e libretti di risparmio;
• dividendi derivati da partecipazioni sociali.
Contrariamente, non rientrano nella comunione de residuo i beni che vengono considerati “strettamente personali” (lettere c) e d) art. 179 c.c.), vale a dire:
• i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori;
• i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, eccetto quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la comunione de residuo ha natura obbligatoria: nel momento in cui si scioglie la comunione legale, il coniuge acquista un diritto di credito concernente la metà dei beni assoggettati alla comunione differita.
L’art. 191 c.c. elenca le cause dello scioglimento della comunione legale fra i coniugi, e, dunque, anche degli effetti della comunione de residuo. Esse sono:
• dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi;
• annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio;
• separazione personale;
• separazione giudiziale dei beni;
• mutamento convenzionale del regime patrimoniale;
• fallimento di uno dei coniugi.
Per quanto concerne il momento di apertura della comunione differita, occorre precisare che in caso di separazione giudiziale, la comunione de residuo ha inizio dall’emissione dell’ordinanza con la quale il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.
In caso di separazione consensuale, la comunione differita si apre il giorno dell’omologa del processo verbale di separazione, tuttavia i suoi effetti retroagiscono quando viene sottoscritto il verbale.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'