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COMMENTO SULLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE N.15340/2024

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Alcune riflessioni su quanto affermato dalle Sezioni Unite

L'ordinanza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 15340 del 29/05/2024, su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Salerno, a nostro avviso, contiene punti di criticità. In detta ordinanza sono stati trattati due temi relativi ai contratti di mutuo a tasso fisso: - quello della determinatezza/determinabilità dell'oggetto; - quello della "trasparenza". Di straforo è stato toccato il tema dell'anatocismo.

I

Circa il tema della determinatezza/determinabilità dell'oggetto così viene inquadrata la questione: "L'indagine sulla determinatezza dell'oggetto del contratto attiene alla costruzione strutturale dell'operazione negoziale, cioè è volta a verificare che essa abbia confini ben definiti con riguardo all'an e al quantum degli interessi (non legali) che devono essere pattuiti sulla base di criteri oggettivi e insuscettibili di dare luogo a margini di incertezza, non sulla base di elementi indefiniti o rimessi alla discrezionalità di uno dei contraenti". Tale premessa è sostanzialmente corretta ma non può essere trascurato un dato: in un mutuo con rimborso rateale non contano solo l'an e il quantum ma è rilevante anche il quomodo. Peraltro, il quomodo incide sullo stesso quantum degli interessi, posto che la pluralità dei regimi finanziari di calcolo del piano di rimborso stanno a significare diversità quantitativa degli interessi a seconda che si scelga l'uno o l'altro. Secondo le Sezioni Unite l'esigenza di determinatezza/determinabilità dell'oggetto è soddisfatta con la "chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, della periodicità del rimborso e del tasso di interesse predeterminato". Qui, però, dobbiamo farci preliminarmente una domanda: cosa si intende per "oggetto del contratto"? L'oggetto, in un mutuo con rimborso rateale, non può non comprendere, fisiologicamente, necessariamente anche il criterio matematico di calcolo delle rate di rimborso del prestito. Per "oggetto del contratto" si deve intendere, quindi, il complessivo "regolamento degli interessi", ossia non solo l'indicazione del tasso (insieme all'importo del finanziamento, alla durata del prestito e alla periodicità del rimborso) ma anche il criterio prescelto attraverso il quale il tasso stesso viene applicato nel piano rateale. Il discorso entra ancor più in una zona di criticità allorquando viene richiamata la normativa del T.U.B. Scrive la Cassazione: "La doglianza concernente la mancata esplicitazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema 'composto' di capitalizzazione degli interessi non evidenzia un problema di determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto, previsto dall'art.117, comma 4, T.u.b. ('I contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati'), che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un 'prezzo' o costo aggiuntivo del prestito e all'applicazione del tasso sostitutivo". Il punto è che quell'elemento "tipizzante" del contratto (anzi, a maggior ragione se è "tipizzante"), intendendosi per esso il criterio prescelto di calcolo del piano di rimborso, entra a pieno titolo e con i crismi della necessarietà nella determinazione del regolamento degli interessi in quanto senza la sua esplicitazione resta del tutto indeterminato e indeterminabile l'oggetto circa le modalità con le quali viene fissato, all'interno del piano, il rapporto tempo per tempo (rata per rata) tra interessi e capitale. Per arrivare a tale conclusione non ci sarebbe neppure bisogno dell'art.117, comma 4, del T.U.B. ma è certo che il Testo Unico, nel prevedere quell' "elemento tipizzante", non fa altro che definire con più chiarezza, ove ce ne fosse bisogno, il contenuto indefettibile del contratto, quindi il suo oggetto minimo, fisiologico. Non c'entra nulla, poi, affermare, come leggiamo, che "l'indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto non va compiuta con riferimento alla convenienza del contratto e delle sue clausole ...". Infatti, nessuno dice questo. Il problema è del tutto oggettivo (non soggettivo) ed oggi sembra che passi per "determinato" un contratto che tale, oggettivamente, non può mai essere in assenza di quell'elemento.

II

Il secondo tema affrontato è quello della "trasparenza". Anche su questa nozione occorre essere più chiari e, se possibile, più profondi. Per "trasparenza" non può essere intesa semplicemente la forma di pubblicità di un prodotto. La "trasparenza" nei contratti bancari esige che l'intera dinamica precontrattuale e contrattuale ne sia concretamente permeata, in modo tale che il cliente sia nella condizione di prestare liberamente e consapevolmente il suo consenso su un oggetto chiaro e determinato. Scrive la Suprema Corte nel capitolo 16: "Come puntualmente osservato dalla Procura Generale, la differenza tra i due piani di ammortamento non dipende dal fatto che il tasso di interesse effettivo nel caso di ammortamento 'alla francese' sia complessivamente maggiore di quello nominale, quanto piuttosto dall'essere tale effetto riconducibile alla scelta concordata del tempo e del modo del rimborso del capitale". Ma il punto è proprio questo: cosa significa "concordare" una scelta? In tal senso la preventiva "informazione" costituisce una precondizione necessaria ma non sufficiente per definire un negozio concordato. Insomma, il consenso deve essere effettivo e risultare in modo "trasparente" dal contratto su tutti i punti qualificanti, compreso quello di cui stiamo discutendo. Sempre nel capitolo 16 le Sezioni Unite scrivono: "... l'art.117 T.u.b. non richiedeva e non richiede tuttora (a fortiori a pena di nullità) l'esplicitazione del regime di ammortamento nel contratto e analogamente, a livello sistematico, non la richiede la normativa più recente". Il commento sull'art.117, 4° comma, del T.u.b. si ferma qui e pare, francamente, troppo poco. Se è vero, infatti, che tale norma non cita espressamente il "regime di ammortamento", è pur vero che essa menziona una categoria astratta e più ampia che lo contiene" : "... il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati". Il criterio della capitalizzazione composta o della capitalizzazione semplice costituiscono "condizioni" attraverso le quali si declina il tasso di interesse e, in definitiva, si calcolano gli interessi da pagare. Vengono, poi, citate normative recenti per affermare che nessuna di esse prevederebbe l'obbligo di indicare il regime dell'ammortamento. Fra queste l'art.125 bis, comma 6, del T.u.b. che richiama l'art.121, comma 1, lettera e). Andrebbe considerata, però, anche la norma di cui all'art.125 bis, comma 5, del Tub, che così perentoriamente recita: "Nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse previsioni contrattuali". Ebbene, seguendo tale principio guida non possono essere richieste al consumatore le maggiori somme derivanti dall'utilizzo del criterio di capitalizzazione composta se non vi sia, a monte, una "espressa previsione contrattuale".

Concetto fondamentale espresso nella sentenza in commento è che le esigenze di trasparenza sarebbero soddisfatte dalla "chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, del tasso di interesse nominale (TAN) ed effettivo (TAEG), della periodicità (numero e composizione) delle rate di rimborso con la loro ripartizione per quote di capitale e interessi". Ciò che conta, in sostanza, è che sia soddisfatta "la possibilità per il mutuatario di conoscere agevolmente l'importo totale del rimborso mediante una semplice sommatoria" Questo e questo solo interessa al mutuatario, il quale non può avere alcuna pretesa giuridicamente tutelata di conoscere in che modo si formano i dati di quella "sommatoria" e, quindi, di decidere se prestare il suo consenso sui criteri adottandi. Qui la criticità appare importante e il ragionamento, che passa attraverso quello che sembra un salto (perché mai il mutuatario si dovrebbe “accontentare” dei meri dati quantitativi?), rischia di entrare in collisione proprio con il valore guida della trasparenza. Aggiunge la Suprema Corte: "... il contratto 'trasparente' è quello che lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto (cfr. Cass. n.28884/2023), consentendo al consumatore di avere piena contezza delle condizioni della futura esecuzione del contratto sottoscritto, al momento della sua conclusione, e di essere in possesso di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, cit., p.63 e 67); tale è quello di cui si discute, avendo l'istituto di credito assolto agli obblighi informativi a suo carico tramite il piano di ammortamento allegato al contratto, in base al quale al cliente è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato". Insomma, potrebbe sembrare che la trasparenza implichi solo che il mutuatario possa “comprare” un prodotto preconfezionato, non anche che possa esigere la sua partecipazione attivanel processo formativo del contratto così che ogni suo elemento costitutivo sia espressione di una negoziazione, di una scelta, quale quella se gli interessi nel piano di ammortamento debbano essere calcolati sul capitale residuo o sul capitale in scadenza. Qui, invero, rischia di entrare in crisi la struttura stessa del contratto, che è l'"accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale". Si potrebbe, allora, toccare la nullità ai sensi degli artt.1418, 2° comma-1325 n.1 c.c., ossia l'assenza di "accordo fra le parti", elemento principe, basilare del contratto. Tornando al "piano di ammortamento, esso consente al mutuatario di ricavare i dati quantitativi degli interessi da pagare ma non di comprendere il criterio di calcolo adottato. Sembrerebbe che ciò che conti, ai fini della trasparenza, sia che venga fornita al cliente una informativa precontrattuale contenente il "riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi, anziché mediante ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più ". Si può osservare che se l'esplicitazione della formula matematica (della capitalizzazione composta o semplice) non è comprensibile ai più, ancor meno, evidentemente, tale comprensibilità può aversi leggendo puramente e semplicemente il piano di ammortamento. Non si comprende, invece, quali problemi ci sarebbero a produrre una "formula lessicale" chiara e comprensibile, tipo: "si conviene che il calcolo delle rate nel piano di ammortamento avverrà con il criterio detto 'della capitalizzazione composta', ossia calcolando gli interessi di ogni singola rata sull'intero capitale residuo nel periodo corrispondente alla rata stessa". Il cliente sarebbe consapevole di tale "condizione" (art.117, 4° comma, T.U.B.) e potrebbe, quindi, decidere se prestare o meno il consenso.

III

La sentenza delle Sezioni Unite ha toccato anche il tema dell'anatocismo. Facendo ogni dovuta riserva al singolo caso, ha comunque affermato che il piano di ammortamento alla francese "standardizzato" non comporta anatocismo perché nella formazione delle rate non c'è mai applicazione di interessi su interessi. Il discorso, però, si ferma a ciò che appare e non ci si pone il problema che l'anatocismo possa annidarsi come costo occulto, il che avviene proprio quando il mutuatario non abbia prestato il consenso sul sistema della capitalizzazione composta. In questo caso la frazione del capitale che, applicando il criterio della capitalizzazione semplice (interessi sul capitale esigibile, cioè in scadenza), sarebbe stata detratta dal capitale residuo, resta lì a generare interessi. Quella frazione, cioè, sta dove non dovrebbe stare, ossia sul conto del capitale residuo e se ciò è vero, essa costituisce interesse sul quale si calcolano altri interessi.

IV

C'è un altro punto da esaminare. A proposito del tema della "trasparenza", le Sezioni Unite ritengono idoneo a soddisfarla il piano di ammortamento presentato dalla banca al cliente, in quanto questi riceve(rebbe) tutte le informazioni di cui ha bisogno. In tal modo, si spiega, "è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato" In quell'avverbio - "eventualmente" - c'è tanto da capire. Sarebbe interessante, infatti, sapere in quanti casi, in quale percentuale, prendendo la mole dei mutui stipulati in Italia negli ultimi trent’anni, sia stata applicata la capitalizzazione semplice e non quella composta. Qui il discorso della "trasparenza" si lega inevitabilmente a quello della concorrenza.

V

Le Sezioni Unite hanno dichiaratamente tenuto fuori dalla sentenza i casi nei quali manchi l'allegazione del piano di ammortamento. Quid iuris in tale caso? La risposta non dovrebbe essere troppo complicata, partendo dal dato che secondo la Suprema Corte il piano di ammortamento offre il "riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi" . Il piano di ammortamento soddisfa, secondo la Suprema Corte, l'esigenza della trasparenza tanto che è ritenuto inutile il "ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più". Ora, se viene a mancare il piano di ammortamento, tutto quel discorso non può più autosostenersi e, a quel punto, non dovrebbero esservi dubbi sulla indeterminatezza dell'oggetto del contratto e sulla violazione delle regole sulla trasparenza di cui all'art.117 T.U.B.

VI

Infine, è rimasto fuori dall'ambito del pronunciamento delle Sezioni Unite il tema dei mutui a tasso variabile. Qui la Suprema Corte ha richiamato la sentenza della C.G.U.E. del 13-7-2023, C-265/22, che ha così statuito: "Una clausola che preveda, nell'ambito di un contratto di mutuo ipotecario, una remunerazione di tale mutuo mediante interessi calcolati sulla base di un tasso variabile con riferimento a un indice ufficiale, il requisito di trasparenza deve essere inteso nel senso che impone, in particolare, che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie. Il giudice nazionale deve verificare non solo il contenuto delle informazioni fornite dal mutuante nell'ambito della negoziazione del contratto di mutuo in discussione, ma altresì il fatto che i principali elementi relativi al calcolo dell'indice di riferimento siano facilmente accessibili, grazie alla loro pubblicazione". Peraltro, in tale sentenza la Corte di Giustizia ha espresso anche un principio che tende ad abbattere ogni comportamento di abusività, di mancanza di trasparenza, di pratica occulta, il tutto secondo una portata ampia, come tale non solo, a nostro avviso, relativa ai mutui a tasso variabile ma anche a quelli a tasso fisso: "Una clausola contrattuale deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile e, nel caso dei contratti di mutuo, gli istituti finanziari debbono fornire ai mutuatari informazioni sufficienti a consentire a questi ultimi di assumere le proprie decisioni con prudenza e in piena cognizione di causa. Il giudice nazionale, nel valutare le circostanze ricorrenti al momento della conclusione del contratto, e deve verificare che sia stato comunicato al consumatore interessato il complesso degli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno e che gli consentono di valutare quest'ultima, segnatamente, per quanto riguarda il costo totale del mutuo. Svolgono un ruolo determinante in siffatta valutazione, da un lato, la questione di accertare se le clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile tale da consentire a un consumatore medio, ossia un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, di valutare un costo del genere e, d'altro lato, la menzione o la mancata menzione nel contratto di credito delle informazioni considerate come essenziali alla luce della natura dei beni o dei servizi che costituiscono l'oggetto del suddetto contratto".


Responsabilità civile: misura e decorrenza degli interessi legali

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Le SS.UU hanno ricordato che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c.

Legittimità degli interessi legali nella responsabilità civile

In tema di responsabilità civile, il Giudice di primo grado, era stato chiamato a pronunciarsi in ordine ad un’opposizione a precetto nell’ambito del quale l’opposta aveva rilevato che, per determinare l'importo dovuto dal debitore a titolo d'interessi, occorreva avere riguardo al parametro di cui all'art. 1284, 4 comma, c.c., che individua la decorrenza della debenza degli stessi dalla proposizione della domanda giudiziale, mentre, per la quantificazione degli interessi, occorreva fare riferimento al saggio previsto dalla legislazione speciale per i ritardi nei pagamento sulle transazioni commerciali, trattandosi di credito di lavoro.

Rispetto alle suddette contestazioni, il Tribunale adito aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, ai fini della risoluzione della seguente questione di diritto “se l’art. 429, comma 3, c.p.c. - nella parte in cui stabilisce che alla condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro debbano aggiungersi «gli interessi nella misura legale», oltre che il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito - costituisca norma speciale rispetto all'art. 1284, comma 4, c.c., da ritenersi, dunque, inapplicabile in caso di crediti di lavoro, oppure se, al contrario, il citato art. 429 c.p.c. contenga un rinvio all'art. 1284 c.c. nella sua interezza, tale da includere anche il quarto comma e così, "gli interessi legali maggiorati" (o "super-interessi") a far data dalla domanda giudiziale». Il giudice rimettente aveva inoltre posto la questione pregiudiziale avente ad oggetto “la legittimità dell'estensione del tasso d'interesse stabilito al quarto comma dell'art. 1284 c.c. anche alle obbligazioni extracontrattuali, avuto riguardo all’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo”.

Interessi dovuti nella misura legale e dal momento della proposizione della domanda

In ordine alla questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite, sopra rappresentata, la Corte, con sentenza n. 12974/2024, ha dichiarato l’inammissibilità del rinvio pregiudiziale proposto.

Nella specie, la Corte ha ripercorso i precedenti formatesi in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo cui “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. In ragione del sopracitato principio, pronunciato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 12449/2024, il Giudice di legittimità ha affermato che “Alla luce di tale principio di diritto, che interpreta la portata del titolo esecutivo giudiziale, là dove, come nel caso di specie, si limiti a disporre il pagamento degli interessi senza alcuna specificazione, nel senso della spettanza degli interessi legali nella misura di cui al primo comma dell’art. 1284, la risoluzione della questione di diritto posta non ha rilievo ai fini della definizione del giudizio”, con la conseguenza che, come detto, la Corte, dopo aver chiarito la disciplina applicabile nel caso di specie, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto.


Transazione parziale: fa venir meno la solidarietà passiva

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La Cassazione ricorda che il creditore che decide di stipulare una transazione parziale rinuncia in tal modo alla solidarietà passiva

Il sinistro e l’accordo transattivo parziale Nel caso in esame, a seguito di un sinistro stradale, gli eredi del danneggiato aveva sottoscritto un atto di transazione con il danneggiante di carattere parziale. In ordine a tale circostanza il Giudice di merito aveva affermato che il condebitore solidale, estraneo alla transazione in esame, non poteva giovarsi degli effetti favorevoli della transazione parziale, non sussistendo la fattispecie di cui all’art. 1304 cod. civ., cioè che la transazione avesse ad oggetto l’intero debito. In questo senso la Corte d’appello aveva detratto gli acconti già versati, nonché le somme versate in ragione della suddetta transazione, rideterminando la liquidazione il danno complessivamente da risarcire confermando gli esiti cui era giunto il Giudice di primo grado. Avverso tale decisione aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione il condebitore estraneo alla transazione.

Gli effetti liberatori dei condebitori nelle transazioni parziali

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2426/2024, ha accolto, per quanto qui rileva, i motivi di ricorso proposti dal ricorrente. In particolare, la Corte ha affermato che era pacifico il fatto che “la transazione conclusa dagli eredi della vittima fu soltanto parziale, con accettazione di una somma complessiva per tutti i familiari; dal ricorso si apprende (…) che in quell’occasione i transigenti riconobbero reciprocamente un concorso di responsabilità pari al 20 per cento a carico del conducente (..); ma, in fondo, quest’ultimo elemento è irrilevante, perché rispetto alla (condebitrice) oggi ricorrente quella transazione rimane una res inter alios, come tale del tutto priva della possibilità di influire sul successivo riparto delle responsabilità compiuto dalla Corte d’appello civile nella sentenza qui in esame”. Sulla scorta di tali presupposti, ha spiegato il Giudice di legittimità, la Corte d’appello aveva poi calcolato il debito residuo gravante sulla (condebitrice estranea alla transazione) (unitamente al proprietario e al conducente) detraendo dall’intera liquidazione le somme già percepite dai danneggiati a titolo di provvisionale e a titolo di transazione”. La Corte ha evidenziato che tali conclusioni trovano fondamento normativo, negli artt. 1304 e 1311 c.c., che regolano gli effetti della transazione parziale. Nella specie, l’art. 1304, primo comma, c.c. dispone che la transazione “fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”. Occorre altresì precisare che tale norma si occupa unicamente della “transazione che abbia ad oggetto l’intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata (spettando al giudice del merito verificare quale sia l’effettiva portata contenutistica del contratto), giacché è la comunanza dell’oggetto della transazione stessa a far sì che possa avvalersene il condebitore solidale pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio per cui il contratto produce effetti soltanto tra le parti”. Ne consegue, ha rilevato la Corte, che “poiché nel caso in esame la transazione era parziale, nessun margine di approfittamento poteva sussistere a favore degli altri debitori”. Per quanto invece attiene all’art. 1311 c.c. esso stabilisce che la transazione parziale “ha come suo effetto tipico quello di sciogliere il vincolo della solidarietà tra i condebitori (…). La transazione parziale, infatti, è tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne”. Sul punto la Corte ha proseguito il proprio esame rilevando che “D’altra parte, non potrebbe essere diversamente. Se, infatti, il creditore potesse transigere con uno dei debitori mantenendo il vincolo della solidarietà fra tutti, si determinerebbe l’effetto, palesemente irrazionale e ingiusto, di un suo possibile approfittamento in danno del debitore o dei debitori rimasti, ai quali potrebbe essere chiesto l’intero”. Nei termini anzidetti, ha concluso la Suprema Corte, il Giudice di merito ha compiuto un errato calcolo delle somme da liquidare in quanto “non avrebbe potuto condannare (la condebitrice estranea alla transazione) (unitamente al proprietario e al conducente), (..), ma avrebbe dovuto, correttamente, condannare le parti suindicate (cioè i debitori rimasti) al pagamento della metà del danno complessivo, a prescindere dalla transazione, la quale andava a coprire la quota di responsabilità del conducente (..). E nessuna influenza poteva avere, ai fini di una diversa decisione, il fatto che gli eredi (…) avessero accettato, in sede di transazione parziale, un risarcimento rivelatosi poi inferiore alla metà del danno complessivamente liquidato” Quanto appena riferito, ha riferito la Corte è anche confermato dalla regola secondo cui “il creditore che decide di stipulare una transazione parziale deve essere consapevole che in tal modo rinuncia alla solidarietà; per cui, se, come nel caso in esame, all’esito del definitivo accertamento le quote di responsabilità dei due debitori (originariamente) solidali risultano uguali, egli non può esigere dal debitore rimasto altri che la metà del danno complessivamente liquidato dal giudice, indipendentemente dalla somma concordata in sede transattiva”.


Riconosciuta la possibilità di costituire servitù di parcheggio

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Le Sezioni Unite ammettono la possibilità di costituire servitù di parcheggio su fondo altrui purchè sia attribuito un vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione

L’utilità della servitù di parcheggio La vicenda prende avvio dalla decisione emessa dalla Corte d’appello di Venezia con cui veniva confermata la sentenza di primo grado in ordine al rigetto della domanda di nullità della servitù di parcheggio temporaneo, transito e manovra di automezzi in genere. Sul punto il Giudice di secondo grado aveva in particolare rilevato come l’appellante non avesse “dato adeguata prova della carenza di utilità della servitù, utilità che invece è data proprio dalla possibilità di fornire piazzali adeguati alla azienda (…) essa, quindi, consiste nel più comodo sfruttamento del fondo dominante a vocazione industriale, e può concretizzarsi anche in maggiore amenità e comodità”. Avverso tale decisione la parte interessata alla dichiarazione di nullità della servitù di parcheggio aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il contrasto giurisprudenziale in ordine alle servitù di parcheggio La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 3925/2024, prima di pronunciarsi in ordine alla specifica questione oggetto del ricorso sottoposto alla sua attenzione, ha ripercorso gli orientamenti interpretativi formatesi in ordine all’ammissibilità o meno delle servitù di parcheggio.

A tal proposito, la Corte ha ricordato un primo orientamento formatosi a partire dal 2004, secondo cui “il parcheggio di autovetture su di un'area può costituire legittima manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo, ma non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, diritto caratterizzato dalla cosiddetta "realitas", intesa come inerenza al fondo dominante dell'utilità così come al fondo servente del peso, mentre la mera "commoditas" di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietar”.

In contrapposizione alla suddetta interpretazione, la Corte ha fatto riferimento alla prevalente dottrina che si era invece espressa favorevolmente alla costituzione di servitù di parcheggio. Tale orientamento, ha evidenziato la Corte, aveva costantemente “osservato che nell’ipotesi di costituzione di servitù di parcheggio, la facoltà di parcheggiare l’auto sul fondo servente è certamente idonea ad arrecare una utilità al singolo, ma allo stesso tempo arreca un vantaggio per il fondo dominante rendendolo maggiormente utilizzabile”. Rispetto a tali servitù, ha spiegato la dottrina, oltre ai consueti requisiti richiesti dalla legge, è anche necessario che la servitù soddisfi “un’utilità specifica e quindi deve costituire un vantaggio diretto per il fondo dominante, uno strumento per migliorare l’utilizzazione di quest’ultimo”.

Dopo aver approfondito i contrapposti orientamenti, le Sezioni Unite hanno messo in luce come la questione “si pone quindi non già in termini di configurabilità in astratto della servitù di parcheggio, ma di previsione, in concreto, di un vantaggio a favore di un fondo cui corrisponda una limitazione a carico di un altro fondo, come rimodulazione dello statuto proprietario, a carattere tendenzialmente perpetuo”.

L’ammissibilità delle servitù di parcheggio Posto i suddetti orientamenti interpretativi, le Sezioni Unite hanno dichiarato di voler aderire alla tesi favorevole alla costituzione delle servitù di parcheggio. A tal proposito, la Corte ha affermato che “La tesi favorevole alla costituzione della servitù, oltre ad essere in linea con il sistema, esalta in definitiva il fondamentale principio dell’autonomia negoziale (art. 1322 cc) che, si badi bene, non sfocia in una libertà illimitata, dovendosi sempre confrontare con il limite della meritevolezza di tutela degli elementi dell’accordo”. Oltre a tali elementi, ha messo in rilievo la Corte, devono essere anche rispettati gli ulteriori requisiti dello “ius in re aliena quali l'altruità della cosa, l'assolutezza, l'immediatezza (..), l'inerenza al fondo servente (..) l'inerenza al fondo dominante (..) la specificità dell'utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù affinché non si incorra nella indeterminatezza dell’oggetto e nello svuotamento di fatto del diritto di proprietà”. Al termine del proprio esame e nel dirimere il contrasto giurisprudenziale formatosi sul punto, le Sezioni Unite hanno quindi riaffermato il seguente principio di diritto: “In tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude la costituzione, mediante convenzione, di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo sul fondo altrui purché, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale e in particolare la localizzazione”. La Corte ha poi concluso il proprio esame in ordine ai diversi motivi d’impugnazione proposti dal ricorrente, accogliendo il primo ed il terzo e dichiarando assorbiti i restanti.


Scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso

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Scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso In caso di scioglimento dell'unione civile la durata del rapporto si estende anche al periodo di convivenza anteriore alla formalizzazione dell'unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 76/2016

Il caso: la crisi dell’unione e l’assegno di mantenimento La vicenda in esame ha interessato una coppia omosessuale unita civilmente ai sensi della legge n. 76/2016 che, constata la crisi della relazione, ha domandato al Giudice di provvedere allo scioglimento della propria unione. In sede di scioglimento, il Tribunale di Pordenone aveva riconosciuto ad una delle partener un assegno da corrispondersi mensilmente all’altra, richiamando, a tal proposito, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità “in tema di assegno divorzile ed attribuendo rilievo assorbente alla funzione compensativa-risarcitoria, consistente nell'indennizzare l'avente diritto per la perdita di chances determinata dalla rinuncia a migliori opportunità di lavoro, in funzione dell'unità e dello svolgimento della vita familiare”. La parte tenuta alla corresponsione dell’assegno periodico aveva tuttavia impugnato tale provvedimento dinanzi alla Corte d’appello di Trieste che aveva accolto le richieste dell’appellante, rigettando la domanda di riconoscimento dell’assegno proposta dalla controparte. Avverso la suddetta decisione veniva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione e, in considerazione della questione di massima di particolare importanza, la controversia veniva sottoposta all’esame delle Sezioni Unite. Nella specie, la questione ha riguardato la rilevanza, ai fini del riconoscimento del diritto all'assegno in favore del componente dell'unione civile ai sensi del combinato disposto dell'art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016 e dell'art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, di circostanze fattuali anteriori all'entrata in vigore della legge n. 76 cit., nonché della costituzione stessa dell’unione civile, idonee ad incidere sull'assegno divorzile in ragione delle diverse componenti (assistenziale e perequativo-compensativa) assegnate a tale contributo dal diritto vivente consolidatosi a partire dall'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287).

Unione civile: durata del rapporto estesa anche alla convivenza Le Sezioni Unite investite della suddetta questione hanno accolto, con sentenza n. 35969/2023, il ricorso proposto, dando rilevanza al periodo di convivenza che aveva preceduto l’unione civile tra le parti. La Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa e dato atto del contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, si è soffermata sulla specifica questione giuridica sottoposto al proprio esame. Nella specie, il Giudice di legittimità si è interrogato in ordine alla portata da attribuire al rinvio, contenuto nell'art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, alla disciplina dell'assegno divorzile, ovvero se lo stesso “debba essere inteso nel senso che il legislatore abbia voluto rapportare gli effetti patrimoniali dell'unione unicamente al periodo in cui la stessa si è svolta, deliberatamente tralasciando tutto ciò che ha riguardato il periodo antecedente, pur se caratterizzato dalla preesistenza di una relazione affettiva, oppure nel senso che il legislatore non abbia voluto prendere in considerazione tale aspetto, lasciando all'interprete la valutazione in ordine agli effetti della nuova norma attraverso il rinvio a quella dettata in materia di divorzio”.

Per affrontare l’indagine sopra rappresentata, la Corte ha anzitutto ricordato gli insegnamenti resi dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 18287/2018, in tema di criteri di determinazione dell’assegno divorzile, che avevano favorito un'interpretazione dell'art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970 più coerente con i principi costituzionali di uguaglianza, pari dignità dei coniugi, libertà di scelta, reversibilità della decisione ed autoresponsabilità, riconoscendo in tale nuovo contesto, un ruolo di cruciale importanza alla durata del rapporto ed alle scelte compiute dai coniugi, assegnando così un'indubbia valorizzazione del profilo fattuale del rapporto familiare.

Ciò posto, le Sezioni Unite affrontano lo specifico caso della convivenza di fatto che precede l’unione civile, respingendo le osservazioni formulate dal Procuratore generale sul punto “secondo cui, nel caso in cui la costituzione dell'unione sia stata preceduta da un periodo di stabile convivenza, l'estensione a quest'ultima della valutazione finalizzata al riconoscimento dell'assegno dovrebbe ritenersi preclusa dal comma sessantacinquesimo dell'art. 1 della legge n. 76 del 2016, il quale, nel disciplinare la cessazione della convivenza di fatto, limita l'obbligo di solidarietà dell'ex convivente alla corresponsione degli alimenti in favore dell'altro convivente che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”. Tuttavia, la Corte spiega che tale disposizione “non è applicabile alla fattispecie in esame, riferendosi a quella, radicalmente diversa, in cui, indipendentemente dalle eventuali intenzioni dei conviventi, la convivenza di fatto si concluda senza che si sia proceduto alla formalizzazione del vincolo”.

Sempre riguardo a tale argomento, la Corte prende in considerazione l’ulteriore aspetto dell’ordinanza interlocutoria, vale a dire “la possibilità di tenere conto, ai fini del riconoscimento dell'assegno in caso di scioglimento dell'unione civile, del periodo di convivenza che ne abbia preceduto la costituzione, ove lo stesso risalga in tutto o in parte ad epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 76 del 2016”. Rispetto a tale elemento, la Corte ha affermato che “qualora (…) come nella specie, la controversia abbia ad oggetto lo scioglimento di un'unione civile costituita da persone del medesimo sesso, l'esclusione della possibilità di prendere in considerazione, ai fini del riconoscimento e della liquidazione dell'assegno, il periodo di convivenza che ha preceduto l'entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 comporterebbe la frustrazione delle finalità perseguite dalla medesima legge, impedendo di tenere conto delle scelte (spesso determinanti anche per il futuro) compiute dalle parti nella fase iniziale del rapporto, in cui la convivenza ha dovuto necessariamente svolgersi in via di mero fatto per causa ad esse non imputabile, essendo all'epoca preclusa alle coppie omosessuali la possibilità di contrarre un vincolo formale”.

Sulla scorta di quanto sopra rappresentato, la Corte ha in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “In caso di scioglimento dell'unione civile, la durata del rapporto, prevista dall'art. 5, sesto comma, della legge n. 898 del 1970, richiamato dall'art. 1, comma venticinquesimo, della legge n. 76 del 2016, quale criterio di valutazione dei presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all'assegno in favore della parte che non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli, si estende anche al periodo di convivenza di fatto che abbia preceduto la formalizzazione dell'unione, ancorché lo stesso si sia svolto in tutto o in parte in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 76 cit.”.