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La cessione d'azienda occulta

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Sempre più spesso ci capita di ricevere clienti portatori di ingenti crediti nei confronti di attività imprenditoriali le quali, al momento del tentativo di riscossione, risultano improvvisamente dileguate nel nulla oltrechè, ovviamente, in stato di liquidazione, se non già definitivamente cancellate dalle Camere di Commercio di competenza. Nella maggior parte dei casi, vuoi per la particolare scaltrezza dell’imprenditore fedifrago, vuoi per il fatto che l’impresa (purtroppo, e succede spesso) ha effettivamente chiuso i battenti per non essere più in grado di adempiere alle proprie obbligazioni, il credito va considerato come elargito in beneficienza ovvero, nella migliore delle ipotesi, “messo a perdita” ai sensi della vigente normativa fiscale. Non sempre, però, tutto è perduto. Può capitare infatti, ed anzi, capita frequentemente, che l’imprenditore-debitore ritenga di poter sfruttare la limitazione di responsabilità giuridica della propria organizzazione societaria, abbandonandola, affogata di debiti, al proprio destino, per poi risorgere, come fenice dalla cenere, sotto altro nome (sempre societario) ma svolgendo, impunemente, praticamente e senza soluzione di continuità, la stessa attività della prima, senza neanche subire il disposto dell’art.2560, II° co., c.c., così fastidiosamente incidente sul trasferimento dei debiti da azienda cedente ad azienda ceduta. La cospicua frequenza, come detto, di dette operazioni, e la conseguente ripetitività di azioni giudiziarie volte all’accertamento della sottostante operazione disonesta, hanno portato alla creazione della figura giurisprudenziale della “cessione d’azienda occulta”, secondo la quale, qui in estrema sintesi, laddove si riscontri, secondo i criteri che vedremo, una sostanziale identità, ovvero, un fattuale trasferimento d’azienda tra una società ed un'altra, la seconda potrà essere ritenuta giudizialmente responsabile dei debiti della prima. Analizzando infatti i numerosi casi concreti verificatisi, ci si accorge della sussistenza in tutti della stessa, ricorrente ed inequivocabile circostanza che il “secondo” (medesimo) imprenditore, vuoi per questioni affettive, vuoi, verosimilmente, per necessità di gestione dell’attività commerciale, non riesce mai a staccarsi completamente dalla prima azienda, se non facendo una blanda operazione di camouflage e dunque, esaminando le visure camerali delle due società riscontreremo: le stesse partecipazioni societarie, se seppure per quote diverse, e con aggiunta di nuovi soggetti; un identico oggetto sociale; una molto simile denominazione sociale; sede principale, o secondarie, immutate / scambiate .. etc.. Esaustivamente dirimente, sul punto, una sentenza del Tribunale di Treviso del 30 novembre 2018 n. 2395, tuttora immutata ed incontrastata, la quale, con ampia ed esauriente motivazione, ha rigettato l’opposizione ad un decreto ingiuntivo concesso in favore di un creditore di fatto subentrato nell’esercizio dell’azienda gestita da una -dissimulata- cedente, qui sostenendo la tesi della cessione occulta d’azienda e stabilendo che detta cessione occulta può essere provata dal creditore tramite presunzioni semplici, seppure gravi, precise e concordanti, chiaramente identificando e classificando le più rilevanti, quali, ad esempio:

  • l’identità della ditta;
  • l’identità della sede;
  • l’esercizio di attività sostanzialmente similare;
  • l’utilizzo di medesimi/simili recapiti e di domìni internet, tutti facilmente riconducibili alla “cedente”.

Insomma, così come nei più classici dei romanzi gialli, l’assassino torna sempre sulla scena del delitto, così l’imprenditore/debitore-cedente/ceduto torna, anzi non va mai via, dalla propria comfort-zone d’impresa. Ed è proprio lì che, se si vuole tentare di recuperare un credito ritenuto perso, bisogna andare a cercare.


IL DIRITTO AL CONTRADDITTORIO

Lunedì 27 luglio 2020 si festeggiano i 20 anni dello Statuto dei Diritti del Contribuente approvato con legge n. 212 del 27 luglio 2000. Si tratta di una legge ordinaria, più volte derogata (basta leggere i tre decreti-legge emanati durante il periodo COVID-19), tanto è vero che da più parti si auspica, giustamente, una costituzionalizzazione dello Statuto, soprattutto in vista della prossima generale riforma fiscale. In ogni caso, un principio importante previsto dallo Statuto è il diritto del contribuente al contraddittorio, disciplinato dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 cit.. Dopo vari orientamenti giurisprudenziali, finalmente, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 18184 del 29/07/2013, ha stabilito il seguente importante principio: «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento, termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l'illegittimità dell'atto impositivo emesso "ante tempus", poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio.». Peraltro, la Corte di Cassazione ha avuto altresì occasione di chiarire (Cass., 30/10/2018, n. 27623) che la sanzione della illegittimità dell'avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede, non presuppone che il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva, senza che tale interpretazione contrasti con il diritto comunitario, in quanto il maggior grado di tutela previsto a livello interno per i tributi non armonizzati dall'art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, per come interpretato dal diritto vivente della Corte di Cassazione, si muove in armonia piena con il principio di massimizzazione delle tutele, che consente ad un singolo ordinamento di apprestare livelli di protezione di un diritto fondamentale, quale è sicuramente quello al contraddittorio, più ampi rispetto a quelli garantiti dal sistema eurounitario per i tributi non armonizzati. Tanto premesso, sugli effetti della violazione del termine dilatorio di cui all' art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, è opportuno precisare, per quanto qui interessa, che esso è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione applicabile, oltre che all'ipotesi di verifica, anche a quella di accesso, concludendosi anche tale accertamento con la sottoscrizione e consegna del processo verbale delle operazioni svolte (Cass. 05/02/2014, n. 2593) ed a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell'impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all'acquisizione di documentazione, sia perché la citata disposizione non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell'accesso, in esito al quale comunque deve essere redatto un verbale di chiusura delle operazioni, sia perché, anche in caso di accesso breve, si verifica l'intromissione autoritativa dell'amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente, che deve essere controbilanciata dalle garanzie di cui al citato articolo 12 (Cass. 21/11/2018, n. 30026; Cass. 09/07/2014, n. 15624). Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio. Va anche considerato che, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la scadenza del termine di decadenza dell'azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell'inosservanza del termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della L. n. 212 del 2000 (Cass. Civ., 10 aprile 2018, n. 8749), ben potendo, invece, l'amministrazione offrire come giustificazione dell'urgenza la prova che l'esercizio nell'imminenza della scadenza del termine sia dipeso da fattori ad essa non imputabili che hanno inciso sull'attività accertativa fino al punto da rendere comunque necessaria l'attivazione dell'accertamento, a pena di vedere dissolta la finalità di recupero delle imposte ritenute non versate dal contribuente. Non è, quindi, l'imminenza della scadenza del termine ad integrare l'urgenza, ma, semmai, l'insorgenza di fatti concreti e precisi che possono rendere giustificata l'attivazione dell'ufficio quando non può più essere rispettato il termine dilatorio a pena di vedere decaduta l'amministrazione (per esempio in caso di reiterate violazioni delle leggi tributarie aventi rilevanza penale oppure per la partecipazione del contribuente ad una frode fiscale come da Cass. Civ., Sez. 6-5, 2 luglio 2018, n. 17211). Né la sanzione della illegittimità dell'avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni può essere irrogata solo qualora il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva. Tale termine deve essere, infatti, rispettato a prescindere dalla allegazione da parte del contribuente di avere subìto uno specifico nocumento alla propria difesa, non avendo potuto produrre nel ristretto lasso temporale concesso, osservazioni, memorie e documenti. Il termine è, infatti, stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede (Cassazione, Sez. Tributaria, ordinanze n. 27623/2018 e 16971/2019). L'art. 12, comma 7, della legge 212/2000, dunque, non prevede, per le verifiche svolte nei locali del contribuente, la c.d. prova di resistenza al fine di rendere operante l'invalidità dell'atto emesso senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni. Lecce, 18 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it


Legislatore "assente" ed il tribunale dice si alla falcidia dell'IVA nella procedura di composizione della crisi.

sovraindebitamento

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La svolta si realizza dopo che la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 7 aprile 2016 nella causa C-546/2014 - nota come sentenza Degano - ha incrinato il dogma dell’indisponibilità a livello nazionale del credito per un’imposta di natura sovranazionale.

Il legislatore nazionale, sulla scia dell’interesse manifestato in materia dalla Corte di Giustizia Europea, con la legge n. 232/2016 all’ art.1 comma 81 (legge di bilancio2017), in vigore dal 1 gennaio 2017, ha modificato l’art. 182 ter L.F., ora più adeguatamente rubricato quale trattamento dei crediti tributari e contributivi.

Il novellato art. 182 ter L.F. sancisce che "con il piano di cui all’art. 160 il debitore, esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo, può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art.67, terzo comma lettera d."

Con la modifica è venuto meno il trattamento preferenziale accordato all’IVA e alle Ritenute, e si consente al debitore di offrire il pagamento parziale o dilazionato dei tributi o contributi a condizione che il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato dalla vendita dei beni sui quali sussiste la causa di prelazione, in caso di liquidazione avuto riguardo al loro valore di mercato. Valore di mercato che deve essere attestato da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67 comma 3 lett. d) L.F. Il meccanismo è dunque quello, già noto, dell’art. 160 comma 2 L.F. per la falcidiabilità dei crediti privilegiati.

"L’equivoco dell’art.7 comma 1 della legge 3/2012".

La riforma del 2016 sulla L.F. si è ancora una volta disinteressata delle procedure di composizione della crisi, contribuendo così a generare confusione ed ambiguità, oltre a fondati sospetti di incostituzionalità.

L’art. 7 comma 1 è una delle rare disposizioni a carattere tributario contenute nella L. n. 3/2012, succ.mod.integr., questa, oltre a prevedere la possibilità che: "i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possono non essere soddisfatti integralmente, allorchè ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato" esclude a pena di inammissibilità dell’accordo proposto, "la soddisfazione parziale dei crediti IVA, di quelli relativi a tributi costituenti risorse proprie della UE e di quelli relativi a ritenute operate e non versate", consentendo, per essi, solo una dilazione di pagamento.

L’impostazione prevista dalla norma non è affatto innovativa, in quanto è perfettamente sovrapponibile all’art. 182-ter L.F. che, disciplina la transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione.

E proprio in virtù di tale coincidenza, ci si chiede quale sia la ragione per cui, oggi che nemmeno con il concordato con transazione fiscale è vietato falcidiare l’IVA e le ritenute alla fonte, solo i soggetti non fallibili non possono falcidiare l’Iva e le ritenute, se nella liquidazione del patrimonio sia dimostrato che tali crediti tributari sarebbero incapienti, sia pure parzialmente.

La sentenza della Corte di Bruxelles sembra chiaramente applicabile anche alle procedure da sovraindebitamento in quanto l’esperto indipendente, esplicitamente indicato, è certamente il gestore della crisi, l’ Organismo di Composizione della Crisi, e la procedura di liquidazione è certamente quella prevista e disciplinata dall’art. 14-ter e ss. della legge n. 3/2012. Quindi, non vi è violazione della normativa euro unitaria da parte della legge nazionale, come la legge n. 3/2012 sull’accordo di composizione della crisi che, consentendo la degradazione a chirografario di un creditore prelatizio incapiente, per effetto di una perizia redatta da un esperto indipendente, assicuri al creditore tributario per IVA e ritenute, un trattamento non deteriore rispetto a quello che avrebbe in caso di una procedura esecutiva liquidatoria. E’ evidente il contrasto dell’art. 7 c. 1 (nella parte in cui tale norma stabilisce che il credito per IVA e ritenute può essere oggetto solo di dilazione e non di falcidia), per violazione dell’art. 3 comma 1 della nostra Costituzione in materia di uguaglianza formale. Pare infatti irragionevole il trattamento diverso di situazioni uguali, come quella di un imprenditore commerciale, sopra soglia, che con un concordato preventivo con o senza transazione fiscale può falcidiare l’Iva e le ritenute, incapienti nel fallimento, proponendo al creditore tributario un trattamento non deteriore di quello che riceverebbe in caso di fallimento, rispetto a quella di un imprenditore sotto soglia, che con un accordo di composizione della crisi non può falcidiare l’IVA e le ritenute, incapienti nella liquidazione del patrimonio, potendo solo proporre al creditore tributario o contributivo la dilazione di pagamento. Altra ingiustificata disparità di trattamento si verifica tra un imprenditore commerciale sopra soglia ed un imprenditore agricolo, che abbiano le stesse dimensioni in termini di ricavi, attivo e debiti: il primo con il concordato (con o) senza transazione fiscale, può falcidiare l’IVA e le ritenute, il secondo no, potendo solo proporre una dilazione. Ed oggi con il nuovo art. 182-ter L.F., modificato con l’art. 1 comma 81 della legge 232/2016, tale disparità di trattamento è ancora più palese, perché è venuta meno la fattispecie in cui il sovra indebitato e debitore fallibile avevano la stessa previsione di infalcidiabilità: il concordato con transazione fiscale. Ancora una volta agli operatori (Tribunali, OCC, Professionisti) spetta l’arduo compito di dare coerenza al sistema.

E’ questa la giusta prospettiva per la lettura della recentissima pronuncia ( del 26/04/2017) con cui il Tribunale di Pistoia ha ammesso la falcidia dell’IVA in sede di procedura di composizione della crisi. Ma di certo, tale supplenza non fa venir meno la necessità di una modifica dell’ art. 7 comma 1 della L. n. 3/2012. Da più parti si auspica un intervento tempestivo e risolutore del legislatore, giacchè ad oggi l’unica via percorribile pare essere quella di sollevare la questione di legittimità costituzionale ( in sede di ammissione di una proposta di accordo o in sede di omologazione di un accordo di composizione in cui sia proposta la falcidia dell’IVA e/o delle ritenute alla fonte), così che la Corte Costituzionale rimuova questa disparità di trattamento dal nostro ordinamento giuridico.